"Mi piace la patata ma sostengo la parata" e altre cose da non dire per essere alleati LGBTQIA+

Ascolto, rispetto, apertura, supporto: sono queste le coordinate principali per essere un buon alleato LGBTQIA+, pronto a sostenere le battaglie della comunità cui si è deciso di dare il proprio sostegno e a mettere, così, in discussione il proprio privilegio di persone cisgender ed etero. Scopriamo chi sono gli alleati e come si può diventarlo.

All’alba del 28 giugno 1969, lo Stonewall Inn, uno dei gay bar più importanti del Greenwich Village, a New York, fu preso d’assalto dalla polizia locale. A differenza delle volte precedenti, però, gli avventori, anziché subire le percosse, decisero di reagire, opponendo resistenza e scatenando una violenta sommossa.

Ebbe, così, inizio il movimento per i diritti civili della comunità LGBTQIA+, che, a partire da quelle vicende, decise di scendere pubblicamente in piazza per rivendicare la propria esistenza e le proprie tutele a livello sociale, dando luogo, annualmente, al Pride Month di giugno.

Le testimonianze narrano, infatti, che:

Quando la violenza esplose fuori dal bar, gli agenti si ritirarono all’interno e si barricarono nell’edificio. Ma i manifestanti sfondarono la barricata, scambiarono colpi di pistola con la polizia e accesero un fuoco nel locale. Gli agenti impiegarono ore per sgomberare le strade. La notte successiva, migliaia di persone si riversarono allo Stonewall Inn per provocare la polizia. Gli scontri scoppiarono di nuovo quella notte e, sporadicamente, anche nei giorni successivi.

Gay, lesbiche, transgender, drag performer e, in generale, tutti coloro che subivano discriminazioni sulla base del proprio orientamento sessuale e dell’identità di genere si riunirono, dunque, per dare vita a una battaglia necessaria, cui, certamente, non mancarono di amalgamarsi anche i cosiddetti “alleati” (“ally” in inglese) LGBTQIA+, figure importanti, ancora oggi, per la conquista dei diritti civili. Scopriamo chi sono.

Chi sono gli alleati del movimento LGBTQIA+?

Si definiscono “alleati LGBTQIA+” tutte quelle persone cisgender ed eterosessuali che sostengono la causa per i diritti civili della comunità LGBTQIA+ e si “alleano”, appunto, con le battaglie portate avanti da quest’ultima, in maniera aperta e sistemica.

La storia della loro alleanza affonda le radici negli anni ‘70, poco dopo i suddetti moti di Stonewall. Nel 1973, infatti, Jeanne Manford fondò la PFLAG – Parents and Friends of Lesbian and Gays, associazione che ancora oggi riunisce, come specifica il suo nome, genitori e amici di persone gay, lesbiche e trans.

L’importanza della cooperazione degli ally risiede nel fatto che, in quanto persone “privilegiate” (dal momento che essere eterosessuali e cisgender, in una società fortemente discriminatoria, è, purtroppo, un “privilegio”), essi possano fornire ulteriore supporto e fungere da cassa di risonanza per le rivendicazioni della comunità, pur non appartenendo in senso stretto alla stessa.

Ne è un esempio la legge sulle unioni civili, la quale, pur se incompleta e a tratti ancora discriminatoria, ha visto la sua approvazione proprio grazie alla fondamentale collaborazione degli alleati e delle alleate che hanno promosso la legge e hanno, così, spinto il Parlamento alla sua approvazione.

Perché il movimento LGBTQIA+ ha bisogno di alleati

Proprio perché immersi in una società che vede nel “diverso” e in ciò che non rispetta “la norma” un pericolo o, in generale, una fonte di fastidio e di malessere, risulta essenziale che individui privilegiati e lontani da tali dinamiche diano il proprio contributo alla lotta per i diritti civili.

Come spiega Giulia Blasi su Esquire:

Camminare al fianco dei nostri fratelli e sorelle ancora discriminati in Italia e in tutto il mondo per il loro orientamento e identità sessuale è un dovere civico: ma ce ne fossero di doveri civici espletabili con tanto divertimento.

Lottare per l’ottenimento dei diritti civili delle persone LGBTQIA+ è un dovere che riguarda tutti, e non solo il movimento interessato, in quanto individui che vivono in società e che, almeno in teoria, dovrebbero difendersi e sostenersi a vicenda.

Tutti, infatti, come sostiene il sociologo Keith E. Edwards, dovremmo essere mossi dalla giustizia sociale, ossia un beneficio di cui, sostiene, devono godere tutti, e non solo i privilegiati, e a cui bisogna tendere modificando il sistema in cui si vive e coadiuvandosi reciprocamente per raggiungere un risultato adeguato per tutti.

L’attivismo non deve essere una moda o qualcosa che abbracciamo solo per altruismo o senso di colpa, bensì una vera e propria “missione”, scaturita dalla riflessione sui nostri valori e su ciò che possiamo fare per gli altri e dall’interrogazione su noi stessi e sui nostri limiti.

Come essere buoni alleati LGBTQIA+

È per questo motivo che essere alleati LGBTQIA+ non è sempre facile, perlomeno quando si decide di abbracciare una causa in cui non si è coinvolti personalmente.

Il primo passo per diventare buoni e buone ally è, appunto, informarsi. Come si legge su Pasionaria:

Ascolta la mia testimonianza delle pratiche della comunità, informati attraverso documentari, attraverso la voce delle altre persone, attraverso libri, attraverso articoli. Adesso che internet è accessibile praticamente a tutti, i modi per informarsi sono infiniti. Se ti sembra di non aver capito qualcosa, chiedi.

Non bisogna avere paura di fare domande e chiedere precisazioni e approfondimenti: per sostenere a fondo una battaglia, infatti, bisogna essere coscienti e consapevoli di tutte le coordinate che la costituiscono. Perciò, niente paura: la comunità LGBTQI+ è ben contenta di dare delucidazioni.

La seconda modalità per essere buoni alleati, secondo Pasionaria, è, poi:

Non parlare al mio posto. È facile alzarsi e dire: “Vi insegno come le persone LGBTQI+ sono davvero”, ma sei sicura o sicuro di conoscerci tutti? Di poter generalizzare senza creare altri stereotipi?

Anche in questo contesto, la regola d’oro è ascoltare chi vive in prima persona i pregiudizi e le discriminazioni, dando libera espressione ai loro umori, alle loro lotte, alle loro narrazioni e alle loro storie. Uniche come quelle di ciascuno di noi, e per questo assolutamente non generalizzabili.

Per tale motivo, è fondamentale saper accettare le critiche: solo dalla comprensione dei propri errori e delle proprie disinformazioni è possibile procedere e acquisire nuove conoscenze, senza correre il rischio di offendere i nostri interlocutori e/o di sostituirci a essi sulla base di un sentire sfocato e non aderente al vero, perché scevro delle componenti necessarie a renderlo autentica testimonianza.

Le cose da non dire

Di qui deriva, naturalmente, un altro fattore essenziale: il rispetto. Continua Pasionaria:

Non fare di me un trofeo per dimostrare il tuo attivismo, il tuo essere progressista. Frasi come “Sono carini! Sono come noi! Non c’è niente di male” sono espressioni che reificano, che ci rendono come oggetti di una teca. Forse potranno servire a far comprendere le nostre ragioni a persone che di quella realtà non sanno nulla, ma in nostra presenza sono uno schiaffo sul viso. Evita questo linguaggio.

A questa lista di frasi da evitare si aggiungono, poi, le sempreverdi, come “Ho tanti amici gay” o “I gay sono tanto carini”, utilizzate a scopo apparentemente benevolo ma, in realtà, profondamente offensive, perché capaci di celare in sé un atteggiamento discriminatorio atto a prendere le distanze da ciò di cui si parla e a trattare le persone gay – in questo caso – alla stregua di “esemplari” da compiacere e accudire.

Le persone afferenti alla comunità LGBTQI+ non hanno bisogno di essere accudite, bensì di essere rispettate e tutelate, di godere dei medesimi diritti degli eterosessuali e dei cisgender. Per questa ragione, risulta alquanto insultante anche uno dei cartelloni più esposti nel corso delle parate del Pride Month: “Mi piace la patata ma sostengo la parata”.

Le criticità di questa espressione, a prima vista simpatica e di supporto, sono principalmente tre: ci si pone al centro dell’attenzione (quando non è quello il contesto in cui bisogna essere protagonisti); si sottolineano atteggiamenti eteronormativi e machisti (della serie: “Sono qui, ma mica sono gay!”); e, infine, è bi/pan-cancellante, dal momento che sono moltissimi gli uomini a cui piace “la patata” ma che non si definiscono eterosessuali.

Ancora, come specifica la pagina Sono l’unica mia:

La sineddoche patata-donna crea una situazione di transfobia, perché non tutte le donne hanno la patata e se si parla di “ragazze”, si ignorano i ragazzi FTM. No, non deve piacerti per forza il pene, ma l’accostamento unico di un genitale a un’identità di genere è sbagliato, binario e normativo – e sei comunque etero se ti piace una trans penemunita! Infine, l’idea che “etero” e “pride” siano in contrapposizione non tiene conto delle persone trans etero, che invece sono perfettamente al loro posto al Pride.

Per ultimo:

[Una frase del genere porta alla] cancellazione delle persone intersex e delle persone non binarie: la patata non è necessariamente delle donne!

Per fugare ogni dubbio, quindi, i punti cardinali del discorso devono sempre essere i seguenti: ascolto, rispetto, apertura, supporto. Solo così saremo in grado di creare una società che potrà definirsi davvero civile.

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