La sua immagine più recente l’abbiamo tutti davanti agli occhi: è quella di una ragazza sorridente, che abbassa la mascherina necessaria per proteggersi dal Covid, avvolta da uno hijab verde, lo stesso che ha fatto storcere il naso a molti.

Perché non tutti, il 9 maggio 2020, quando è arrivata la notizia del suo rilascio, dopo un anno e mezzo di prigionia, hanno gioito: com’è ormai abitudine consolidata di molti, soprattutto di quanti imbastiscono veri e propri processi a mezzo social, praticamente ogni azione relativa al rientro in Italia di Aisha Silvia Romano è stata scandagliata, analizzata al microscopio, soppesata per essere giudicata. Tanto che le opinioni in merito (non richieste, ma questo a chi le dà generalmente poco importa) si sono sprecate.

Molti si sono spesi a gran voce protestando per l’eventuale pagamento di un riscatto, dato da tanti come certezza, con tanto di cifre precise, ignorando un fatto tanto banale quanto importante: fosse anche appurato il pagamento di una somma per riportare Aisha Silvia Romano a casa, non si tratterebbe di un fatto trascendentale, ma di una prassi che può essere considerata piuttosto frequente nei casi di rapimento, e alcuni casi del recente passato, anche riguardanti l’Italia, ne sono un esempio.

Altri hanno ovviamente puntato il dito sulla scelta di Romano di recarsi in un luogo giudicato “pericoloso”, con discorsi che ovviamente hanno tenuto a far notare che “fosse rimasta a casa, non le sarebbe successo nulla”. Alla faccia di quelli (che a volte, per coincidenza, sono gli stessi), che a fronte degli sbarchi di immigrati si sgolano per ricordare di “aiutarli a casa loro”. Della serie, come fai sbagli comunque.

Ma la cosa che naturalmente tanti hanno faticato a mandare giù è stato vedere la giovane cooperante milanese atterrare sorridente all’aeroporto romano di Ciampino con il suo hijab verde, segno inequivocabile del suo passaggio alla religione islamica, la religione degli “infedeli”, ragion per cui, agli occhi di chi già criticava le modalità della sua partenza e del suo ritorno, è stato ancor più evidente che “andava lasciata là”. Se a questo poi aggiungiamo anche la scelta di cambiare il nome, mettendo al primo posto l’arabo Aisha, è chiaro che il livore, per qualcuno, che ha visto nel gesto della ragazza il segno inequivocabile dell’ingratitudine verso il popolo che era venuto a salvarla, abbia raggiunto livelli inimmaginabili.

E così, a distanza di mesi dal suo ritorno in Italia, proprio lei ha voluto spiegare i motivi della scelta della sua conversione, spazzando finalmente quella spessa coltre di pettegolezzi e malelingue che, a più riprese, avevano detto che aveva sposato uno dei suoi rapitori, o che era tornata incinta.

Prima di essere rapita ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente – ha detto al giornale online La luce – spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male.

[…] Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali. Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni.

Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia. Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui. Poi a un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno.

Aisha Silvia Romano ha proseguito, spiegando cosa significa per lei aver abbracciato la fede islamica:

Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima, certa che Dio mi amasse e avrebbe deciso il bene per me. Quando provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere.

Per me il velo è simbolo di libertà. Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio.

Quando era ancora “solo” Silvia Romano, ed era da poco laureata alla Unimed CIELS di Milano, si trovava nel suo alloggio a 80 km da Malindi, nella serata tra il 20 e il 21 novembre 2018, quando un gruppo di circa 5 individui ha fatto irruzione, sparando alcuni colpi verso i presenti e portandola via. La notizia del rapimento è stata diffusa da Joseph Boinnet, portavoce della polizia locale del Kenya, che ha indicato come probabili autori del gesto i miliziani islamici di Al Shabab, un gruppo attivo nella confinante Somalia.

Nonostante per sua stessa ammissione si sia avvicinata al volontariato attivo solo durante la tesi di laurea, la giovane aveva da sempre dimostrato grande interesse per le cause umanitarie, come dimostra proprio quella tesi, incentrata sulla tratta di esseri umani. La 23enne era alla sua seconda missione in Africa nella contea di Kilifi, vicino a Malindi, dove era partita volontaria con la ong italiana Africa Milele per prestare servizio in un orfanotrofio.

Grazie a ciascuno di voi che mi è stato accanto, mi ha supportato e sopportato, dato forza, per questo obiettivo che mi rende cosi orgogliosa – scriveva su Facebook a febbraio del 2018 – Si tratta del primo di una lunga serie di sogni da realizzare.

Sempre su Facebook aveva lanciato una raccolta fondi per aiutare la Onlus Orphan’s Dream ad ampliare le strutture di ricovero per gli orfani.

Quello che ha portato al rapimento di Aisha Silvia Romano sarebbe stato un attacco mirato, come ha raccontato tempo fa al Corriere Ronald Kazungo, 18enne presente al momento del rapimento e amico della ragazza:

La stavo aiutando a passare in rassegna le pagelle dei suoi ragazzi, quelle arrivate e quelle mancanti. Mi hanno chiesto dov’è la ‘mgeni’, la straniera? Ho detto che era uscita a procurarsi un caricabatterie, ma non mi hanno creduto. Si sono diretti un’altra stanza e l’hanno trovata. Hanno iniziato a schiaffeggiarla forte finché è caduta a terra. Silvia mi chiamava, chiedeva aiuto, io ho cercato di spingere via l’uomo che la immobilizzava a terra, per legarle le mani dietro la schiena, ma qualcuno mi ha colpito alla testa con un machete e ho come perso i sensi. Lei gridava: ‘scappa, mettiti in salvo’. Ho trovato la forza di rialzarmi e fuggire. Fuori c’erano altri due individui: sparavano e mettevano in fuga la gente. Poi se la sono portata attraverso il fiume Galana. Erano oromo, quindi somali.

Tre dei sequestratori, Moses Luwali Chembe, Abdalla Gababa Wario e Ibraihm Adam Omar, sono stati arrestati e sono tutt’ora sotto processo, anche se le udienze sono state interrotte a causa della pandemia mondiale. Uno dei tre, Adam Omar, in libertà su cauzione e considerato l’uomo più pericoloso dei tre, ha fatto perdere le sue tracce.

Oggi Aisha Silvia Romano, polemiche a parte, ha ripreso in mano la sua vita, si è sposata, il 7 maggio 2021, con un amico d’infanzia, Paolo, in un matrimonio celebrato con rito musulmano, e oggi vive alla periferia di Milano, così come la famiglia di lei, dove fa l’insegnante di lingue.

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