Non ho mai aderito al modello di mascolinità che la società impone, anche prima che iniziassi la mia transizione, ho sempre percepito la mia identità come intrusa in quello schema predefinito che è la visione del modello maschile.

Fin dalla tenera età non mi sono mai sentita rappresentata o attratta da quel tipo di mascolinità, da quel modo di essere prima bambini e poi uomini, io sono sempre stata tra le femmine, perché è con loro che mi sentivo affine.

Crescendo, e cercando di capirmi, sono diventato quello che la società ama definire “ragazzo effemminato” o meglio ancora “mezza femmina”, un’adolescenza complicata, fatta di bullismo, vergogna, momenti di disforia e soprattutto tanta, tanta omofobia.

Sì, non è  mai stato un segreto per nessuno, mi piacevano i ragazzi, e anzi mi hanno sempre detto che era fin troppo evidente, spesso anche dai ragazzi gay.

Ho vissuto come ragazzo gay per parecchio tempo e non è stato facile, perché in una società creata per il maschio ipertrofico, cisgender, eterosessuale, non disabile, bianco e possibilmente borghese, un corpo come il mio, un’identità come la mia, non era capita o accettata.

Se sei un uomo devi comportarti come tale, perché qualsiasi comportamento che possa essere ricondotto (secondo una visione binaria) al mondo femminile, verrà visto come un punto debole, verrà  visto come un chiaro segnale di non adesione a uno schema ben preciso che il patriarcato ha costruito per te.

Ho deciso di iniziare il mio percorso di transizione nel 2020 perché, sempre parlando per stereotipi di genere, volevo che la mia espressione di genere fosse vissuta dalla società in modo da identificarmi come donna.

Assumo ormoni da 5 mesi e devo dire che la mia percezione del mondo è completamente cambiata così com’è cambiata la visione che il mondo ha di me.

Non mi urlano più “fr*cio” quando passo per strada o non mi lanciano più i sassi, come hanno fatto durante la mia adolescenza, eppure non ho smesso di sentirmi in pericolo, in dovere di essere costantemente vigile.

Quando cammino ora sento fischi, pseudo-complimenti (non graditi), macchine che suonano il clacson e tanti, troppi atteggiamenti abusivi, sì, perché ora i maschi non mi insultano più, mi fanno catcalling, lo fanno per esercitare il loro potere su di me, in quanto donna, per ricordarmi che l’uomo può fare quello che fa perché giustificato dal suo genere.

Perché la società cresce i maschi come fossero animali indomabili, semplicemente fatti così, il famoso “boys do boys”, e sta alle donne adeguarsi, difendersi, proteggersi, sta a loro sopravvivere.

In una società in cui se vieni stuprata ti chiedono “com’eri vestita?” , come se la colpa fosse dell’outfit e non dello stupratore e come se davvero essere accollate avesse mai salvato una donna da una violenza, decidere di avere un look come il mio diventa problematico.

Sono eccessiva, dicono, sopra le righe, unghie lunghissime e iper truccata, mostro le gambe impunemente e non ho vergogna a sfoggiare un tacco 13 alle 10 di mattina e ahimé tutto questo mi rende facile oggetto di sguardi languidi, approcci indesiderati e commenti fuori luogo, perché una come me è vista come una facile, che si veste così per loro e non per se stessa.

Prima potevo empatizzare, certo, ma ora che vivo quotidianamente questa situazione posso capire, ora che ogni giorno devo scontrarmi con una società che lascia che gli uomini si sentano in diritto di trattarmi come se fossi un oggetto, un animale o di parlare di me come io non fossi presente, dando libero sfogo a commenti vari, adesso posso capire.

Ma è il momento di parlarci chiaramente: io e le altre ragazze trans medicalizzate veniamo sessualizzate in maniera duplice e contraria.

Siamo sessualizzate in quanto donne, quindi oggetto passivo di una conversazione che ci vede solo come ricettrici dell’attenzione maschile, come fossimo al mondo solo per soddisfare delle voglie e delle esigenze, fisiche o sociali.

Questa sessualizzazione però è strutturale, avviene infatti con ogni donna, persino con quelle che il patriarcato non fa rientrare nello stereotipo di normo-donna, quelle che non aderiscono a un preciso schema estetico e caratteriale.

La seconda sessualizzazione è quella legata alla feticizzazione del corpo trans, ed è  qui che tutto diventa un grande ossimoro: quando si è attratti da un corpo che in realtà  si ripudia.

Essere una persona trans viene visto come un incomodo, siamo una falla nel sistema, qualcosa da sistemare a ogni costo, un imprevisto che non si sa mai come gestire, perché questo siamo per la società: problemi da gestire.

Un mondo che non ci vede, non ci ascolta, non ci vuole, un mondo che sente di avere dei diritti sui nostri corpi, ma che poi non ne da a noi, una società che ci ipersessualizza, che ci chiama “tr*ie” e ci lega a doppio nodo allo stereotipo della sex worker, che ci vuole sui marciapiedi e fa di tutto per metterci lì, perché un lavoro diverso da quello, per una donna trans, è difficile da ottenere.

Siamo viste come animali esotici, qualcosa di spaventosamente interessante, siamo viste come saggittari per metà donne e per metà animali e il nostro corpo, che tanto viene stigmatizzato, risulta valido al fine della fantasia sessuale, solo e soltanto, se non ricorriamo alla chirurgia per modificare i nostri genitali.

Diventiamo delle perversioni sessuali, perché con noi gli uomini pensano di poter essere più brutali, giustificati a essere animali come sono stati cresciuti, senza nemmeno quel velo di sessismo benevolo, pensano di poter dar libero sfogo a ogni fantasia. Pensando di avere l’opportunità di possedere il corpo di una donna, ma a cui vomitano addosso le fantasie da spogliatoio del calcetto, perché la realtà è che per loro sembriamo donne ma non lo siamo, siamo solo la categoria di un qualsiasi sito porno.

Una visione che nasce dalla rappresentazione che è sempre stata fatta nei media delle donne trans, un discorso affrontato in maniera molto chiara dal documentario Disclosure che potete trovare su Netflix.

Questa visione ha fatto sì che il nostro corpo e la nostra identità, potessero essere messe sotto la lente di un microscopio, facendoci le domande più violente e indiscrete e che fossimo esibite come in un freak show, (d’altronde chi non vorrebbe conoscere la storia de “la donna col pene”, venghino signori e signore!”), e questo ha sviluppato nell’opinione pubblica questo sguardo morboso su di noi.

Le persone sono state allenate e abituate a guardarci come intrattenimento e siamo dunque diventate anche intrattenimento sessuale.
In una società che ci esclude, ci invisibilizza e ci rende vulnerabili e senza protezioni, ci viene esplicitamente detto che “noi quelle come te non le vogliamo” e usano il femminile solo se siamo fortunate.

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