La sessualizzazione dei corpi è un fenomeno prettamente femminile, che affonda le sue radici nella cultura di stampo maschilista e nella società patriarcale in cui, ancora oggi, nonostante le conquiste raggiunte, ci ritroviamo a vivere.

Sebbene l’empowerment femminile sia sempre più impegnato a scardinare i pregiudizi di genere e a ridare la dignità che le donne meritano in ogni ambito e settore, ancora oggi la sessualizzazione del corpo della donna rappresenta una questione non superata e una pratica largamente in uso in molte realtà, prime tra tutte quelle dei media e delle pubblicità, i cui linguaggi, nella maggior parte dei casi, si fanno ancora portavoce di questi cliché, contribuendo a perpetuarli e legittimarli, rendendoli parte del pensiero comune.

Ma la questione è ben più complessa e comporta profonde implicazioni dal punto di vista psicologico e sociale, con notevoli ripercussioni non solo sul modo in cui la società percepisce l’immagine della donna, ma nel modo in cui le stesse donne finiscono per percepire se stesse. Siamo quindi di fronte a un fatto che è ben più di un semplice fenomeno di costume. Ecco nello specifico di cosa si tratta, come si manifesta e quali sono le sue implicazioni e conseguenze.

Cosa si intende per sessualizzazione?

Secondo l’American Psychological Association, la sessualizzazione si verifica quando “gli individui sono considerati oggetti sessuali e valutati principalmente in base alle loro caratteristiche fisiche e alla loro sensualità”.

Ne ha data una più recente definizione esaustiva Chiara Volpato, professoressa ordinaria di Psicologia sociale all’Università di Milano-Bicocca e autrice del saggio “Deumanizzazione. Come si legittima la violenza”, che pone l’accento sulla deumanizzazione del soggetto sottoposto a sessualizzazione, un concetto chiave del fenomeno:

L’oggettivazione è una forma di deumanizzazione che riduce l’individuo a oggetto, strumento, merce.

Come accennato in apertura, si tratta di una pratica storicamente più associata al corpo femminile, che è stato e viene tuttora sessualizzato, mercificato e oggettivato in modo quantitativamente e qualitativamente diverso rispetto a quello maschile. Non ci risulta difficile comprenderlo da noi, guardando semplicemente alla società in cui viviamo, che manifesta ancora uno sguardo e un approccio marcatamente maschilista.

Vi è però da dire che la stessa American Psychological Association, in una recente indagine sull’argomento, ha riscontrato che il fenomeno inizia a coinvolgere con sempre maggiore forza anche gli individui di sesso maschile.

Alcuni degli esempi più diffusi di sessualizzazione femminile riguardano donne che vengono invitate a esibire abiti succinti, mostrate a un pubblico mentre fanno espressioni facciali o pose provocanti o raffigurate come “oggetti decorativi” in cui vengono messe in risalto solo alcune parti del loro corpo.

Nelle società occidentali, i mezzi di comunicazione sono senza dubbio i principali promotori del processo di manipolazione simbolica del corpo femminile. Dalla televisione, al marketing, dalla pubblicità a internet, i vari linguaggi mediatici odierni rispondono ancora appieno a queste logiche, figlie della cultura patriarcale tuttora vigente, che ha sempre visto il soggetto femminile subordinato a quello maschile, anche e soprattutto dal punto di vista del suo piacere.

La sessualizzazione interiorizzata

La sessualizzazione, l’essere cioè trattati come un corpo disponibile per l’uso e il piacere altrui, impatta negativamente sulle prospettive lavorative, sull’interazione sociale e anche sul benessere psicofisico del soggetto vittima del processo di oggettivazione. Questo provoca infatti importanti ripercussioni sulla percezione che il soggetto stesso ha su di sé, portandolo a identificare il proprio valore con la capacità di attrarre sessualmente. Questo fenomeno si chiama sessualizzazione interiorizzata.

A teorizzarlo sono state in particolare le due studiose Barbara Fredrickson e Tomi-Ann Roberts nel 1997, secondo le quali il processo di oggettivazione provocherebbe a sua volta un’auto-oggettivazione del soggetto: in questi casi il soggetto arriva quindi a interiorizzare e fare propria la prospettiva dell’osservatore, trattando se stesso come una cosa, il cui valore viene misurato esclusivamente sulla base dell’aspetto fisico.

Si trascurano capacità, competenze, emozioni ed esigenze, in una parola, la “persona”, e ci si concentra solo sul controllo costante del corpo, che diventa unica misura e valore di riferimento e viene ridotto a “cosa”.

Simone de Beauvoir diede una perfetta definizione del fenomeno dell’oggettivazione del corpo femminile, che risulta ancora oggi la più attendibile e calzante:

(La donna) diventa un oggetto; si sperimenta come oggetto, scopre con meraviglia questo nuovo aspetto del suo essere: ha la sensazione di sdoppiarsi; invece di coincidere esattamente con se stessa, comincia a esistere fuori di sé.

La diretta conseguenza di questo processo psicologico è una percezione distorta di sé e una bassa autostima, perché il soggetto si misura e definisce solo attraverso i giudizi e gli input che riceve dall’esterno. Questo porta inevitabilmente a essere più inclini a farsi trattare dagli altri come oggetti e a tollerare con maggiore facilità soprusi e forme di violenze, fino ad assumere in prima persona quegli stessi comportamenti sessisti subiti, come sostiene l’American Psychological Association.

È stato dimostrato inoltre che questa condizione sarebbe correlata all’insorgere di stati ansiosi, disturbi depressivi, disagi sessuali e disordini alimentari.

La sessualizzazione interiorizzata coinvolge le donne di tutte le età, anche le giovanissime, sempre più esposte nella società occidentale al processo di oggettivazione, come vediamo qui sotto.

Sessualizzazione precoce

Il processo di sessualizzazione femminile si sta riversando con sempre maggiore anticipo sulle giovani, e questo principalmente a causa delle operazioni di media e pubblicità che sempre più spesso trattano bambine e giovani adolescenti come donne vissute, truccate e mostrate in atteggiamenti e immagini che alludono a una femminilità sensuale esibita prima del tempo.

Non è un caso che si assista con sempre maggiore frequenza a campagne pubblicitarie che hanno per protagoniste star giovanissime, poco più che bambine, un’operazione dall’effetto straniante che è oggetto di grandi critiche e dibattiti.

Ma, come abbiamo visto, tutto questo ha un costo in termini sociali e provoca conseguenze psicologiche notevoli sulle stesse giovanissime che entrano loro malgrado in queste dinamiche prima del tempo e non avendo gli strumenti necessari per affrontarle.

Nello specifico, una generale tendenza all’oggettivazione del corpo delle giovanissime avrebbe ripercussioni sulla formazione della loro personalità: le esporrebbe sin da subito a una pressione esagerata per soddisfare standard di bellezza irraggiungibili proposti dalla cultura dei media, determinando in loro bassa autostima, con tutte le conseguenze del caso per il fatto di non considerarsi all’altezza.

Eppure il fenomeno delle Lolite è molto antico e ha sempre rappresentato un topos centrale della narrazione mediatica della cultura occidentale, non priva di malizie e intenti di marketing, che ha raggiunto negli ultimi decenni il suo apice.

Basti pensare ad esempio, con riferimento al nostro Paese, a quel 1991 che vide la nascita di Non è la Rai, apripista di una cultura che si è fatta sempre più consistente, specie in Italia. Il Lolitismo negli anni è però arrivato ad indicare più che un atteggiamento dei soggetti – le giovani adolescenti smaliziate e seducenti – in linea con la lettura che ne diede Nabokov con la sua opera del 1955, lo sguardo dell’osservatore esterno, identificato nella società, che trasformava così il soggetto in oggetto passivo.

Le conseguenze di questa tendenza si sono presto viste anche nel differente modo di comunicare con le bambine: i personaggi di cartoni animati e le stesse bambole negli anni hanno visto importanti trasformazioni in questo senso, diventando sempre più delle figure sexy e iperfemminili, molto lontane dall’iconografia classica che veniva in genere riservata al mondo dei cartoon destinato ai bambini.

Sessualizzazione e oggettivazione delle donne

Come anticipato, i media e il mondo della pubblicità, specie nelle civiltà occidentali, sono stati i primi a fare di questo aspetto la regola, sebbene fortunatamente qualche segnale di cambiamento si stia vedendo all’orizzonte.

Ma del resto, già agli inizi della storia, la sessualizzazione del corpo risultava una pratica largamente in uso, sebbene con intenti e modalità differenti, legata soprattutto alle culture apotropaiche, in cui il riferimento sessuale veniva usato con valore scaramantico per fronteggiare potenziali elementi e situazioni negative. Uno degli esempi più evidenti è quello che ci viene dalla cultura Irlandese con le sheila-na-gigs, figure femminili sistemate a protezione delle chiese e mostrate nell’atto di alzarsi le gonne mostrando l’organo genitale.

Negli anni questa usanza ha assunto connotazioni sempre più marcate, spogliandosi dei suoi significati originari, e diventando espressione della cultura patriarcale, tanto che il fenomeno della sessualizzazione ha iniziato ad interessare quasi esclusivamente il genere femminile.

È soprattutto il linguaggio del marketing e della pubblicità che a partire dagli anni Cinquanta ha sdoganato una cultura che ha fatto della sessualizzazione del corpo della donna un aspetto centrale della mentalità occidentale, con ripercussioni in tutti gli ambiti, fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui le donne, ad eccezione di pochi esempi virtuosi, vengono rappresentate dai media quasi esclusivamente in un unico modo: donne bianche, belle, magre e giovani.

Una situazione che ha spinto, specie negli ultimi anni, a muoversi verso una sempre maggiore inclusione dei corpi considerati off limits da una certa cultura standard, tra cui corpi grassi, neri o di etnie differenti.

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Come accennato, il processo di sessualizzazione è diventato un aspetto integrante della società, tanto da influenzarne ogni ambito, a partire da quello lavorativo. Si pensi ad esempio alle divise femminili diventate in passato – ora in misura ampiamente minore – una prerogativa di molte categorie, prima su tutte quella delle assistenti di volo, come ci ricordano ad esempio i vecchi spot pubblicitari della compagnia di volo americana Pan-Am.

Eppure, questa situazione non sembra così lontana. Sono ancora numerose le realtà che spingono le lavoratrici donne indossare abiti dalle scollature abissali e a truccarsi pesantemente, una di queste è stata la Casa Bianca, durante l’amministrazione Trump, il quale avrebbe esplicitamente preteso che le dipendenti donne si “vestissero da donne”, con un chiaro riferimento a un tipo di abbigliamento più smaccatamente femminile.

Un fenomeno connesso a questa situazione è il beautism, la richiesta cioè della bella presenza per poter accedere ad un impiego: sono infatti ancora molti gli annunci che richiedono una foto a figura intera per candidarsi ad offerte di lavoro, sebbene in molti casi nulla abbiano a che fare con ruoli da modella o in cui l’aspetto estetico risulti rilevante.

Il fenomeno della sessualizzazione si è particolarmente diffuso in certi ambiti, tra cui manifestazioni sportive e realtà televisive, con l’istituzione di figure femminili dai più svariati e variopinti nomi, tutte accomunate da un abbigliamento succinto e dal ruolo di “vetrina estetica”: ombrelline, veline, letterine sono alcuni di questi esempi celebri del nostro tempo. In particolare le prime, chiamate a partecipare in occasione di gare ciclistiche, di MotoGP e Formula 1 già a partire dagli anni Sessanta, sono state di recente eliminate proprio per via del sessismo a cui alludevano.

Sebbene siano stati fatti passi avanti in questo senso, ancora oggi ci tocca assistere con grande frequenza a fenomeni di sessualizzazione rivolti a figure professionali pubbliche, tra cui soprattutto giornaliste e politiche, ridotte a puri corpi estetici e privati della loro competenza, professionalità e personalità. 

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