Storia del femminismo: ondate e correnti dalle suffragette ai social network

Per qualcuno è una brutta parola, eppure ripercorrere le tappe del femminismo ci ricorda quanto ci ha permesso di ottenere e quando ancora può aiutarci. Dalle suffragette all'intersezionalità, la storia di un movimento che ha cambiato il mondo.

Femminismo è uno di quei termini che negli anni, non si sa bene come e perché, sembra essere diventato una brutta parola, come buonismo. Sembra quasi essere diventata l’etichetta per le “donne che odiano gli uomini” e bruciano reggiseni, ovviamente brutte, pelose e arrabbiate. E sono molte le donne che, seppur femministe nelle loro pratiche e nelle loro vite quotidiane, rifiutano di definirsi così.

Riflettere su cosa sia davvero il femminismo, quali conquiste ci abbia permesso di guadagnare – e a che prezzo, con quali lotte – può essere la strada non solo per rivalutare il termine, ma per comprendere quanto ancora esso sia determinante per cambiare società che ogni giorno di più mostrano le proprie ingiustizie e fragilità.

La storia del femminismo

Convenzionalmente, si tende a dividere la storia del femminismo in «ondate», che si susseguono dalle origini a oggi. Chiaramente, come ogni convenzione storiografica si tratta di una rilettura ex post che, come tale, presenta limiti e problematicità, ma che è utile per aiutare a orientarci nella storia – complessa – di uno dei fenomeni più importanti del mondo contemporaneo, eppure ancora profondamente sconosciuto.

La prima ondata: le suffragette

La prima ondata è quella del femminismo delle origini, caratterizzata dalla lotta delle suffragette per l’ottenimento del diritto di voto e altri diritti civili, come l’istruzione, il lavoro retribuito e la gestione autonoma delle proprietà. Caratterizzandosi come un fenomeno statunitense ed europeo, il movimento per i diritti politici e civili è stato un movimento medio-altoborghese, composto per la maggior parte da donne bianche e istruite, che non includevano nella loro battaglia le sorelle nere o appartenenti alla classe operaia e popolare.

In alcuni casi, la battaglia per il voto si univa alla lotta abolizionista, ma questa non è stata una caratteristica costante di questo movimento che, attraverso manifestazioni, azioni dimostrative e violente è riuscito per la prima volta a incrinare l’onnipotenza patriarcale e a far avanzare la lotta per l’uguaglianza, ottenendo diritti finora negati sulla base che le donne erano naturalmente inferiori. 

La seconda ondata: il corpo è mio e decido io

La seconda ondata femminista è quella che si tende tradizionalmente a identificare con il femminismo tout court: il femminismo degli anni ’60 e ’70, che dal fermento politico e culturale degli USA si estende a tutta Europa, e oltre. Nel 1963, con la pubblicazione de La mistica della femminilità di Betty Friedan, il femminismo assume un nuovo volto e nuove rivendicazioni, concentrandosi soprattutto sulla diseguaglianza di genere, sul diritto all’aborto, sulla sessualità, la famiglia e sul diritto all’accesso al mondo professionale.

Nel 1966 proprio Friedman fonda NOW, la “National Organization for Women”, la cui influenza cresce sempre più, fino a raggiungere l’Europa scossa dai movimenti del 1968.

La fine del decennio, e tutti gli anni ’70, sono caratterizzati da un nuovo leitmotiv, in apparenza banale ma dalla forza dirompente, coniato da Carol Hanisch nel 1970: il personale è politico.

La riappropriazione dei corpi da parte delle donne è passata soprattutto dai gruppi di autocoscienza, dai consultori femministi e dai corsi di self-help della fine degli anni Sessanta. […] La condivisione delle storie personali permetteva a ognuna di riconoscersi nelle esperienze delle altre, e di mettere in discussione tutto il contesto sociale, ma anche politico e culturale, in cui erano inserite e di cui subivano le oppressioni. L’autocoscienza è un processo collettivo ed individuale, che parte da ognuna, si esplica nel collettivo con il sostegno di tutte e torna all’individua (sì, al femminile).

Ed è proprio il corpo al centro del dibattito di quegli anni: il corpo regolato da altri, sessualizzato dallo sguardo maschile, intrappolato tra le mura di casa. Ed è proprio sul corpo che arrivano le prime, grandi vittorie: aborto, pillola anticoncezionale, legge sullo stupro, maggiore libertà sessuale e dei ruoli di genere.

Sembra impossibile che conquiste così grandi siano state ottenute in così poco tempo: in parte per questo, e per il generale reflusso che ha interessato gli anni ’80, il decennio successivo vedrà invece un ripiegarsi del femminismo, diviso inoltre sul dibattito su lavoro sessuale e pornografia (la cosiddetta “sex war”), e solo negli anni ’90 si tornerà a parlare di lotte e rivendicazioni.

La terza ondata: verso l’intersezionalità

La cosiddetta «Third Wave» si è sviluppata a cavallo tra gli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio. A ridare forza alle istanze femministe, ancora una volta prima negli Stati Uniti e poi a macchia d’olio in Europa e nel resto del mondo, sono state da un lato la nascita della sottocultura punk femminista “riot grrrl a Olympia e la nomina di Clarence Thomas alla Corte Suprema degli USA, nonostante la testimonianza televisiva di Anita Hill che nel 1991 — di fronte a un comitato giudiziario del Senato tutto maschile e composto da uomini caucasici — aveva rivelato che Thomas l’avesse molestata sessualmente. Una testimonianza ignorata, visto che Thomas è stato confermato alla Corte Suprema con 52 voti a favore contro 48.

In risposta, Ms. Magazine pubblicò l’articolo di Rebecca Walker, “Becoming the Third Wave”, la pietra fondante della terza ondata femminista:

Quindi scrivo questo come un appello a tutte le donne, in particolare alle donne della mia generazione: lasciate che la conferma di Thomas serva a ricordarvi, come lo ha fatto per me, che la lotta è tutt’altro che finita. Lasciate che questo rifiuto dell’esperienza di una donna vi spinga alla rabbia. Trasformate quell’indignazione in potere politico. Non votate per loro a meno che non lavorino per noi. Non fate sesso con loro, non dividete il pane con loro, non nutriteli se non danno priorità alla nostra libertà di controllare i nostri corpi e le nostre vite. Non sono una femminista post femminista. Io sono la terza ondata.

Diversamente dalla seconda ondata, che era stata ancora principalmente bianca, di classe media e cisgender, ora ci si interroga su come rendere il femminismo più inclusivo e sulla necessità di smantellare le strutture di potere che dividono e classificano le donne di tutto il mondo.

Se, infatti, importanti diritti erano stati raggiunti, la strada da fare era ancora lunga e il femminismo non poteva essere dato per scontato «come l’acqua», e che era il momento di includere le donne che erano rimaste escluse.
Già alla fine degli anni ’80 era nato il concetto di femminismo intersezionale, ed è proprio in questa direzione che il femminismo cammina ancora oggi.

La quarta ondata: una storia da scrivere ogni giorno

Inquadrare la quarta ondata del femminismo è più difficile, perché è quella che stiamo vivendo in questo momento. Addirittura, c’è un dibattito aperto in cui si discute se si possa veramente parlare di quarta ondata femminista e persino la metafora dell’onda è stata messa in discussione perché funzionale a descrivere il percorso del femminismo statunitense ma meno calzante per riflettere su tutto quello che è avvenuto fuori dagli USA, ma che non è stato meno importante per la liberazione delle donne.

Generalmente, l’inizio della quarta ondata viene individuato nel 2012 – in alcuni casi nel 2008, o nel 2013 – per parlare di un nuovo femminismo caratterizzato da non solo da un focus sull’emancipazione delle donne, ma anche sull’uso dei social e l’intersezionalità. Parlando di questa nuova ondata, intervistandone le protagoniste, e i protagonisti, Kira Cochrane scriveva sul Guardian nel 2013:

Quello che sta succedendo ora sembra di nuovo qualcosa di nuovo. È definito dalla tecnologia: strumenti che consentono alle donne di costruire online un movimento forte, popolare e reattivo. […] Sono cresciute sentendosi dire che il mondo era post-femminista, che il sessismo e la misoginia erano finiti e le femministe dovrebbero mettere in valigia i loro cartelli. Allo stesso tempo, le donne agli occhi del pubblico erano spesso emarginate o sessualizzate, rappresentate esattamente nello stesso modo in cui lo erano state negli anni ’70, anche se sotto un sottile velo di ironia. […] Ci sono, ovviamente, differenze di opinione quando si tratta di quali argomenti il ​​femminismo dovrebbe affrontare. Come potrebbe non esserci, in un movimento che rappresenta metà della popolazione, e mira alla liberazione per tutti? Ma ciò che è entusiasmante di queste singole campagne è il modo in cui stanno costruendo un movimento in grado di affrontare problemi strutturali e sistemici.

Il femminismo della quarta ondata è intersezionale e non sostiene solo uguaglianza e pari opportunità per ragazze e donne, ma vuole liberare anche a ragazzi e uomini e superare le norme di genere e il maschilismo tossico che impedisce loro di vivere emozioni e sentimenti liberamente, di esprimersi fisicamente come desiderano ed essere dei genitori dei propri figli e non dei “mammi”.

La battaglia non viene fatta solo nelle piazze e nei collettivi ma anche attraverso la tecnologia, con l’utilizzo di social media, della stampa, delle notizie.

Il femminismo in Italia

Quella del femminismo italiano è una storia che in parte si intreccia e in parte si allontana da quella del femminismo globale: l’eco del femminismo della prima ondata era certamente arrivato anche in Italia, ma di vero e proprio femminismo nel nostro paese si è iniziato a parlare a partire dalla fine degli anni ’60 e, soprattutto, negli anni ’70, il decennio che ha segnato importantissime vittorie per le donne, ottenute in gran parte proprio grazie alle battaglie femministe: il divorzio (1970) la riforma del diritto di famiglia (1975), e l’aborto (1976). Ma anche, all’inizio degli anni ’80, l’abrogazione del delitto d’onore (1981).

Già nel dopoguerra la nascita di associazioni femminili come l’UDI (Unione Donne Italiane, legata in origine al Partito comunista) e CIF (Centro Italiano Femminile, vicino alla Democrazia Cristiana), furono fondamentali per promuovere l’uguaglianza tra i sessi e l’emancipazione delle donne, soprattutto attraverso la richiesta di leggi a difesa della parità, in famiglia e sul lavoro, ma è con la seconda ondata femminista che

le riflessioni e le istanze che provenivano dalle donne diedero origine a nuove parole – liberazione, autodeterminazione, soggettività; sorsero nuovi luoghi di aggregazione: collettivi, librerie, centri di documentazione, cooperative di donne.

Il Fronte Italiano di Liberazione Femminile (FILF), il Movimento per la Liberazione della Donna (MLD) legato al Partito radicale, Rivolta Femminile – fondato da Carla Lonzi, Carla Accardi e Elvira Banotti – Lotta Femminista: sono solo alcuni dei movimenti che nascono in quegli anni e che si fanno non solo luoghi dell’elaborazione dell’esperienza femminile e femminista, ma veri e propri strumenti di lotta contro il sistema patriarcale.

Un’eredità che oggi è stata raccolta da chi non ha paura di definirsi femminista e nelle piazze, nei collettivi, in università, sui social, nei centri antiviolenza o su un palco, continua la lotta per il sistema patriarcale e il soffitto di cristallo che grava ancora sulle nostre teste.

Il femminismo oggi: battaglie e correnti

Più che di femminismo, oggi sarebbe corretto parlare di femminismi. Non tutti i movimenti femministi, infatti, si riconoscono negli stessi valori comuni, né hanno gli stessi obiettivi.

Oggi si parla di femminismo liberale, di femminismo separatista o radicale e femminismo intersezionale, ma anche di ecofemminismi, transfemminismo, white feminism e altri ancora.

Anche se in alcuni casi le rivendicazioni si sovrappongono, quindi, non è mai esatto dire «le femministe dicono» o «secondo il femminismo», perché sotto questo ombrello vengono tenute insieme istanze spesso anche antitetiche.

È il caso, ad esempio, del femminismo radicale (radfem) e del white feminism, che molto poco hanno in comune con il femminismo intersezionale: se il primo, infatti, si batte esclusivamente per i diritti delle donne biologicamente nate e vuole abolire il concetto di identità di genere e il secondo ha sì come obiettivo l’uguaglianza tra uomini e donne, ma si rivolge solo alle persone bianche, il femminismo internazionale unisce le lotte di identità diverse.

Allo stesso modo, mentre il femminismo liberale lotta per la conquista di spazio e diritti all’interno del sistema capitalista, il femminismo socialista e intersezionale non vogliono conquistare uno spazio al tavolo del patriarcato ma, come dice Giulia Blasi, vogliono ribaltare quel tavolo, costruendo una nuova società, più giusta e uguale, per tutte e tutti.

Un mondo nuovo, e migliore, è anche l’obiettivo degli ecofemminismi che, in modi diversi, legano la liberazione della donna dal gioco patriarcale a quella dell’ambiente e degli animali non umani, nella convinzione che non possa esistere una senza l’altra.

Emancipazione, parità, diritti sono parole chiave comuni, ma obiettivi e strumenti di lotta non lo sono affatto, come dimostra il dibattito sull’approvazione della legge Zan contro l’omobitransfobia – fortemente osteggiata dal femminismo radicale che vede nell’introduzione legislativa del concetto di identità di genere un pericolo per le “vere” donne (leggi nate con la vagina) – e la battaglia per i diritti delle donne trans e la loro stessa inclusione all’interno delle rivendicazioni femministe, come ha reso fin troppo evidente la polemica che ha seguito le affermazioni transfobiche di una autodichiarata femminista come J. K. Rowling.

Perché il femminismo oggi è intersezionale

Se, però, gli obiettivi sono la parità e l’uguaglianza, è evidente che il femminismo oggi non possa che essere intersezionale. È possibile lottare per l’equità salariale e l’eliminazione del gender gap quando si continuano a ignorare le condizioni delle lavoratrici immigrate, a cui spesso vengono delegate le attività di cura che prima erano prerogativa delle donne?

Si può lottare per eliminare le disuguaglianze tra uomo e donna basandosi sull’idea che donna solo chi ha avuto il sesso femminile assegnato alla nascita, discriminando chi donna è a tutti gli effetti nonostante un cromosoma Y? Si possono richiedere uguaglianza e diritti solo per le persone eteronormate? Crediamo davvero che il concetto di classe sia solo un ricordo di marxista memoria quando il capitalismo mostra sempre di più la sua insostenibilità e ingiustizia strutturale?

Sono tutte domande a cui il femminismo internazionale ha dato una risposta netta: no, non si può.
Il termine, coniato dall’attivista  Kimberlé Crenshaw nel 1989 per descrivere la sovrapposizione o “intersezione” di due discriminazioni cui le donne nere erano soggette – genere e razza – nella convinzione che analizzare e tentare di superare l’una separatamente dall’altra non avesse senso.

Poiché l’esperienza intersezionale è maggiore della somma di razzismo e sessismo, qualsiasi analisi che non tenga conto dell’intersezionalità non può affrontare sufficientemente il modo particolare in cui le donne nere sono subordinate.

Una lettura che già aveva dato Angela Davis nel 1971, con l’inizio della stesura (in carcere) di Donne, Razza e Classe e con la sua battaglia a favore delle donne, nere e lesbiche. Una battaglia che è diventata predominante nel femminismo degli anni ’90 e duemila è che è recuperata dal femminismo della quarta ondata, e che negli anni si è allargata dal genere e la razza a tutte le diverse identità sociali e le relative sovrapposizioni di possibili discriminazioni.

Oggi, parlare di intersezionalità significa riflettere su come diverse categorie biologiche, sociali e culturali – il genere, l’etnia, la classe sociale, la disabilità, l’orientamento sessuale, la religione, la casta, l’età, la nazionalità, la specie e altri assi di identità – interagiscano a molteplici livelli, spesso simultanei. Dobbiamo quindi considerare tutti questi aspetti per comprendere in che modo l’ingiustizia sistematica e la disuguaglianza sociale agiscano a partire da una base multidimensionale, e dobbiamo smettere di approcciarli singolarmente, diceva già nel 1989 Crenshaw:

L’incapacità di abbracciare le complessità delle discriminazioni non è semplicemente una questione di volontà politica, ma è anche dovuta all’influenza di un modo di pensare alla discriminazione che struttura la politica in modo che le lotte siano classificate come questioni singolari. Inoltre, questa struttura importa un visione descrittiva e normativa della società che rafforza lo status quo.

Solo riconoscendo le diverse oppressioni a cui ognuno di noi è soggetto, e i privilegi che invece invece abbiamo, infatti, possiamo sfruttare i secondi per riuscire a combattere le prime, individuando la multidimensionalità dell’oppressione per ripensare interamente il sistema in cui viviamo. L’intersezionalità, però, non è sempre facile e richiede un impegno quotidiano:

Tali movimenti vedono come indivisibili le lotte contro il razzismo, il classismo, il neocolonialismo, il nazionalismo xenofobo, l’eterosessismo, la transfobia, l’abilismo, l’ageismo, l’islamofobia e la distruzione ecologica. In pratica, ovviamente, tali movimenti non sono sempre inclusivi o attenti a un’analisi intersezionale come dovrebbero essere, soprattutto quando sono costretti a rispondere a molteplici attacchi su molti fronti, il che fa sì che diano priorità a determinati temi e attori rispetto ad altri.

Tuttavia, gli organizzatori e gli attivisti informati dall’intersezionalità rifiutano un movimento monolitico basato su un’unica identità di esclusione o su un’unica questione politica. Invece, i movimenti informati dall’intersezionalità rimangono flessibili e lungimiranti, continuando ad ascoltare e dare voce a disuguaglianze nuove o precedentemente nascoste non affrontate nei movimenti per la giustizia sociale. In questo modo, la teoria e la pratica intersezionali sono “un work in progress”.

Chi e perché (stra)parla di femminismo tossico?

Sembra impossibile, eppure anche se oggi il femminismo è un’entità multiforme, in cui grande grande spazio è occupato proprio dalla riflessione intersezionale, i suoi oppositori continuano a dipingerlo come un mostro mitologico animato esclusivamente da un odio cieco nei confronti degli uomini, e continuano a straparlare di «femminismo tossico», talvolta declinato nel celeberrimo appellativo «nazifemministe».

Chiariamoci subito: il tanto millantato e temuto femminismo tossico non esiste. Certamente, come abbiamo visto, all’interno del femminismo esistono delle rivendicazioni discutibili o delle correnti esclusiviste come le TERF (Femministe radicali transescludenti) e SWERF (Femministe radicali sex worker escludenti), che è possibile e doveroso criticare e in cui non riconoscersi, ma questo non è IL femminismo.

La prima domanda che dovremmo farci quando qualcuno ci parla di “femminismo tossico”, quindi, è «quale femminismo?». Cosa significa poi, essere femministi? Come abbiamo visto, la risposta a questa domanda è ben più complessa di “odiare il genere maschile”.

In Italia, di «femminismo tossico» si è parlato prevalentemente in relazione a dibattiti e polemiche nati intorno a Youtube: a sdoganare il termine è stato Marco Crepaldi, psicologo esperto del fenomeno Hikikomori che lo scorso anno ha allargato la sua riflessione alle ingiustizie subite dal genere maschile, concentrandosi sul fenomeno degli incel e della “misoginia al contrario”, appellandosi a un’idea di femminismo che poco o niente a a che vedere con la realtà ma che ha fatto presa su altri Youtuber, che hanno accolto e diffuso il dibattito sulla tossicità di alcune «estremizzazioni» del femminismo contemporaneo.

Il Cerbero Podcast, Rick DuFer e altri, dall’altro di una scarsa o scarsissima conoscenza della storia e del pensiero femminista, hanno iniziato a discutere di femminismo; il trio creato da Davide Marra, Simone Santoro e Mr Flame, intervistato da Marta De Vivo per Domani – che ha preso le distanze dal contenuto dell’intervista – ha quindi lamentato che

la semplificazione ormai ha preso una deriva incredibile, pensiamo al femminismo tossico o ad altre estremizzazioni. Noi pensiamo che sia giusto trovare un equilibrio, non è tutto bianco o nero.

Quindi, se la semplificazione è sbagliata, la soluzione è semplificare secoli di storia e rivendicazioni femministe dietro lo spauracchio del «femminismo tossico» che odia gli uomini, un ossimoro che non ha alcuna attinenza con la realtà ma che ha invece una forte presa mediatica e emotiva, come il “razzismo al contrario” o il politically correct e la cancel culture vogliono eliminare Biancaneve.

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