“Oriana Fallaci. Scrittore”.

Sull’epitaffio della lapide al Cimitero degli Allori di Firenze, dove riposa accanto ai genitori, c’è scritto, per sua volontà, solo questo. Che Oriana Fallaci è stata uno scrittore, quel che in fondo ha sempre voluto essere. Molto più di una giornalista, nonostante la magnificenza di ciò che poi è diventata.

Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo scrittore – ha scritto in un appunto dattiloscritto citato in un articolo de Il Post – Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: ‘Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?’

Lei invece, a realizzare la sua aspirazione dell’infanzia c’è riuscita, ma è andata ben oltre: l’immancabile sigaretta stretta tra le dita, è stata autrice di alcuni dei reportage più memorabili nella storia del giornalismo internazionale, ha intervistato alcuni dei personaggi più famosi e controversi del mondo in momenti storici davvero particolari, da Kissinger a Deng Xiapoing o Khomeini, rivoluzionando il modo stesso di condurre un’intervista, proponendo domande costruite ad hoc e sapientemente preparate a tavolino, smontate e poi rimontate, con il pathos di un vero e propri interrogatorio. È stata la giornalista, che ha saputo dare in più al giornalismo il suo tocco personale, le sue riflessioni più intime, secondo una metodologia di lavoro ben lontana dal giornalismo oggettivo odierno, dove il giornalista può essere tutt’al più un “narratore” della vicenda, privo di opinioni e considerazioni.

Lei, le sue, di opinioni, le ha sempre urlate chiare e forti, che piacessero o meno; “Apro la mia boccaccia. E dico quello che mi pare“, scrisse nell’ultimo articolo, The Agitator, per il New Yorker; e in effetti Oriana ha sempre mantenuto questa convinzione: quella di essere orgogliosamente esplicita, diretta, di irrompere nel mondo con le sue idee, spesso discutibili, più o meno condivisibili, certo, ma sempre frutto di una dignità e di un coraggio senza precedenti; la Fallaci non si è mai vergognata di dire o scrivere ciò che pensava, accettando anche la consapevolezza di andare incontro a critiche se non veri e propri insulti, prendendosi sempre la responsabilità delle proprie parole, senza mai delegare ad altri, senza mai “girare la frittata”, senza dare la colpa a qualcun altro per una cattiva traduzione o un’interpretazione sbagliata.

Maniacale nel suo lavoro, ha raccontato il dolore dell’aborto in Lettera a un bambino mai nato – straziante per chiunque lo abbia letto – in un periodo, il 1975, in cui di interruzione di gravidanza in Italia si discuteva quotidianamente, si è dichiarata contro l’eutanasia dopo il caso Terri Schiavo e ha criticato quella che lei chiamava lobby omosessuale (“Vorrebbero che tutti diventassero omosessuali”, scrisse in Oriana Fallaci intervista se stessa), mentre dopo l’11 settembre 2001 ha dato sfogo alla penna in un articolo diventato poi storico, La rabbia e l’orgoglio, in cui attaccava senza paura l’Islam e gli occidentali per essersi lasciati sopraffare.

La Fallaci chiamava i suo libri i suoi “figli”, concepiti, nati e partoriti da lei, e con questa motivazione, spiegò in un’intervista concessa a Rai Extra nel 1993, decise di ritardare le cure per il cancro ai polmoni che l’aveva colpita e che poi la porterà alla morte, il 15 settembre 2006. La scrittrice spiegò di essere impegnata nella traduzione inglese di Insciallah, già ritradotto in francese a causa di una “traduzione pessima”, quando le fu diagnosticata la malattia.

Mi ritrovai dinanzi a un dilemma angoscioso: abbandonare il lavoro, correre subito dal medico, che mi avrebbe detto ‘Signora si opera domani mattina’, e quindi lasciare che l’editore impaziente pubblicasse la cattiva traduzione del traduttore incapace, oppure finire il lavoro e poi fare l’operazione. Ci pensai una lunga, tormentosa notte, e poi scelsi la seconda soluzione […] Se tornassi indietro farei la stessa cosa. Io non scherzo quando dico che tra me e i miei libri c’è un rapporto materno, che i miei libri sono i miei figli […] Tra la propria salute e quella di suo figlio, tra la propria vita e quella di suo figlio, quale madre non sceglie la salute di suo figlio e la vita di suo figlio?

Anche sul modo della società di percepire il cancro Oriana Fallaci aveva le idee ben precise, e denunciava l’eccesso di pudore mostrato verso la malattia.

Sono figlia di una società che ha sempre avuto paura di pronunciare la parola ‘cancro’, o ha sempre evitato di pronunciarla come fosse una parolaccia, o una colpa. Quando uno muore di cancro si legge ‘è morto di una malattia inguaribile’ […] Questo a me sembra profondamente ingiusto e sbagliato, perché non è vero che è una malattia inguaribile, a volte si guarisce, si sopravvive alcuni anni, a volte anche parecchi anni. Ed è ingiusto, perché ci toglie speranza. Non capisco questo pudore, questa avversione per la parola ‘cancro’, non è neanche una malattia infettiva! [….] Bisogna dirla questa parola apertamente, serenamente, disinvoltamente… Dire ‘Io ho il cancro’, come si direbbe ho la polmonite, ho l’epatite, ho una gamba rotta. Io faccio così, e mi sento di esorcizzarlo.

Il suo rapporto con il cancro, invece

È un rapporto di guerra, tra due nemici che mirano a distruggersi – affermava – Io voglio ammazzare lui, lui vuole ammazzare me. […] Per me lui è un alieno che ha invaso il mio corpo per distruggerlo, e lo pensai anche quando lo vidi, subito dopo l’operazione […] Dissi ai medici ‘Portatemelo qui che voglio vederlo quel figlio di cane’. A prima vista sembrava una pallina di marmo, innocua, quasi graziosa, ma io lo vidi come una creatura viva, un alieno entrato dentro di me per distruggermi […] Però non è mai stato un rapporto di paura. Ebbi paura solo poco prima dell’operazione perché avevo paura che mi mutilassero, proprio come avevo paura in guerra che perdessi un braccio, una gamba, o di restare cieca.

Anche se la paura è stata poca, la Fallaci ha vissuto però, nel decorso della sua malattia, momenti di tristezza, subito dopo, ad esempio, aver appreso della morte di Audrey Hepburn, scomparsa il 20 gennaio 1993 proprio a causa di un cancro esteso al colon. E questo evento, oltre a sconvolgerla, le ha imposto una riconsiderazione inevitabile delle cose, fatta con la solita, lucida razionalità.

Quando si ha il cancro e si aspetta che ritorni, si convive con l’idea della morte, ci si sente dei condannati a morte. E quando ti senti condannato cambia la lunghezza del tempo: il futuro è più breve, il domani è più corto, cambia la preoccupazione di usare bene il tempo che ci rimane. Ancor più del rapporto col tempo, è cambiato il mio rapporto con la vita. Io ho sempre amato la vita, anche nei momenti più neri, ma ora, sono ancora più contenta di essere qui e ancora più convinta che la vita sia bella anche quando è brutta, e anche quando mi succede qualcosa di buono mi prende una specie di gratitudine pazza. Il bello è molto più bello, il buono è molto più buono.

Nella sua vita, dopo tutto, si sono davvero alternati momenti di grande gioia ad altri di vero dolore: dagli aborti, fino alla perdita del compagno, abbiamo riassunto la vita e la carriera della più grande giornalista italiana di sempre nella nostra gallery.

Quando Oriana Fallaci scelse di non curare il cancro "per la salute di suo figlio"
Fonte: Facebook @Memorial Oriana Fallaci
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