Victim blaming, la colpevolizzazione delle vittime

Victim blaming, la colpevolizzazione delle vittime
Fonte: web
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Se violenza di genere e femminicidi sono due degli argomenti di cui, nostro malgrado, ci troviamo a parlare più spesso, c’è un’odiosa prassi che, purtroppo, si accompagna ai fenomeni, e che prende il nome di victim blaming. Tradotto, significa nient’altro che “colpevolizzazione della vittima”.

E no, non dite che è una cosa aberrante di cui però non vi siete mai “macchiati”, perché, pur se privi di malafede e influenzati nei nostri giudizi, ci piaccia o no, da una certa cultura maschilista onnipresente e penetrante, a tutti noi sarà capitato, almeno una volta nella vita, di lanciarsi in commenti come

Certo che se va in giro vestita così!

Se beve e si ubriaca può anche aspettarselo di essere violentata!

Ma che ci faceva da sola di notte per strada?

Beh ma non sapeva che suo marito era un violento? Se continua a stare con lui significa che le sta bene

Che sono esattamente il manifesto più evidente del victim blaming. Colpevolizzare la vittima significa anche pronunciare frasi come

Per carità, sbaglia chi stupra, però se anche noi ce la cerchiamo…

Perché rappresentano proprio tutto ciò che dovremmo evitare quando trattiamo della violenza di genere o delle violenze sessuali: ovvero il voler per forza sottolineare, implicitamente o meno, una sorta di corresponsabilità in chi l’atto lo subisce, sollevando un po’ di più chi lo compie dalle proprie responsabilità, convinti di lavarci le coscienze e di esserci messi dalla parte del giusto grazie a quella premessa, “Sbaglia chi stupra, però…”. Che, in fondo, ha lo stesso sapore del “Non sono razzista ma/Niente contro i gay, eh… Però…!”.

Il concetto, in realtà, è molto più asciutto, e si risolve in un semplice assioma: chi subisce una violenza sessuale, una molestia di qualunque genere, un abuso è sempre e solo la vittima, mai il co-autore della stessa. 

Mai, in nessun caso, una donna si “cerca” uno stupro, neppure se indossa una minigonna o una scollatura, un tacco vertiginoso o un trucco appariscente, neppure se ha bevuto un bicchiere di troppo o si è fumata una canna.

Pensate un po’: è nei pieni diritti di una donna persino salire nella camera di un ragazzo, spogliarsi per fare sesso e poi ripensarci all’ultimo, senza che questo minimamente conferisca a lui l’autorità per violentarla perché “ormai era lì”, né alla società il potere di darle della poco di buono perché in fondo, se entri nella camera di un tizio, poi non è che puoi tirarti indietro all’ultimo come se non sapessi cosa voleva da te.

Allo stesso modo, è pieno diritto di una moglie decidere di non fare sesso con il proprio marito e denunciarlo per stupro se questi è comunque andato avanti; si chiama stupro coniugale, perché sì, un matrimonio ti unirà pure di fronte a Dio, ma non ti conferisce il diritto di proprietà sull’altra/o.

Eppure, il victim blaming oggi si contrappone a quella cultura del consenso che invece dovrebbe essere fondamento basilare e irrinunciabile per tutti i nostri rapporti interpersonali; quella per cui sì significa sì e no significa, in qualunque modo, situazione e tempo, no.

Sbagliamo però se pensiamo che quella di colpevolizzare la vittima sia una tendenza recente; storie (che abbiamo approfondito in gallery) come quella di Franca Rame, stuprata e poi interrogata sulla vicenda con domande (eufemismo) imbarazzanti, o di Fiorella, difesa nel primo processo trasmesso in tv da Tina Lagostena Bassi, ci fanno comprendere che in realtà il victim blaming è vecchio quanto l’idea patriarcale che la donna sia una proprietà a disposizione dell’uomo, o quanto la distinzione delle donne nell’ormai radicata dicotomia santa/puttana.

Victim blaming: violenza e sessismo

È lampante che alla base del victim blaming ci sia un sessismo odioso, per cui le donne sono sempre in qualche modo colpevoli se capita loro qualcosa di spiacevole, e gli esempi in cui questa persuasione emerge si sprecano: abbiamo parlato dello stupro vero e proprio, ma potremo citare anche storie di revenge porn come quelle, dal tragico epilogo, di Tiziana Cantone o Michela Deriu, che hanno pagato il prezzo di una libertà sessuale evidentemente difficile da accettare per buona parte della società, se a reclamarla sono le donne.

Perché è stato chiaro, per i benpensanti sempre pronti a puntare il dito, che le due fossero state “delle sciocche, ingenue” oppure delle “sgualdrine” a farsi riprendere intente a compiere atti sessuali. Il pensiero è andato poco o niente a chi quei video li ha diffusi, per vendetta o goliardia poco importa, mettendo in moto una macchina impietosa di diffamazione e gogna pubblica.

La mia parola contro la sua

Ma alla base del victim blaming c’è anche la distorta logica per cui l’uomo sia un “cacciatore”, guidato dall’istinto, e che la donna, se vestita in un certo modo o comportandosi in una determinata maniera, ne istighi gli istinti più bassi. Che è poi la storia del “la carne è debole”, che, se fosse vera, non ci renderebbe poi tanto diversi dagli animali da cui diciamo di distinguerci in quanto dotati di raziocinio.

Pratiche come il victim blaming, peraltro, normalizzano anche prassi orribili come il catcalling, quei “complimenti” non richiesti per strada che, se non accettati, pongono subito le donne al rango di esseri presuntuosi e altezzosi o, molto più comunemente, “fi**e di legno”.

E la cosa più deprimente, se possibile, è che è vero che per essere maschilisti non si debba essere per forza uomini, dato che sono le donne stesse a giudicare le altre, e a sparare sentenze sul loro modo di vestirsi o di comportarsi. Il problema vero, e se possibile ancor più grave, subentra quando è la vittima stessa a percepirsi come corresponsabile di quanto le è accaduto, e sperimenta quella serie di sentimenti che vanno dalla vergogna al ripudio di sé, i quali rappresentano un secondo trauma conseguente al primo subito. Figuriamoci poi se il danno non viene convalidato, come accaduto in questa storia, di cui vi abbiamo parlato.

Queste sono le interessanti statistiche raccolte da un gruppo di studenti di Harvard in questo compendio:

  • Oltre il 20% delle studentesse di sesso femminile riferisce di aver subito violenze e abusi sessuali a scuola (AAU Campus Survey on Sexual Assault and Sexual Cattonduct, 2015)
  • Il 90% delle aggressioni sessuali nel campus sono commesse da individui noti alla vittima (Bonnie S. Fisher, Francis T. Cullen, Michael G. Turner, “La vittimizzazione sessuale delle donne del college”, National Institute of Justice, 2000)
  • Solo il 12% delle sopravvissute denuncia l’aggressione alla polizia. Questo numero scende al 7% se hanno subito aggressioni sessuali mentre erano incapaci di intendere e di volere. (Decano G. Kilpatrick, Heidi S. Resnick, Kenneth J. Ruggiero, Lauren M. Conoscenti, Jenna McCauley, “Stupro facilitato dalla droga, incapacitato e violenza forzata: uno studio nazionale”, 2007)
  • Solo il 2-10% degli stupri sono segnalazioni false, più o meno la stessa cosa accade per altri crimini. Questo numero include anche rapporti “infondati”, in cui le forze dell’ordine rifiutano di andare avanti con un caso per qualsiasi motivo. (David Lisak, Lori Gardinier, Sarah C. Nicksa, Ashley M. Cote, “False accuse di violenza sessuale: un’analisi di dieci anni di casi denunciati”, 2010)
  • Per ogni 100 stupri, circa due stupratori non faranno mai un giorno di prigione. (Dipartimento di giustizia, Convenuti criminali nelle grandi contee urbane: 2009)
  • Il 34% degli studenti sopravvissuti sperimenta un disturbo post traumatico da stress (PTSD) (“Stupro facilitato dalla droga, inabilitato e forzato: uno studio nazionale”, 2007)
  • Il 33% degli studenti sopravvissuti soffre di depressione (“Droga facilitata da droghe, inabilitata e violenta con forza: uno studio nazionale”, 2007)
  • Il 40% dei sopravvissuti riferisce di abuso di droghe o alcol, spesso usato per ‘automedicarsi’ (“Stupro facilitato dalla droga, inabilitato e forzato: uno studio nazionale”, 2007)

Victim blaming oltre la sfera sessuale

Il concetto di “colpevolizzazione della vittima” in realtà può essere ampliato a qualsiasi situazione in cui a chi ha subito una violenza, o un torto, viene imputata una corresponsabilità; il termine victim blaming, del resto, è stato coniato da William Ryan con la pubblicazione, nel 1971, del suo libro intitolato appunto Blaming the victim, che altro non è se non una critica al saggio di Daniel Patrick Moynihan The Negro Family: The Case for National Action del 1965, in cui l’autore descriveva le sue teorie sulla formazione dei ghetti e la povertà intergenerazionale.

Ryan criticò queste teorie, considerandole come tentativi di attribuire la responsabilità della povertà al comportamento e ai modelli culturali dei poveri stessi. Ma il medesimo discorso è applicabile, ad esempio, a chi rimane vittima di una truffa, e si sente dire “Dovevi stare più attento!”. Anche in questo caso, la responsabilità è solo e soltanto dei criminali che approfittano delle persone per i loro loschi scopi.

È chiaro che il discorso assuma toni ancor più preoccupanti nel contesto della violenza di genere, ed è per questo che vogliamo concludere citando ancora il compendio degli studenti di Harvard:

Cose che causano stupro:

  • stupratori
  • qual è l’unica cosa che ogni singolo stupro ha in comune? Uno stupratore che sceglie di stuprare

Cose che NON causano stupri:

  • Bere o consumare droghe (sia intenzionali che non intenzionali – ad es. “Droghe da stupro”)
  • Abbigliamento o trucco
  • Flirt o precedenti incontri consensuali

In gallery abbiamo riportato alcune delle storie che meglio riassumono quanto grave sia il victim blaming, con l’anno in cui sono successe, per far capire che il problema non è certo recente, è sempre esistito.