Cultura del consenso: il silenzio non è assenso

La cultura del consenso poggia le sue basi sull'ascolto, il dialogo e l'accoglienza di ciò che l'altro ci comunica, non solo nell'ambito dei rapporti sessuali, ma anche nei contesti relazionali, pubblici, lavorativi e comunitari nel complesso. Vediamo di che cosa si tratta.

“No” non è sì. “Forse” non è sì. “Non mi va…” non è sì. “Non mi sento più a mio agio” non è sì.  “Smettiamo” non è sì. “Ci ho ripensato” non è sì. “Ora no…” non è sì. “Ho cambiato idea” non è sì. “Non ne sono sicura” non è sì.

“Sì”, e solo questo, è sì. E non solo nel sesso.

Eppure la cultura del consenso non sembra essere chiara ancora a molti, ma, al contrario, pare trovare ostacoli e difficoltà nell’essere pervasiva e attecchire nella società in cui siamo immersi. Colpa della sua “controparte”, la cultura dello stupro, di cui è imbevuto il mondo contemporaneo e alcuni dei suoi membri, la quale si esplica in una serie di declinazioni che spaziano dal catcalling alle molestie verbali, dalle battute al revenge porn, fino al victim blaming e alla violenza sessuale vera e propria.

L’unico modo per cessare determinati comportamenti e visioni mentali è, appunto, fortificare le fondamenta della cultura del consenso, costruendo una società in cui vigano rigogliosi la comunicazione e il rispetto delle volontà altrui. Vediamo nei dettagli di che cosa si tratta.

Che cos’è la cultura del consenso?

La cultura del consenso poggia le sue basi sull’ascolto, il dialogo e l’accoglienza di ciò che l’altro ci comunica, non solo nell’ambito dei rapporti sessuali, ma anche nei contesti relazionali, pubblici, lavorativi e comunitari nel complesso.

Se, tuttavia, nel caso di questi ultimi un “No” suona forse in modo più esplicito e decisivo, nel primo non sempre la comunicazione segue i binari cristallini che dovrebbe percorrere. La società patriarcale e maschilista in cui viviamo, infatti, reputa ancora troppo spesso come “normali” specifici atteggiamenti, quali, tra gli altri, complimenti non richiesti, condivisione di foto (intime e non) senza il consenso della persona ritratta, violenze verbali e persino stupri (si pensi, ad esempio, al marital rape, gli abusi perpetrati dai mariti nei confronti delle mogli).

Di qui, la necessità di una cultura che ponga al centro il consenso in tutte le sue sfumature, considerandolo alla stregua del suo fulcro primario: il motore propulsivo di una comunità in cui sia possibile intessere un interscambio sano e rispettoso, senza la paura di poter subire prevaricazioni o minacce nell’eventualità di un rifiuto.

No significa no: perché superare il “silenzio assenso”

Ciò che, però, fa fatica a essere interiorizzata è la natura stessa del consenso, il quale non è un patto monolitico e imperituro, bensì un processo continuamente aperto a cambiamenti, rivalutazioni e riflessioni.

Come precisa la scrittrice, femminista e giornalista britannica Laurie Penny su Longreads:

La prima cosa da capire quando si parla di consenso è che il consenso non è, in senso stretto, una cosa. E non nello stesso modo in cui diciamo che il teletrasporto non è una cosa. Il consenso non è una cosa perché non è un oggetto, non è una proprietà. Il consenso non è qualcosa che puoi tenere in mano. Non è un dono che può essere dato e poi sgarbatamente requisito. Il consenso è uno stato dell’essere. Dare a qualcuno il tuo consenso – sessualmente, politicamente, socialmente – è un po’ come dare la tua attenzione. È un processo continuo. È un’interazione tra due creature umane.

Il consenso, pertanto, non è un accordo valido una volta per tutte (anche nel caso di coppie consolidate, stabili e duratore), bensì un interfacciarsi perpetuo – basato perlopiù sulle parole, ma anche sul linguaggio non verbale: e no, il silenzio non è sinonimo di assenso, ma è già una risposta, ed è un chiaro “No” – su quelle che sono le volontà, le esigenze e le disponibilità della persona con cui stiamo intrattenendo un rapporto intimo.

E che può cambiare il suo statuto anche nell’arco dell’atto stesso, come spiega l’esperta in Educazione sessuale Maria Luisa Candellieri:

Il consenso può essere dato in maniera verbale e non verbale, quindi mediante parole, gesti e toni di voce. […] Per tale motivo, anziché parlare di consenso, a me piace parlare di con-senso, ossia fare le cose in maniera sensata, pensandoci: pensando, nello specifico, al fatto che, dall’altra parte, c’è una persona che non ha voglia – o ha perso l’interesse e/o il desiderio – di fare ciò che le viene proposto, e che, nel momento in cui dice no, questo deve essere semplicemente accettato. E può succedere che il “No” venga enunciato anche mentre si sia già in intimità, e deve essere assolutamente rispettato. Se si forza una relazione sessuale (di qualsiasi tipo) con un’altra persona dopo un “No”, è stupro. Punto.

I vantaggi della cultura del consenso

Basare le proprie relazioni sul consenso può comportare una serie di vantaggi e benefici per ambo (o più) le parti del rapporto. Avviare una conversazione aperta e sincera assume, infatti, i tratti di un’azione liberatoria – soprattutto per le donne, ancora oggi vittime, troppo spesso, di stigmatizzazione quando esplicano i propri istinti sessuali -, dal momento che offre a tutte le persone coinvolte la facoltà di esprimere se stesse in maniera autentica e priva di filtri.

Parlare degli impulsi e dei desideri che ci attraversano è il modo migliore per prestare attenzione sia a se stessi, sia all’altro, e per vivere un’esperienza che si possa definire realmente appagante e serena per tutti gli individui interessati. Il consenso, appunto, deve essere dato in modo entusiastico, deciso e convinto, e può essere revocato – come abbiamo visto – anche da un attimo all’altro, senza sensi di colpa o timori di ritorsioni, insistenze o malumori da parte di chi riceve il “No”.

Come costruire una cultura del consenso

L’assertività, infatti, è un valore, non qualcosa di cui avere paura. Il problema, però, giace alla base: nella maggior parte dei casi, il consenso, in particolar modo alle bambine, non viene insegnato, dal momento che si chiede loro di essere piacenti, gentili e accondiscendenti nei confronti del genere maschile fin dalla più tenera età.

Come si legge su Bossy:

Non insegniamo alle bambine a capire quello che vogliono veramente, a capire cosa implichi dire sì o dire no. Parallelamente, ai bambini e ai ragazzi viene insegnato a non fermarsi al primo no, a continuare, a insistere, a forzare la mano… perché tanto prima o poi riusciranno nel loro intento. E così si crescono degli uomini che non sanno accettare un no, che non sanno accettare un rifiuto: si riconduce tutto a questo gioco per cui bisogna fare ancora un tentativo, e poi ancora uno, e poi un altro ancora.

Come cambiare, allora, lo status quo? Promuovendo, innanzitutto, un’educazione sessuale e affettiva in ambito scolastico, al fine di insegnare ai più piccoli il rispetto di se stessi, del proprio corpo e di quello altrui, offrendo loro gli strumenti per percepire la propria sessualità e il proprio genere e, di conseguenza, i limiti che non devono essere valicati per mantenere una situazione di agio e comfort.

E poi è necessario parlarne: tra amici, familiari, sconosciuti. Far notare, per esempio, che inviare le foto di una ragazza senza il suo consenso in gruppi privati non è giusto, ma è privarla di un diritto – quello dell’autodeterminazione -, così come insistere affinché si abbia un rapporto non è amore, ma è mancanza di rispetto e di ascolto nei confronti delle esigenze dell’altra persona.

Dialogare, porsi delle domande su ciò che si sta facendo e chiedersi costantemente che cosa si ha voglia o meno di fare non “uccide l’atmosfera” – come sostengono, erroneamente, in molti -, ma, al contrario, la rende più intensa e intima, e consente a ciascuno di sentirsi davvero libero di seguire i propri istinti, bisogni e desideri. E non c’è niente di più attraente e sexy di questo.

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