È la classica “domanda da un milione di dollari”, quella a cui è praticamente impossibile dare una risposta: perché non si può davvero dire cosa significhi essere donna senza scontrarsi con tante opinioni diverse, sfumature e punti di vista e, immancabilmente, ritrovarsi invischiati anche in qualche banale luogo comune.

Perché sulle donne, e sull’essere donna soprattutto, da secoli esistono giudizi e pregiudizi, superstizioni, stigma sociali e stereotipi che contrastano con quella che è la realtà dei fatti, ovvero che è impresa irrealizzabile riuscire a racchiudere in una semplice categorizzazione un microcosmo fatto di sfaccettature eterogenee, tutte ugualmente valide.

Hanno cercato di demonizzare le donne, relegandole al rango di streghe pur di tenerle soggiogate a una cultura patriarcale che a lungo non le ha volute erudite, acculturate, elevate socialmente; ne hanno costruito un’immagine che a lungo è corrisposta a ciò che significasse essere una donna, ovvero di angelo del focolare, sottomessa, obbediente, devota alla famiglia. Fino a quando le suffragette e, più avanti, le donne del ’68 con la loro rivoluzione sessuale – e culturale – non hanno dimostrato che c’erano anche “altre donne”, non meno meritevoli delle precedenti di essere chiamate tali.

Tutt’oggi spesso tentano di delegittimarne meriti e competenze trincerandosi dietro considerazioni vacue e superficiali che non vanno al di là dell’estetica, perché, tanto si sa, se una è bella allora è stupida e se è arrivata a ricoprire una certa carica, invece, significa che è finita nel letto di qualcuno.

E, soprattutto, pensano ancora che per essere considerata una donna degna di rispetto si debba “stare un passo indietro” al proprio uomo, non consci che quella famosa frase, “Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna” abbia nuociuto più al genere femminile che a quello maschile.

Come si potrebbe definire una donna? Prendiamo in prestito le parole di una donna che è stata per molti versi controversa e rivoluzionaria, indipendente, controcorrente, al punto da incutere timore ma rispetto al tempo stesso, Oriana Fallaci.

Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esiste potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che chiede d’essere ascoltata.
(La rabbia e l’orgoglio, 2004)

E aveva ragione, la giornalista fiorentina, che più di tutte dovette dimostrare, nella sua immensa carriera, di poter scrivere come un uomo, viaggiare come un uomo, stare in mezzo alla guerra come un uomo, intervistare i grandi del mondo senza vergognarsi del suo essere donna.

Ma già da queste parole si capisce quanto la definizione dell'”essere donna” sia impresa complessa e tortuosa, tanto che persino noi, per sondare le opinioni e le idee diverse, ci siamo affidate a una sorta di “sondaggio”, chiedendo a 100 donne cosa significhi essere donna.

Fra luoghi comuni, pensieri ancora fortemente influenzati dagli stereotipi ma anche opinioni decisamente fuori dal coro, analizzando le risposte questo è tutto ciò che abbiamo raccolto rispetto all’essere donna.

Cosa significa essere donna, fra luoghi comuni e rivoluzioni

essere donna
Fonte: web

Essere donna significa essere libera e indipendente

Significa potersi conquistare il proprio spazio nel mondo del lavoro partendo alla pari con gli uomini, ecco perché il gender pay gap è un argomento importante per cui lottare e non solo una “esasperazione femminista”. Nel 2017, solo nel nostro Paese, il gap fra uomini e donne era di circa il 12,7% (retribuzione annua lorda – RAL – di 30.676 euro per gli uomini,  27.228 per le donne).

Ma essere libera e indipendente, sempre restando nell’ambito lavorativo, significa anche avere l’opportunità di non dover per forza scegliere fra la maternità e la propria professione, ma di poter perseguire entrambe con successo. Per questo dovrebbero essere riviste le leggi sul congedo parentale, affinché le neomamme non si sentano isolate o, peggio, completamente tagliate fuori dal mondo del lavoro.

L’indipendenza, inoltre, si misura anche nel poter essere in grado di viaggiare da sole, in qualunque Paese del mondo senza che nessuno ci dica che “in certi posti te la vai a cercare”; ma siamo ancora a un lontano livello di utopia, allo stato attuale delle cose, se pensiamo a molte storie strazianti come quella di Pippa Bacca, stuprata e uccisa mentre viaggiava in autostop con il suo abito da sposa per portare un messaggio di pace e fratellanza, o a Maren e Louisa, massacrate in Marocco.

È utopico se solo si pensa che, ancora oggi, esistono veri e propri manuali per donne che vogliono viaggiare sole.

Essere femminista

Si tratta in realtà di un luogo comune. Se leggiamo la definizione di femminismo fornita da Wikipedia ci renderemo conto che con esso si intende:

  1. la posizione o atteggiamento di chi sostiene la parità politica, sociale ed economica tra i sessi, ritenendo che le donne siano state e siano, in varie misure, discriminate rispetto agli uomini e ad essi subordinate;
  2. la convinzione che il sesso biologico non dovrebbe essere un fattore predeterminante che modella l’identità sociale o i diritti sociopolitici o economici della persona;
  3. il movimento politico, culturale e sociale, nato storicamente durante l’Ottocento, che ha rivendicato e rivendica pari diritti e dignità tra donne e uomini e che – in vari modi – si interessa alla comprensione delle dinamiche di oppressione di genere.

Questo dovrebbe essere sufficiente per far capire che per essere femminista, nel senso puro e semplice del termine, non serva necessariamente essere donna.

Essere donna significa aver scelto di fare la transizione per diventarlo

Benché più d’uno fatichi ad accettarla, quella dei transgender è una realtà che non può essere circoscritta nell’ambito del “capriccio” o dell'”indecisione” come troppo spesso accade. Fortunatamente eliminata dall’elenco delle malattie mentali dall’OMS, per essere inserita in un nuovo capitolo delle “condizioni di salute sessuale” – ma per avere ciò abbiamo dovuto aspettare il 2018 – la transessualità è una condizione estremamente particolare e delicata, in cui la persona non si riconosce nel corpo biologico con cui è nata.

Chi è donna pur essendo nata in un corpo maschile si sente davvero sbagliata e a disagio col proprio essere, e spesso, oltre ad affrontare il terribile pregiudizio della gente, deve sottoporsi a un’infinità di passaggi e operazioni per poter completare la propria transizione e riuscire finalmente a stare bene con se stessa.

Essere madre o scegliere di non esserlo mai

È, sicuramente, uno dei terreni più spinosi su cui le opinioni si confrontino, perché molto spesso sono in primis le stesse donne ad avere un’idea distorta riguardo la (non) maternità. Cresciute per generazioni con il mito del matrimonio e del diventare brave madri, molte di noi hanno fatto le “prove generali” durante l’infanzia, con bambole cui cambiavano i vestitini, i pannolini o a cui davano la pappa.

E, a livello socio-culturale, l’idea che una donna si discosti da ciò che per secoli la società ha pensato per lei è ancora oggi ritenuto “sconveniente”, se non ai limiti dell’immorale.

È il motivo per cui le donne che non hanno figli vengono talvolta considerate “incomplete, a metà, non realizzate”; ma la realtà dei fatti si articola soprattutto in due punti:

  1. C’è un senso di ingiustizia in queste parole, legato a chi madre vorrebbe esserlo diventata ma, per cause di forza maggiore, non ha mai potuto, per cui il solo pensiero di ritenerla “incompleta” è da ritenersi gravemente offensivo e irrispettoso.
  2. Piaccia o non piaccia, la questione dell’istinto materno non è innata nelle donne solo per il semplice fatto di essere nate tali, e proprio come non ci si aspetta da un uomo che voglia essere padre per forza, e non per questo lo si giudica, altrettanto dovrebbe essere fatto con chi, donna, con cognizione di causa, consapevolezza e coscienza sceglie di non mettere al mondo dei figli. Ci sono splendidi esempi di donne che hanno dato moltissimo alla società e si sono realizzate al 100% in ciò che a loro stava a cuore, senza aver mai avuto prole. Due su tutte? Rita Levi Montalcini e Margherita Hack.

Avere spesso paura

Anche questo è un luogo comune, se si pensa a situazioni banali quali vedere un film horror o sentire dei rumori strani; la paura e il nostro rapporto con essa sono del tutto soggettivi e poco hanno a che fare con il genere.

L’idea di avere paura, semmai, è stata “inculcata” nelle donne, ancora una volta, rispetto a determinate situazioni in cui vengono viste come potenziali “prede” e vittime; è sostanzialmente il motivo per cui si raccomanda di “non camminare da sola di notte”; “di non uscire da sola di notte con i tacchi o un vestito appariscente”; di “non uscire con un ragazzo appena conosciuto in discoteca”. Raccomandazioni ragionevolissime, che difficilmente però vengono replicate di fronte a un uomo.

Ancora una volta, alla base di alcune “ataviche paure” femminili non si può ignorare la componente maschilista che permette loro di nascere e proliferare; che è poi la stessa che, di fronte alla tragedia di uno stupro o a una molestia sessuale, spinge a reagire con frasi come “Però anche tu, se vai in giro vestita così”, ovvero con quel victim blaming che è il motivo esatto per cui, ancora oggi, le donne non si sentono libere (vedi punto numero uno) di fare certe cose. Compreso liberarsi da quelle paure.

Volere avere uguali diritti di un uomo ma non averli

Se abbiamo ancora bisogno di parlare di quote rosa, per garantire una presenza femminile anche a livello istituzionale, o della disparità salariale poc’anzi accennata, è proprio perché dei diritti, quali quello all’accessibilità al lavoro o a determinati posti di rilievo in società o enti, che dovrebbero essere scontati non lo sono affatto.

È chiaro che in un utopico mondo perfetto non ci sarebbe affatto la necessità di “quote” da garantire a uno dei due generi, ma in una situazione che, a livello concreto, fa davvero poco per aiutare le donne a inserirsi pienamente nel contesto lavorativo purtroppo dobbiamo ancora sperare e pretendere che una fascia di posti in un determinato ruolo ci venga lasciata.

Poter amare chi voglio o non amare più senza avere paura

Peggio ancora, se possibile, è il discorso legato alla libertà sessuale; e non tanto – o non solo – per quel victim blaming cui una donna particolarmente emancipata, sotto questo aspetto, può rischiare di incorrere nel caso le capiti qualcosa di spiacevole (mai sentito dire “Certo anche lei, se non avesse avuto quell’atteggiamento da gatta morta!”), quanto perché persiste una disparità oggettivamente insopportabile nel trattare il tema “sesso” in riferimento ai generi: le donne libere, che intendono vivere una vita sessuale senza legami, sono viste tutt’altro che di buon occhio (eufemismo), mentre per gli uomini restano saldi i soliti stereotipi della cultura machista: quello del latin lover e del playboy.

Ma perché una donna, che non intende fidanzarsi, convivere in pianta stabile o sposarsi, dovrebbe sentirsi in colpa per avere una vita sessuale piena e libera, mentre gli uomini vivono il “libertinismo” con un certo pizzico di orgoglio e come l’emblema stesso della virilità?

Senza voler poi considerare il discorso anticoncezionali, su cui esiste – tu pensa che novità! – un certo disequilibrio: se la pillola “tocca” alla donna, nonostante da anni si stia ormai parlando del famoso pillolo, ovvero dell’anticoncezionale maschile, la cui messa in commercio tuttavia viene costantemente rimandata, per alcuni fa ancora scandalo vedere una donna che compra dei preservativi.

Ma com’è possibile operare una distinzione di genere anche sui metodi anticoncezionali? E perché è tanto difficile accettare che le donne vogliano talvolta essere libere di poter avere delle avventure, senza dover per forza essere inserite nell’ormai canonica dicotomia “santa/pu***na”?

Sul versante opposto, le donne devono essere libere di decidere quando smettere di amare, senza che questo significhi mettere a repentaglio la propria vita, o quella dei cari e dei figli. Senza dover imparare a convivere con il terrore costante di essere perseguitate, molestate, o ammazzate.

Per concludere…

In conclusione, nonostante continuino a dirci cosa fa o non fa una signorina, tanto da vivere ormai assuefatti a frasi come “Una donna non si comporta così”; nonostante spesso si confonda la galanteria e la cavalleria (esempio, aprire lo sportello di un’auto) con l’ossessione tutta maschile di dover fare determinate cose per non sentire di essere sminuiti come uomini (guadagnare di più, pagare sempre il conto al ristorante, non aiutare nelle faccende di casa pensando siano doveri femminili).

Nonostante qualcuno esiga anche di sapere cosa ci rende più o meno femminili, cosa ci rende più o meno donne, la realtà è che non c’è un modo solo di esserlo e l’unico, la sola lezione che davvero dovremmo fare nostra, è essere le donne che vogliamo non quelle che gli altri si aspettano da noi.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!