Qualche giorno fa, in occasione della Giornata Internazionale della Carità, il 5 settembre, l’attore scozzese Gerard Butler ha pubblicato un post in cui raccontava, con le immagini, la sua esperienza con Mary’s Meals, associazione con sede a Dalmally che istituisce programmi di alimentazione scolastica in alcune delle comunità più povere del mondo, in cui le condizioni di estrema indigenza impediscono ai bambini di ottenere un’istruzione.

Le sue fotografie sono però state prese come spunto da No White Saviors, pagina Instagram ugandese, per sollevare una questione che, pur esistente da anni, viene sistematicamente ignorata, quella del cosiddetto salvatore bianco.

Che cos’è il white savior complex, il complesso del salvatore bianco appunto? È proprio No White Saviors a darne una definizione piuttosto esaustiva, nel post in cui spiega il motivo delle critiche alle immagini di Gerard Butler, in quale ovviamente non è la pietra dello scandalo in sé, ma un esempio grazie al quale centrare il focus sull’argomento.

Quando facciamo un post come questo, non stiamo cancellando gli sforzi di nessuno, nonostante qualcuno lo possa pensare. Vogliamo solo lasciare lo spazio alla gente per imparare, crescere e impegnarsi per far meglio. E allo stesso tempo, dobbiamo smettere di dare la priorità ai sentimenti e alle intenzioni dei bianchi, senza valutare l’impatto che hanno sulle vite dei neri e sulle comunità nere.

Quando molti di voi ci hanno taggati o ci hanno mandato l’ultimo post di @gerardbutler, non abbiamo potuto fare a meno di pensare che questa fosse una rappresentazione stereotipata delle persone nere, soprattutto quelle del continente africano, come noi, che spesso vengono messe in mostra per far vedere la beneficienza e l’aiuto che riceviamo. Questo però ci ricorda come a mancare sia proprio l’impegno nel raccontare eticamente il modo in cui le organizzazioni non profit/ONG raccolgono fondi.

Se non siamo vestiti di stracci, siamo “poveri ma felici”. La trama non cambia mai e l’obiettivo finale è più o meno lo stesso.
Per la miseria, nessuno si accontenta di essere povero. Se fate beneficenza solo per tenere il passo con le apparenze, per placare il vostro senso di colpa, il vostro eccesso, il vostro privilegio, dovete riflettere sull’onestà delle vostre motivazioni e chiedervi se state o meno dando davvero priorità alle persone a cui dite di tenere.

Se si riuscisse a vedere il complesso del salvatore bianco come un sintomo del soggiogamento da parte dei bianchi, allora si può anche imparare a distaccarsene. Più ampia sarà la piattaforma da cui parlate, maggiore sarà la vostra influenza. Perciò potreste usarla per mostrare il lavoro che la gente del posto sta facendo, in un modo dignitoso, in modo che siano loro stessi gli eroi della storia che viene raccontata. Alzate la mano se siete stanchi di queste trovate, da @sjdooley a @gerardbutler, noi siamo stanchi.

Il punto è quindi che i vip dovrebbero smetterla di postare foto che li immortalano mentre sono impegnati in attività di volontariato, abbracciati a bambini neri od occupati in attività umanitarie al fianco di associazioni benefiche o ONG? Ovviamente no. Anzi, il loro esempio può fungere da sprone o, quantomeno, portare alla ribalta realtà che spesso finiscono con l’essere ignorate. Ma è altrettanto importante, se non di più, ascoltare, dalla voce dei protagonisti – in questo caso una pagina social che ha base in Uganda –  perché questa forma di aiuto rischia di essere un’arma a doppio taglio, e di finire con il perpetrare quel concetto colonialista su cui si basa l’idea stessa della disuguaglianza e di una “minore importanza” delle vite di questi popoli. Proprio su questo si fonda il white savior complex.

Cos’è il white savior complex

La narrazione del salvatore bianco, perché questo forse è il termine più corretto da usare, indica proprio l’inclinazione delle persone bianche ad aiutare coloro che sono considerati “altri”, quindi i non bianchi, in un’ottica che si rifà soprattutto al self-serving, ovvero alla prospettiva di pregiudizio egoistico per cui rendersi caritatevoli ed essere considerati i benefattori dai secondi contribuisca ad aumentare la propria autostima.

Per intenderci, parliamo di una modernizzazione del concetto contenuto nella poesia “Il fardello dell’uomo bianco“, poesia del 1899 di Rudyard Kipling in cui si legge:

Prendete il fardello dell’Uomo Bianco,
le selvagge guerre di pace
riempiono la bocca della Carestia
e ordinano la cessazione della malattia;
e quando la tua meta è più vicina
alla fine per gli altri cercata,
osserva l’accidia e la follia pagana
portare tutte le tue speranze nel nulla.

L’Africa, che ha alle spalle una centenaria storia di schiavitù e colonizzazione, finisce con l’essere l’oggetto di un comportamento paternalistico e ostentatamente compassionevole che, secondo Damian Zane di BBC News, non fa altro che aumentare il senso di dipendenza dei Paesi del Continente nero, legandoli per sempre ai bianchi.

La narrazione del salvatore bianco, del resto, è stata spesso ripresa dal cinema, come modello per rappresentare un rapporto impari e disequilibrato in cui il white savior ha un aspetto messianico, ma anche nelle serie tv, ad esempio: Stephanie Greco Larson, in un suo articolo, ha citato la serie Il mio amico Arnold come perfetto esempio del white savior complex: una stimata famiglia americana bianca che adotta un bambino nero.

La studiosa Robin R. Means Coleman ha detto:

In queste commedie, i bambini neri sono salvati dalle loro famiglie disfunzionali o comunità da parte dei bianchi.

Il che la dice lunga sul tipo di idea che si vuole passare della comunità nera, e della dicotomia che in questo modo si viene a creare fra i bianchi/buoni/caritatevoli e i neri/arretrati/bisognosi di protezione o di essere salvati. Chiaro che, in un rapporto del genere, la subordinazione di una parte all’altra sia evidente, ed è qui che sta la falla del white savior.

Come decostruire la narrazione del white savior

Che fare, quindi, per liberarci del salvatore bianco? Smettere di fare beneficenza, opere di volontariato, missioni umanitarie o, nel caso dei vip, smettere quantomeno di ostentare le proprie opere pie sui social? In realtà no.

Anzi, come No White Saviors specifica in un altro post, c’è bisogno di fare del buono, anche e soprattutto se si ha un’influenza notevole come quella che, naturalmente, hanno le celebrities, ma bisogna anche ragionare sull’impatto di ciò che si sta facendo e comprendere che agire in una determinata maniera significa perpetuare un regime di oppressione e accentuare un dislivello atavico.

Il problema è pensare di trattare i neri “oggetto” dell’aiuto come fenomeni da baraccone da esporre, partendo dal presupposto che siano animali da ammaestrare verso cui si sviluppa un naturale istinto di protezione perché bisogna “educarli”. Lo è anche ritenere di avere il diritto di mostrare in fotografia bambini nudi, o vestiti di stracci, per ispirare compassione ed empatia, senza il consenso di un genitore – cosa che, invece, non sarebbe mai permessa con un bambino bianco – solo perché si pensa che sia la loro normalità, e che in quanto tale non ci sia nessun problema di forma o di morale nell’esibirla al pubblico.

Infine c’è l’aspetto principale, che è quello di portare avanti comunque, pur con tutta la buona fede e l’ingenuità del caso, la visione colonialistica per cui è sempre il bianco che dà e il bianco che toglie, e che quindi ci troviamo di fronte a un mero assistenzialismo, e non al tentativo di aiutare davvero le comunità ad evolversi, così da rendersi indipendenti.

Lo spiega molto bene la testimonianza raccolta in questo articolo:

[…] sebbene avessi le migliori intenzioni di aiutare in queste località esotiche e lontane in tutto il mondo, ero spinto dall’idea che coloro che stavo cercando di servire avessero bisogno di essere salvati da persone che mi somigliavano. – Persone che erano bianche, occidentali e cristiane.

Anche se non sono mai stato un missionario nel senso comune del termine, non ho mai fatto proselitismo o cercato di salvare le anime, il motore che mi guidava era il complesso del Salvatore bianco. Pensavo che i neri che vivevano nel mondo in via di sviluppo avessero bisogno di noi bianchi, occidentali, cristiani.

Secondo questo articolo, dunque, la narrazione del white savior:

[…] 2) Impedisce che la missione, l’aiuto e il lavoro di sviluppo siano improntati al dialogo e partecipativi; i cosiddetti esperti intervengono con le loro risposte e competenze e non riescono a includere le voci dei leader locali, delle organizzazioni e delle parti interessate.

3) Conduce al paternalismo: fare le cose agli o per gli altri, piuttosto che cercare di potenziare e rafforzare le capacità locali. Ci trasforma in eroi piuttosto che autorizzare gli altri a diventare gli eroi delle loro stesse storie.

4) Ruba il libero arbitrio ai poveri e contribuisce a un’identità basata sulla vergogna e sul senso di impotenza.

5) Porta a fare cose in altri contesti che non avremmo nemmeno immaginato di fare. Immaginate se dodici di noi salissero su un aereo e volassero a Stoccolma o Dublino e, una volta arrivati, trovassimo dei bambini molto carini – i bambini di altre persone – iniziando a prenderli e a scattare selfie per pubblicarli su Facebook. Sembra strano, vero?

6) Perpetua il poverty porn, le immagini onnipresenti dei poveri viste in molte campagne di raccolta fondi, che oggettivizzano gli esseri umani allo scopo di suscitare una risposta emotiva al fine di raccogliere una donazione. Li identifica come vittime impotenti che non possono farne a meno, figurandoli implicitamente come oggetti inetti e incapaci che attendono passivamente soccorso.

Come detto in apertura di articolo, non è uno scagliarsi contro il vip di turno – pensiamo ad Angelina Jolie, a George Clooney, a Richard Gere -, del quale anzi si apprezza l’impegno e la dedizione umanitaria; ma è semplicemente questione di cambiare prospettiva, e pensare che l’impegno debba essere profuso per portare i soggetti del nostro aiuto alla completa e piena autonomia, in modo che, con una vera autosufficienza e la capacità di autogestirsi, non ne abbiano mai più bisogno.

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