“Dove sono le donne?”

Se lo chiede, da anni, Michela Murgia, autrice tra le più apprezzate in Italia, impegnata da anni in alcune delle battaglie civili più importanti, con, sullo sfondo, il tema donna.

Se lo è chiesto talmente a lungo da portare questo interrogativo anche a teatro, dove, nel 2019, ha interpretato il monologo omonimo, presentato così da Mismaonda, la casa produttrice:

Se arrivassero gli alieni domattina e cercassero di farsi un’idea del genere umano guardando ai luoghi della rappresentazione pubblica, probabilmente penserebbero che un virus misterioso abbia colpito tutte le persone di sesso femminile d’Italia, rendendole mute o incapaci di intendere e volere.
Il governo, i dibattiti televisivi e le prime pagine dei quotidiani traboccano di interventi maschili. Eppure, le donne non sono una sottocategoria socioculturale ma più della metà del genere umano.

Donne sottorappresentate dovunque, negli spazi politici, culturali, televisivi; donne che finiscono con l’essere tuttora appena un’appendice dell’egemonia maschile e che tentano, faticosamente, sgomitando, di aprirsi uno spiraglio in contesti appannaggio del mondo degli uomini. Una lotta che oggi ha il nome e i contorni delle cosiddette “quote rosa”.

Quelle di cui, in un mondo ideale ma sfortunatamente al momento ancora utopico, nessuno di noi dovrebbe avere bisogno, perché in un universo parallelo e normale in cui vige davvero la parità di genere non ci dovrebbe essere bisogno di regalare una “fetta di popolarità” alla controparte dell’altro sesso. È questo, del resto, un concetto che la stessa Murgia ha espresso chiaramente più volte: intervistata da Zapping, ad esempio.

Tutte vorremmo vivere in un mondo dove le parole femminicidio quota rosa non servano, perché vorrebbe dire che nessuna donna muore più per mano di un uomo che la considerava propria e che nessun ambito della vita civile è diretto o rappresentato solo da maschi.

Nella realtà però muoiono circa 130 donne all’anno e i vertici universitari, scientifici, industriali, culturali, politici e sportivi sono in grandissima maggioranza in mano maschile. Negare a questa discriminazione un nome è un modo per dire che non esiste alcuna discriminazione, che le donne non comandano perché non sanno farlo e che muoiono perché se la sono cercata.

O in un suo post Facebook del 2018, in cui commentava l’ambiente dei Festival letterari.

Esistono due tipi di festival a cui può capitare di essere invitate se di mestiere si scrive: ci sono quelli considerati generalisti perché si rivolgono a tutti, ma nei cui programmi le firme maschili sono il 90%, e poi ci sono quelli che vanno sotto l’etichetta di ‘festival di letteratura femminile’, dove le donne invitate sono la totalità e il pubblico la rispecchia. […] Vorremmo tutte che questo non fosse un mondo dove è ancora necessario costringere qualcuno a riconoscere la nostra esistenza, la nostra competenza e la nostra autorevolezza, ma se questa è la situazione, allora la risposta non può che essere commisurata. Ma questa risposta non sono gli inviti ai festival di letteratura femminile. Quando li ricevo li cestino direttamente con cordialità, perché sono ghetti dove si perpetua la convinzione che la scrittura delle donne sia un sottogenere letterario della letteratura vera, quella – che ve lo dico a fare – fatta dagli uomini.

Allora le quote rosa sono davvero un modo per continuare a legittimare una subordinazione delle donne a una società che è e rimane maschilista? Non sono altro che il palliativo con cui gli uomini cercano di tenere “buono” quello che continuano a considerare il “sesso debole”? Oppure sono, per quanto testimoni di una realtà che racconta della discriminazione di genere, comunque indispensabili affinché tale discriminazione non resti normalizzata culturalmente?

C’è un problema di credibilità, rispetto alle competenze femminili, alla base? Ovvero quello che stiamo vedendo, tanto per fare un esempio attuale, a livello sportivo, con la nazionale femminile che avanza ai Mondiali snobbata da quella parte di pubblico – maschile – che senza nemmeno preoccuparsi di guardare dà per scontato che il calcio giocato da donne sia “uno schifo”, o meriti di essere seguito tutt’al più per lanciarsi in apprezzamenti che certo non hanno a che vedere con tecnica o tattica.

O il problema è intrinsecamente maschile, e ha le radici in quel machismo atavico da maschio alfa che ha paura di vedersi detronizzato dagli scranni del potere?

Quel che è certo è che le quote rosa “conquistate” dalle donne come mezzo per rivendicare la legittimità in uno spazio pubblico, nell’attesa che tale strumento non sia più necessario (ammesso che mai arriveremo davvero a questo scenario) sono in realtà ben poca cosa a livello pratico. Appena il 10% di donne negli spazi culturali, afferma la Murgia in un altro intervento per Il Libraio, il più delle volte come moderatrici o “spalle”, raramente come protagoniste principali.

E le cose non vanno meglio negli altri settori.

Cosa sono le quote rosa?

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Fonte: web

Cerchiamo prima di tutto di capire cosa sono esattamente le famose quote rosa: con questo termine si indica il numero di posti riservati alle donne nell’organico di determinate strutture pubbliche e private, al fine di garantire la rappresentatività femminile in ogni settore della società.

In politica, le quote sono definite attraverso regole legali (legislative o costituzionali) e disposizioni interne agli statuti dei partiti che fissano una percentuale minima per ogni genere nella composizione delle liste elettorali.

Facciamo un rapido riassunto storico a livello globale: nel 1975 nei parlamenti di tutto il mondo le donne erano il 10,9%, nel 2010 il 18%.  In base a questo ritmo ci vorranno 160 anni per raggiungere la parità, mentre l’esperta svedese Drude Dahlerup avrebbe fissato la “soglia critica”, ovvero la percentuale al di sotto della quale non è possibile percepire una “presenza di genere” nelle pratiche politiche, al 40%.

Le quote rosa in politica: storia e legge

Nel settimo governo guidato Alcide De Gasperi, nel 1951, la democristiana Angela Maria Guidi Cingolani, nominata sottosegretario al ministero dell’Industria e commercio, è stata la prima donna nell’epoca repubblicana a ricevere un incarico di Governo.

Ma sono dovuti passare altri 25 anni prima di vederne un’altra: Tina Anselmi, eletta nel 1976 come Ministro del Lavoro nel terzo esecutivo Andreotti.

In 70 anni di Repubblica nessuna donna ha mai presieduto un Governo e su oltre 1.500 incarichi di ministro in 64 esecutivi con 28 diversi Presidenti del consiglio, le donne ne hanno ottenuti appena 78 (più due interim), 38 dei quali in dicasteri senza portafoglio.

13 esecutivi sono stati composti esclusivamente da uomini, e solo dal 1983, con il quinto governo Fanfani, la presenza di ministre si è fatta costante. Attualmente, i dicasteri di Economia e Infrastrutture e Trasporti non sono mai stati diretti da donne.

In Parlamento solo 5 legislature su 17 hanno visto donne come Presidenti della Camera, nessuna ha mai ricoperto il ruolo di Presidente del Senato. A ricoprire per la prima volta l’incarico più importante a Montecitorio è stata, nell’ottava legislatura, Nilde Iotti, poi confermata nelle due successive legislature.

Nella prima legislatura, nata dopo il voto del 14 aprile 1948, solo il 5% dei seggi (49 parlamentari su 982) è stato occupato da donne, e sono dovuti passare 30 anni e 7 legislature per vedere più di 50 donne in Parlamento (nel 1976); quota 100 è stata superata nel 1987 e quota 150 nel 2006. Nella legislatura che si è appena conclusa le donne elette sono state 299 (il 30,1%), registrando quindi un aumento del 10% rispetto alla sedicesima legislatura.

In Italia, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 49/2003, ha riconosciuto che “la finalità di conseguire una ‘parità effettiva’ fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva è positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale“. Nel 2003 l’articolo 51 della nostra Costituzione è stato così integrato:

Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.

Dopo il fallimento della legge del 2006 sulle quote rosa, il Parlamento ha approvato la nuova legge 215 del 23 novembre 2012, con nuove norme che obbligano gli statuti degli enti locali a promuovere la parità nelle giunte e negli enti, aziende e istituzioni da essi dipendenti, garantendo che ciascuno dei due generi sia rappresentato per almeno un terzo nelle liste elettorali e introducendo la doppia preferenza di genere per i candidati al Consiglio comunale, con cui l’elettore può esprimere due preferenze, purché di genere diverso.

Le quote rosa nei cda

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Fonte: web

Per quanto riguarda il mondo dell’impresa, nel 2011 l’Italia ha introdotto misure di garanzia per la partecipazione femminile ai consigli di amministrazione delle aziende quotate in Borsa e delle società a partecipazione pubblica, con le cosiddette “quote rosa nei cda“, con una modifica al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, anticipando, di fatto, la normativa europea.
La Commissione Europea, infatti, ha adottato una legge simile, su scala comunitaria, a novembre del 2012, su iniziativa della commissaria per la giustizia Viviane Reding.
La norma Golfo-Mosca, del 2011 presentava però un “periodo di scadenza”, tre mandati di consiglio di amministrazione dall’entrata in vigore. Quindi, a partire dal 2020, progressivamente, ad ogni rinnovo di consiglio verrà non ci sarà più l’obbligo di riservare qualche poltrona alle donne.
Tuttavia, questo non significherà la scomparsa delle donne dai cda, dato che il Codice di autodisciplina delle società quotate, il Codice di Borsa, come è più universalmente noto, è stato riscritto proprio alla luce della necessità delle quote rosa, presentando la regola, non vincolante, del “comply or explane“, ovvero adotta il principio o spiega perché non lo hai fatto – nell’apposito documento pubblico e annuale.
Nel caso dei posti nei consigli riservati alle donne – peraltro nella misura ridotta di un terzo – sarà piuttosto complicato trovare motivazioni accettabili per giustificare l’assenza di donne dai cda.

Nonostante i miglioramenti, e le tutele legali e normative, la strada però sembra ancora lunga. Soprattutto alla luce di quell’utopia per cui, un giorno, vorremmo non senti più parlare di “quote rosa”.

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