Nel primo episodio di She’s Gotta Have It, la serie televisiva targata Netflix diretta da Spike Lee e ispirata al suo film d’esordio omonimo, la protagonista, l’artista afroamericana Nola Darling, subisce un’aggressione da parte di un uomo mentre torna a casa, da sola e di notte.

Ripensando all’epiteto offensivo con cui l’aggressore ha reagito al suo diniego (il poco lusinghiero, ma purtroppo così diffuso, «troietta neg*a che non sei altro»), Nola decide, allora, di tappezzare i muri delle strade di New York con una serie di manifesti riportanti i volti di donne nere e alcune scritte in rosso.

Le frasi, rese a caratteri cubitali, intendono rispondere proprio a quelle molestie verbali (il cosiddetto catcalling) con cui molte donne sono solite confrontarsi quando si trovano a camminare per strada in solitudine. Tra queste, spiccano le declinazioni sessiste: «Il mio nome non è “bocconcino”», «Il mio nome non è “tesoro”», «Il mio nome non è “bambina”», «Il mio nome non è “pollastrella”», «Il mio nome non è “mamacita”», «Il mio nome non è “zuccherino”», «Il mio nome non è “Ehy, oh, bellezza”», «Il mio nome non è “sexy sexy sexy”», «Il mio nome non è “amoruccio”», «Il mio nome non è “dolcezza”».

La voce fuori campo di Nola scandisce ogni frase con rabbia e determinazione, fino a giungere a quella che ha caratterizzato la scaturigine della sua reazione artistica: «E il mio nome assolutamente non sarà mai “Troietta neg*a che non sei altro”».

L’ultimo insulto pone l’attenzione su un fenomeno molto particolare, accentuazione del sessismo che, ancora troppo spesso, riguarda le donne: il misogynoir. Vediamo che cos’è e quali sono le sue caratteristiche.

Che cos’è il misogynoir

Il “misogynoir” è una forma di discriminazione in cui confluiscono due pregiudizi differenti, quello di genere e quello razziale. La parola, infatti, è composta dall’incontro dei termini “misoginia”, ossia l’odio nei confronti delle donne, e l’aggettivo francese “noir”, volto a precisare la direzione della prima verso le donne nere.

L’espressione è stata coniata dall’accademica afroamericana lesbica Moya Bailey nel 2010, per descrivere, come precisa il Guardian,

il particolare marchio di odio diretto verso le donne nere nella cultura visiva e popolare americana.

In seguito, il termine è diventato virale e, andando probabilmente a sollecitare un nervo culturale scoperto, ha trovato rapido impiego nel lessico attivista e non solo, sottolineando, in questo modo, quel peculiare tipo di sessismo che concerne le donne nere, e di cui si parlava (e si parla) ancora relativamente poco.

Secondo la femminista Feminista Jones, infatti:

Misogynoir fornisce una sfumatura razziale che il femminismo tradizionale non stava cogliendo: stiamo parlando di misoginia, sì, ma c’è una misoginia specifica che si rivolge alle donne nere ed è unicamente dannosa per le donne nere.

Non solo sui social media, quindi, ma anche in tutti i contesti della vita quotidiana il misogynoir si dirama come una forma di discriminazione spesso subdola, invasiva e poco riconosciuta. Alla quale è senz’altro necessario porre fine.

Gli stereotipi sulle donne nere

Ma quali sono gli stereotipi con cui le donne nere si ritrovano spesso a fare i conti? Li esamina con cura la giornalista Kesiena Boom nel suo articolo “4 Tired Tropes That Perfectly Explain What Misognynoir Is – And How You Can Stop It”, nel quale sono, appunto, resi oggetto di disamina i quattro “tropi” nei quali si imbattono le donne vittime di discriminazione sessista e razziale.

Spesso descritte come più “brutte”, “carenti”, “ipersessuali” e “malsane” rispetto alle controparti non-nere, le donne soggette al misogynoir risultano doppiamente vittime: non solo di un odio specifico e di un’antipatia in cui convergono sessismo e razzismo, ma anche di una struttura concettuale, culturale e sociale che le vede interpreti di “ruoli” radicati nel corso dei secoli. E di cui ancora subiscono le ingerenze.

Il primo stereotipo con cui le donne nere si ritrovano a combattere è, per esempio, quello della “Sassy Black Woman”, che le descrive come persone prive di sentimenti complessi e unicamente forti, coraggiose, “guerriere”:

saccenti unidimensionali che schioccano le dita e alzano il collo e gridano “Mmmh!” in un dato momento.

Una rappresentazione, spiega Boom, che riduce la complessità e le numerose sfaccettature che le donne nere, in quanto persone, naturalmente possiedono, presentandosi come offensiva e disumanizzante.

Proprio come il mito dell’“ipersessualizzazione”, il quale relega le donne nere a perenni “Jezabel” (la biblica regina peccatrice), delineandole come automaticamente «tro*e e pu**ane» e rendendole, così, oggetto sessuale prediletto degli uomini bianchi,

che spesso parlano del loro desiderio di scoparci perché hanno sentito dire che siamo “strane” e “pronte a tutto” a letto.

Un’aspettativa deleteria e mortificante cui ha notevolmente contribuito anche l’industria pornografica e audiovisiva, nelle quali, spesso, la femminilità nera è dipinta come procace ed esagerata e si configura, dunque, come l’estremo opposto della “purezza” e dell’“innocenza” incarnate dalla femminilità bianca.

Il terzo tropo, invece, è quello dell’“Angry Black Woman”, che caratterizza le donne nere come impertinenti, arrabbiate, maleducate e irascibili. Il risultato: le azioni di una donna nera – specialmente se attivista – vengono intese sempre come “troppo aggressive”, anche quando non lo sono.

Tale stereotipo ha, infatti, uno scopo preciso: esacerbare le reazioni delle donne nere per posizionarle come

l’isterico opposto rispetto alla razionalità degli uomini, e soprattutto degli uomini bianchi.

Esso è, dunque, una

tattica usata per sminuire la nostra rabbia legittima, dipingendola come un difetto di carattere intrinseco, piuttosto che come una reazione giustificata dalle circostanze.

Alla rabbia, infine, si lega l’ultimo, inflazionato, stereotipo, ossia quello della “Strong Black Woman”: una narrazione culturale che definisce le donne nere come persone in grado di fronteggiare qualsiasi difficoltà, pratica ed emotiva, in virtù della loro forza e tempra caratteriale innate e inscalfibili.

Un tropo che costringe le donne nere a mantenere sempre un atteggiamento risoluto e solido, convincendole dell’impossibilità di affrontare le proprie problematiche in modo sano e approfondito, come si richiederebbe, invece, a qualsiasi altro individuo.

Con effetti pericolosi:

Questo tropo – precisa, infatti, Kesiena Boom – contribuisce anche alla riluttanza di molte donne nere a cercare aiuto per problemi di salute mentale e a farci credere con meno probabilità quando cerchiamo di ottenere aiuto o ne discutiamo.

Prospettive e soluzioni al misogynoir

Come fare, quindi, per decostruire l’impianto del misogynoir? La risposta, ancora una volta, risiede in un concetto: quello di intersezionalità, coniato dalla giurista e attivista statunitense Kimberlé Crenshaw nel 1989.

Solo dando libera voce a tutte le fasce oppresse della società, infatti, è possibile prendere in considerazione e, di conseguenza, reagire alle discriminazioni che tutt’oggi caratterizzano le identità sociali vittime di pregiudizio, le cui istanze sono inglobate, e trovano ora piena rappresentanza, nel movimento del femminismo intersezionale.

Il quale, a differenza del femminismo delle “prime ondate”, è in grado di riconoscere il livello di complessità e la derivante stratificazione delle forme di discriminazione, ponendo, così, in risalto le diverse declinazioni di sessismo, razzismo e abilismo subite dalle donne.

L’odio di cui è vittima una donna nera, appunto, non è, come abbiamo visto, equiparabile a quello che potrebbe colpire una donna bianca della working class, così come quello subito da una donna etero non è lo stesso che concerne una donna lesbica, e così via.

Lo ha sottolineato anche la scrittrice e attivista nera bell hooks – pseudonimo di Gloria Jean Watkins – che nei suoi lavori, tra cui Elogio del margine e Ain’t I a Woman, pone in rilievo come il femminismo radicale tenda a livellare e universalizzare le esperienze di oppressione delle donne, prendendo, però, come metro di giudizio quella “standard” della donna bianca e di classe media, senza dare espressione, in tal modo, alle molteplici e dissimili discriminazioni subite dalle donne nere.

L’odio nei confronti delle donne non è un monolite: muta, si plasma e, purtroppo, evolve in forme sempre nuove nel corso dei decenni, motivo per cui l’unico metodo idoneo per combatterlo consiste nel non cessare mai di studiare e di ascoltare le voci che, quell’odio, lo subiscono in prima persona. Non rischiando di ridurre a “macchiette” gli individui che condividono le proprie esperienze e, anzi, interrogandoci sulle forme di pregiudizio inconsapevole che ancora riguardano noi e gli altri. Comprese molte femministe, vittime, in una certa misura, della sindrome del “white savior“.

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