Immigrato, migrante, extracomunitario NON sono sinonimi. I significati

Termini quali immigrato, migrante e extracomunitario sono stati usati, ciclicamente, ma hanno finito tutti col diventare dispregiativi. In realtà, i concetti sono semanticamente molto diversi tra loro, e soprattutto non c'è nulla di discriminante in essi, se non la volontà di interpretarli così da parte delle persone.

I flussi migratori, soprattutto da qualche anno a questa parte, sono terreno di facile scontro tra linee diverse di pensiero, e spesso usati (a sproposito) anche come vera e propria propaganda politica dall’una o dall’altra parte.

Se ne discute ai tavoli dell’Unione Europea, si tirano in ballo la Convenzione di Dublino, l’obbligo di accoglienza e il concetto di “ripartizione equa” fra i Paesi, dimenticando spesso la cosa più importante: che si parla di persone, e non di numeri o di oggetti da sistemare secondo delle logiche o strategie politiche.

Soprattutto, anche a livello giornalistico, di frequente si fa confusione rispetto ai termini che identificano queste persone, cosa che contribuisce a creare un’idea errata e contorta del problema, fomentando, magari anche in maniera inconsapevole, intolleranza e discriminazione.

Non è difficile infatti leggere o sentire qualcuno riferirsi alle persone che arrivano, indistintamente, come migrante, immigrato, extracomunitario; eppure i termini sono estremamente diversi fra loro, sia dal punto di vista semantico che da quello concettuale, e usarli come se invece fossero sinonimi è sintomo di una lacuna, da questi punti di vista, da cui dipende anche il modo di guardare al problema nel suo complesso.

Un interessante articolo di Dinamo Press analizza l’excursus storico e l’evoluzione della terminologia relativa ai fenomeni migratori, notando come, dai primi anni Novanta fino ai giorni nostri, si sia rapidamente passati dal termine di extracomunitario a quello di immigrato, infine di migrante. Peccato, come detto, che questi tre termini non siano da considerarsi come un continuum naturale, né legati da un comune fil rouge, poiché slegati l’uno dall’altro e dotati ciascuno di un proprio, preciso significato.

1. Extracomunitario

Leggiamo da vocabolario Treccani:

Che non fa parte dell’Unione Europea: paesi e.; come sost., spec. al plur. masch., gli e., coloro che emigrano da paesi economicamente disagiati (spec. da regioni dell’Africa e dell’Asia) negli stati dell’Unione Europea in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita.

Il termine deriva dal linguaggio burocratico, e rappresenta uno dei pochi casi in cui una parola tecnica è diventata di uso comune. Con il tempo la parola ha assunto una connotazione negativa, perché di fatto nessun americano, giapponese o svizzero verrebbe definito “extracomunitario”, pur essendolo.

Il problema del termine si pone nel momento in cui con esso non si fa più solo riferimento a una condizione giuridica (quella, appunto, di provenire da un Paese non appartenente alla UE), ma genera esclusione sociale. Tanto che anche i romeni, pur essendo la Romania nell’Unione Europea dal 2007, sono spesso ancora definiti extracomunitari.

Proprio per questo motivo il procuratore capo di Savona, Francantonio Granero, con una circolare del 7 settembre 2011 ha chiesto di cancellare la parola extracomunitario da tutti gli atti giudiziari, sostituendola con altre espressioni non discriminatorie nei confronti dei cittadini stranieri. E i filologi danno ragione alla sua scelta, perché, se l’etimologia della parola non è cambiata, a farlo è stato invece l’uso sociale di essa, che ha finito con l’assumere una connotazione razzista.

A essere chiamati extracomunitari sono spesso anche dei migranti che potrebbero essere rifugiati o potenziali richiedenti asilo, pertanto equiparati ai cittadini italiani e definiti in base allo status giuridico e non secondo un generico “extraeuropeo”.

Si può quindi sostituire extracomunitario con termini come “cittadino straniero”, “non comunitario”, mentre, come detto, rispetto ai rifugiati, richiedenti asilo o beneficiari di una forma di protezione internazionale, occorre definirli con il loro status, secondo quanto stabilito dalla Carta di Roma.

A questo proposito, esiste un dibattito anche sulle differenze esistenti tra i termini “rifugiato” e “migrante”, motivo per cui è importante capire, prima di tutto, il significato dei termini.

2. Rifugiato, profugo e richiedente asilo

Leggiamo, seguendo un articolo di OpenPolis: il richiedente asilo è colui che

ha richiesto di essere riconosciuto come rifugiato (o altra forma di protezione) e che è in attesa del responso. I richiedenti asilo solitamente entrano nel territorio in modo irregolare, ma dal momento in cui presentano la richiesta sono regolarmente soggiornanti, e quindi non possono essere definiti clandestini.

Per profugo si intende invece

una persona scappata per ragioni di sopravvivenza, solitamente a causa di guerre o conflitti, ma che non rientra nella categoria di rifugiato. Spesso il profugo è interno, ovvero nel suo stesso Paese.

Il rifugiato, infine, è chi

è scappato dal proprio Paese per cercare protezione in un altro. L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite (Unhcr) riconosce come rifugiati coloro che rientrano nei criteri stabiliti dal loro statuto. Questi sono dunque titolari della protezione che l’agenzia Onu può offrirgli. Altra cosa è il riconoscimento dello status di rifugiato da parte di un paese membro della convenzione di Ginevra del 1951.

Ci sono dunque anche criteri diversi in base ai quali tale status possa essere riconosciuto alle persone. Vediamo quali

3. I criteri per chiedere asilo o essere considerati rifugiati

La principale forma di protezione è quella di chi richiede lo status di rifugiato, riconosciuta a un richiedente asilo da uno stato membro della convenzione di Ginevra del 1951, la quale definisce il rifugiato come:

[…] chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato.

Vi è poi la misura della protezione sussidiaria, prevista dal diritto della UE e, ovviamente, da quello italiano, la quale è garantita a chi non rientri nella definizione di rifugiato. In particolare, secondo il decreto legislativo 251/07, gode della protezione sussidiaria la persona

[···] nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, […] correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese.

In particolare, si parla di condanna a morte, tortura o qualunque altra forma di pena o trattamento inumano.

Infine, vi è la protezione nazionale, prevista dal nostro ordinamento nel Testo Unico sull’Immigrazione, concessa a chi, pur in assenza dei requisiti per accedere alla protezione internazionale, fosse comunque ritenuto idoneo per motivi umanitari. Questa misura è stata abrogata con il decreto sicurezza nell’ottobre 2018, sostituita da nuove ipotesi di rilascio di permessi di soggiorno per protezione speciale o casi speciali.

Fatte salve queste premesse, vediamo da dove si sviluppa il dibattito rispetto ai termini “rifugiato” e “migrante”

4. Migrante

Il termine migrante, da vocabolario Treccani, ha questo significato:

Che migra, che si sposta verso nuove sedi.

Tuttavia, come e più che nel caso di extracomunitario, come sottolinea un articolo pubblicato il 16 agosto 2021 sul Guardian da Stephen Pritchard, The Semantics of Migration, anche migrante ha finito con l’essere connotato negativamente da media e politica, andando a indicare un ruolo, più che una persona, e venendo spesso associato al termine di migrante irregolare o clandestino.

5. Rifugiato o migrante? Le difficoltà di stabilirlo

Al Jazeera English ha proposto di usare per tutti la parola “rifugiato”, aprendo però un dibattito. Il portavoce di UNHCR Adrian Edwards ha pubblicato una nota dal titolo “Refugee or migrant. Which is right?“, precisando:

I migranti scelgono di spostarsi non a causa di una diretta minaccia di persecuzione o di morte, ma soprattutto per migliorare la propria vita attraverso il lavoro, o in alcuni casi per l’istruzione, per ricongiungersi con la propria famiglia o per altri motivi. A differenza dei rifugiati che non possono tornare a casa senza correre rischi, i migranti non hanno questo tipo di ostacolo al loro ritorno. Se scelgono di tornare a casa, continueranno a ricevere la protezione del loro governo. […] Assimilare rifugiati e migranti può avere gravi conseguenze per la vita e la sicurezza dei rifugiati. Confondere i due termini svia l’attenzione dalle specifiche protezioni legali di cui i rifugiati hanno bisogno.

In questo modo, però, si corre il rischio di distinguere tra i “buoni” (che arrivano per chiedere asilo perché in pericolo nel loro Paese) e i “cattivi” (i migranti, che arrivano in maniera clandestina e “solo” per ragioni economiche).

Chiaramente UNHCR ha ragione da un puro punto di vista terminologico, anche in accordo con la già citata Convenzione di Ginevra. Ma è anche vero che, fino a quando le pratiche per la richiesta d’asilo non sono concluse e accettate, ogni persona che arriva può essere considerato un migrante.

Se poi leggiamo l’Articolo 13 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio”, potremmo interpretare il fatto così: se il migrante non riesce a farlo legalmente, e mette a repentaglio la propria vita per riuscirvi comunque, allora si potrebbe configurare nella fattispecie della “persecuzione” qualunque rischio che questi corra per la sua vita nel corso del suo tentativo, così come descritto nella Convezione di Ginevra. In questo modo, tutti potrebbero essere considerati “rifugiati”.

“Migrante” resta comunque il termine più attuale, che ha seguito quello, largamente usato, di “immigrato” il quale a sua volta ha altre connotazioni.

6. Immigrato

Secondo Dinamo Press “immigrato” è stato usato soprattutto per innescare empatia ricollegando l’esperienza migratoria di molti europei all’inizio del XX secolo, compresi gli italiani. Eppure, col tempo anche questo termine ha finito con l’assumere una connotazione negativa, di straniero venuto a togliere diritti ai nativi.

Da vocabolario Treccani, l’immigrato è

Che, o chi, si è trasferito in un altro paese: operai i., famiglie i. nel Nord; in senso specifico, riferendosi ai soli spostamenti determinati da dislivelli nelle condizioni economiche dei varî paesi, chi si è stabilito temporaneamente o definitivamente per ragioni di lavoro in un territorio diverso da quello d’origine: i. regolari; i. irregolari (o clandestini), privi di permesso di soggiorno; i. stagionali, quelli che emigrano in un paese straniero sostandovi per brevi periodi, limitatamente alla durata del contratto lavorativo che li lega all’azienda che li ha richiesti.

Appare chiaro che la distinzione che fa il vocabolario si basa sulla presenza di un contratto di lavoro regolare, e quindi sul possesso di un permesso di soggiorno.

Con la parola “immigrazione” si fa invece riferimento a un fenomeno controllato politicamente, anche programmato, come appunto quello degli italiani nel continente americano di inizio secolo scorso. L’uso del participio passato, inoltre, non è casuale, ma denota un evento ormai concluso, facendo quindi capire che la persona viva ormai in pianta stabile nel Paese in cui si è trasferito, mentre il participio presente di “migrante” indica un percorso ancora in atto.

Perché stiamo cercando sempre di più di cambiarla [la parola “immigrato”] con migrante, che spesso a volte è anche sbagliata? – si chiede il regista Andrea Segre – Magari una persona non è migrante, ha fatto un viaggio, si vuole fermare in un paese, quindi è immigrato a tutti gli effetti. Ma abbiamo provato a sostituirla con migrante per un suono diverso, non perché fosse più corretta. Abbiamo iniziato a preferire migrante perché la parola immigrato ha assunto un peso di discriminazione. Ed è successo per la costante associazione immigrato-criminale , che ha fatto rientrare il tema immigrazione nel tema sicurezza, è il meccanismo che crea questa confusione e che vogliamo provare a scardinare.

Il problema, quindi, è di nuovo lo stesso: con il tempo il termine assume una connotazione negativa e discriminatoria. Cosa che ha portato a preferire, spesso in maniera errata, il termine “migrante”, a cui, secondo alcuni autori, come Stephen Castles e Mark J. Miller, vanno però aggiunti altri esempi particolare, come quello di chi migra alla ricerca di nuove opportunità.

La migrazione non è da intendersi solo come reazione alle difficili condizioni del paese d’origine – scrivono in L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo – non bisogna tralasciare che una delle motivazioni potrebbe essere la ricerca di miglioramento della propria condizione. Infatti non sono solo i poveri a spostarsi, ma sono in aumento anche i movimenti fra le nazioni ricche.

C’è infatti chi propone di sostituire la parola “migrante” con quella, più generica e meno discriminante, di “expat”.

7. Expat o migrante?

Due giornalisti immigrati hanno scritto due articoli diversi proponendo però una riflessione molto simile:

Per un anno o due ho immaginato di essere un expat – ha scritto il giornalista indiano Ritwik Deo nel suo editoriale The British abroad: expats, not immigrants – Sono venuto dall’India per studiare al St.Andrews con una borsa di studio. Mi sono mescolato con i compagni di classe con passaporto multiplo, i cui genitori erano expat a Zurigo, Dubai, New York e Tokio.

Ma mentre mi meravigliavo della facilità con cui volavano in Francia, prendevano treni in Croazia e facevano amici tra i beduini in Giordania, io avevo prolungate discussioni con i doganieri che spulciavano i miei documenti ogni volta che ho provato a fare un salto in Irlanda o in Francia. Questa accoglienza mi ha fatto capire che non ero mai stato un expat, ma solo un immigrato. Sembra impossibile essere un indiano espatriato.

Anche Mawuna Remarque Koutonin, giornalista togolese, nel suo Why are white people expats when the rest of us are immigrants? ha posto un pensiero simile:

Expat è un termine riservato esclusivamente per i bianchi occidentali vanno a lavorare all’estero. Gli africani sono immigrati, gli arabi sono immigrati, gli asiatici sono immigrati. Tuttavia, gli europei sono expat perché non possono essere allo stesso livello di altre etnie. Loro sono superiori. Immigrati è un termine riservato alle ‘razze inferiori’.

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