Transmisoginia, quando odio e discriminazione della donna sono ancora più forti

Direzionata verso donne transgender, transessuali o le persone desiderose di identificarsi con le frange femminili dello spettro di genere, la transmisoginia acutizza l’avversione nei confronti delle donne e contribuisce ad alimentare un clima di repulsione, violenze e uccisioni. E, come ogni forma d’odio, deve essere fermata.

C’è una forma di discriminazione che, se possibile, è in grado di acutizzare ancora di più l’odio verso le donne: si tratta della transmisoginia, ossia l’avversione nei confronti delle donne transgender e transessuali (o di coloro che si identificano con le frange femminili dello spettro di genere).

Ne parla in maniera personale e approfondita anche la nostra firma queer Daphne Bohémien che, in quanto donna trans, conosce fin troppo bene cosa significhi subire quella che lei chiama una “doppia sessualizzazione”.

Vediamo che cos’è e quali sono le  caratteristiche della transmisoginia.

Che cos’è la transmisoginia

Rainbow Body
Fonte: Unsplash

Come si intuisce dalla definizione, la transmisoginia risulta dalla convergenza di due odi distinti: la transfobia, come accennato, e la misoginia, ossia l’odio o la repulsione verso le donne. Il risultato è, perciò, un’avversione non solo contro donne transgender e transessuali, ma anche contro tutte le persone che non si riconoscono in categorie binarie, transfemminili, gender variant o persone trans non medicalizzate ma autrici di una transizione solo sociale.

Il termine – necessariamente “ampio” di fronte a un caleidoscopio di possibilità – è stato coniato dalla scrittrice e attivista transfemminista statunitense Julia Serano, che, nel suo romanzo-manifesto Whipping Girl: A Transsexual Woman on Sexism and the Scapegoating of Femininity del 2007, ha spiegato come la

Transmisoginia sia intrisa del presupposto in base al quale la femminilità e il femminino siano inferiori a – ed esistano principalmente per il beneficio di – mascolinità e virilità.

Potremmo, quindi, affermare che la transmisoginia sia una misoginia portata alle sue estreme, e più deleterie, manifestazioni. Per confermarlo, ci vengono in soccorso i dati del Trans Day of Remembrance, che ogni 20 novembre, mediante il progetto “Transrespect versus Transphobia Worldwide”, monitora e diffonde i risultati aggiornati e raccolti attraverso il Trans Murder Monitoring.

Tra l’1 ottobre 2019 e il 30 settembre 2020, infatti, le persone transessuali e transgender uccise sono giunte a quota 350, il 6% in più rispetto ai dati del 2019. Di queste, il 98% è risultato costituito, a livello globale, da donne trans o transfemminili, sebbene siano numerosissimi i casi non segnalati.

In tale classifica spicca, dolorosamente, anche l’Italia, che continua a posizionarsi al primo posto in Europa. Un dato che, purtroppo, non stupisce, soprattutto se si considera che il nostro Paese sia stato recentemente collocato al 35esimo posto (su 49) della Rainbow Map: la classifica di ILGA-Europe che, ogni 17 maggio, rivela il livello di inclusione sociale e di rispetto dei diritti della comunità LGBTQI+ dei Paesi europei.

Il risultato ha trovato anche il dissenso del politico e attivista Alessandro Zan, che, sul suo profilo Instagram, ha così commentato l’esito:

È un ritardo pericoloso e imbarazzante, un divario enorme con gli altri Paesi europei avanzati. Non è questa la società che le nuove generazioni si meritano di ereditare. Serve un cambio di passo e serve adesso: la politica e le istituzioni si devono assumere le proprie responsabilità.

Un sintomo lampante che la strada da percorrere per il raggiungimento della parità e del rispetto sia, dunque, ancora molto lunga.

Le cause della transmisoginia

La transmisoginia, come la maggior parte delle discriminazioni di genere, sorge da un crogiolo di fattori differenti: trovare una motivazione univoca alla sua scaturigine è, pertanto, impossibile.

Alla base, tuttavia, vi è la matrice comune di tutte le avversioni a essa affini: l’abuso di potere e la convinzione che un determinato “genere” sia superiore a un altro. Di qui, il ripudio nei confronti di ciò che esula dai binari della cisnormatività e dell’eteronormatività e la ghettizzazione delle persone considerate “diverse”, allontanate affinché la gerarchia dominata dall’uomo (bianco, etero e cisgender, appunto) non venga intaccata o messa in pericolo.

Ma questo è solo il sostrato. Nel corso del tempo, infatti, l’odio nei confronti delle donne trans ha trovato riscontri anche in un ambito a prima vista insospettabile: il femminismo. In uno dei suoi solchi si inseriscono le cosiddette “femministe radicali”, anche definite TERF (“Trans Exclusionary Radical Feminist”): una minoranza di femministe (tra cui la scrittrice J. K. Rowling) che “esclude” e si oppone alle donne transgender e transessuali, non considerandole tali e reputandole, come si legge sul Corriere, «uomini travestiti».

Le critiche mosse verso le donne trans sono principalmente due: la prima si appella al cosiddetto essenzialismo biologico, che, seguendo le coordinate della biologia e del sesso, conduce a valutare le riassegnazioni chirurgiche dei genitali, come si legge su Jacobin, alla stregua di “mutilazioni” operate da alcuni uomini per assumere le sembianze di donne.

A questa si correla, poi, un’altra invettiva, basata sulla convinzione che le donne transessuali siano, in realtà, “uomini impostori” che, dando avvio a un percorso di transizione, possono introdursi negli ambienti a loro solitamente negati (carceri, spogliatoi), abusando e attuando violenze nei confronti delle “vere donne”, ossia le donne cisgender. E facendo valere, così, i privilegi maschili pregressi, quasi come se fosse – come riporta Pasionaria – una sorta di “peccato originale” da cui le donne trans non possono affrancarsi (una delle posizioni corroborate anche da Arcilesbica).

In questo senso, quindi, si attua una vera e propria discriminazione “al contrario”, dove a essere allontanati, repulsi e odiati sono gli uomini in quanto tali (poiché dello stesso genere e con gli stessi cromosomi XY degli uomini usurpatori e fautori del patriarcato), a prescindere dal loro sentire, dalle loro esigenze e dai cambiamenti che hanno deciso di apportare alla loro più intima e profonda identità.

Da emarginate a emarginanti: il passo, nel caso delle TERF, è davvero breve.

Le conseguenze della transmisoginia

Transgender
Fonte: Pexels

Come ogni forma di odio, anche la transmisoginia lascia le sue impronte sulle persone nei confronti delle quali è perpetrata. Le sfumature di tale tipo di avversione sono, poi, numerose e dissimili.

Escludendo i casi più lampanti – violenza, aggressioni, femminicidi –, infatti, la transmisoginia può esplicarsi in modi spesso anche molto subliminali e pervasivi. Tra questi vi è, per esempio, il cosiddetto “misgendering”: l’utilizzo, intenzionale o involontario, di pronomi, sostantivi o aggettivi che si riferiscono al sesso biologico dell’interlocutore e non alla sua identità di genere. Fenomeno acuito dal ricorso al “deadnaming, ossia la pratica di rivolgersi alla donna trans con il nome di nascita, e non con quello scelto successivamente.

Il risultato è un aumento della stigmatizzazione sociale, che conduce le donne transgender a non vedere rispettato il proprio diritto essenziale: essere riconosciute per ciò che si sentono di essere, a prescindere dall’eventuale “destabilizzazione” che questo sentire può provocare in coloro con cui si fronteggiano.

Senza dimenticare, poi, l’immaginario che soggioga le donne transessuali e transgender: dalla ghettizzazione pornografica all’iperfemminilizzazione, dalla sessualizzazione e reificazione estreme alla relegazione nell’ambito del sex work, fino alle derive psicopatologizzanti di cui sono vittime fin dalla metà del secolo scorso (in quanto persone “indecise” o “non sicure” della propria identità di genere, o “deviate”, “anormali”, “pervertite”).

La conseguenza è, dunque, un’umiliazione denigratoria e ignorante delle donne trans. Come spiega sempre Julia Serano:

Nei media, le battute e le raffigurazioni umilianti di persone transgender si concentrano principalmente su persone aderenti allo spettro femminile/femmineo. Spesso, in questi casi, è il loro desiderio di essere donne e/o femminili a essere particolarmente ridicolizzato. Mentre gli individui trans uomini/maschili sono spesso oggetto di derisione, il loro desiderio di essere maschi/mascolini non è, generalmente, ridicolizzato – ciò metterebbe in discussione la presunta supremazia della mascolinità.

Oltre la transmisoginia

Denigrazioni, uccisioni, violenze. La discriminazione nei confronti delle donne transessuali e transgender è ancora troppo acuta e non accenna a diminuire.

Per fortuna, però, la sensibilità di “ally”, attivisti e comunità sta registrando un incremento sempre maggiore, e può, con la forza dell’unione e delle istanze condivise, modificare il panorama attuale. Per farlo, devono intervenire leggi sostanziali, incisive e rivoluzionarie.

Dopo la storica sentenza della Corte Suprema del 21 ottobre 2015 che ha finalmente reso possibile (con la legge 164/82) un riconoscimento civile e giuridico a chi si sottopone a interventi di riconversione del sesso, è, infatti, necessaria una svolta ancora più tellurica.

Un ottimo esempio è, ovviamente, il Ddl Zan contro l’omobitransfobia: il disegno di legge per la «prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità».

Il testo, approvato dalla Camera il 4 novembre 2020 e ora sottoposto alla disamina della Commissione Giustizia del Senato, intende estendere le tutele previste dal codice italiano non solo ai soggetti perseguitati per motivi religiosi, etnici o razziali, ma anche alle persone LGBTQI+, alle donne e, appunto, alle persone con disabilità.

Tutele che, in qualità di cittadini e cittadine, possiamo attuare anche noi quotidianamente, acuendo la nostra attenzione circa i termini e le espressioni che utilizziamo, abbracciando le iniziative di associazioni quali il MIT – Movimento Identità Trans, la Rete Lenford e il Trans Media Watch Italia e studiando e interiorizzando sempre di più i cardini del transfemminismo e del femminismo intersezionale.

Distruggere l’odio e cambiare atteggiamenti, modi di pensare e linguaggio si può. Basta solo non voltare lo sguardo di fronte alle difficoltà e allenarsi, giorno dopo giorno, a modificare la propria (altrui) forma mentis. Per un futuro più inclusivo.

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