Il pensiero delle lesbiche politiche e il lesbismo come scelta

Il lesbismo politico è un movimento nato in seno al femminismo radicale che sostiene che il lesbismo debba essere una scelta politica e ideologica da sostenere per contrastare la sottomissione della donna, legittimata con il dominio dell'eterosessualità.

Il lesbismo politico è un movimento sviluppatosi all’interno della corrente femminista sul finire degli anni Sessanta che abbraccia la teoria secondo cui l’orientamento sessuale sarebbe una scelta politica e ideologica e sostiene il lesbismo come alternativa all’eterosessualità e risposta alla lotta contro il sessismo.

Vediamo nel dettaglio la sua ideologia fondante, le origini e il clima culturale in cui è sorto e le ripercussioni che ha avuto negli anni sul pensiero lesbico.

Lesbismo politico: significato e origini

Come accennato, il lesbismo politico nasce intorno alla fine degli anni ’60 all’interno del femminismo lesbico e del femminismo radicale – in seno a quel femminismo definito di seconda ondata – come modo per combattere il sessismo e l’eterosessualità, riconosciuta come uno strumento di legittimazione della sottomissione della donna.

La sua diffusione è legata in particolare al gruppo femminista Leeds Revolutionary, formatosi come reazione al femminismo liberale e attivo nel Regno Unito tra gli anni Settanta e Ottanta.

Vede la sua teorizzazione ufficiale grazie a Sheila Jeffreys, ex professoressa di scienze politiche presso l’Università di Melbourne e figura di spicco del gruppo, e al suo libro del 1981 dal titolo “Love Your Enemy? The Debate Between Heterosexual Feminism and Political Lesbianism”.

La sua teoria si fonda sull’idea secondo cui il comportamento eterosessuale sarebbe alla base della struttura politica del patriarcato e sostiene pertanto che le donne dovrebbero astenersi dall’attività sessuale eterosessuale poiché riconosciuta come uno dei principali modi con cui sono tenute sotto controllo sistematico. Questo, ciò che scrive la Jeffreys in merito:

Noi pensiamo che tutte le femministe possono e debbano anche essere lesbiche, la nostra definizione di una lesbica politica è quella di una donna che si auto-identifichi nel fatto di non essere fottuta dagli uomini, ma ciò non significa un’attività sessuale obbligatoria con le donne.

Come sostiene lei stessa, questa posizione non implica che una donna debba necessariamente fare sesso con altre donne, alcune delle principali esponenti del movimento, infatti, scelgono ad esempio di essere celibi o di identificarsi come asessuali.

Nella loro ottica, poi, gli uomini vengono considerati nemici e le donne in rapporti con loro, collaboratrici e complici della loro stessa oppressione. Una posizione, questa, che ha creato dissidi all’interno del movimento femminista e lesbico, soprattutto agli inizi degli anni Ottanta.

Un’altra definizione chiara del pensiero delle lesbiche politiche viene, qualche anno più tardi, dall’attivista femminista Sonia Johnson che, nel suo libro del 1991 dal titolo The Ship That Sailed into the Living Room: Sex and Intimacy Reconsidered, così si esprime:

Ho iniziato la mia ribellione contro la relazione/sesso/schiavitù, l’esperienza e la mia vecchia saggezza mi dicono che quel sesso come lo conosciamo è un costrutto patriarcale e non ha luogo legittimo e naturale nella nostra vita, nessuna funzione o modi autentici. Esso è soltanto un sinonimo di gerarchia/controllo, il sesso viene costruito come parte dell’assedio contro la nostra totalità e potenza.

Da queste considerazioni, emerge chiaramente come per il lesbismo politico, il lesbismo sia una scelta. Una posizione ben espressa dalla frase di Ti-Grace Atkinson, femminista radicale tra le fondatrici del gruppo The Feminists, divenuta il manifesto ideologico del movimento:

Il femminismo è la teoria; il lesbismo è la pratica.

Il separatismo lesbico

Una delle frange più estreme del lesbismo politico è il separatismo lesbico, una forma di femminismo separatista specifico delle lesbiche, il cui principale promotore è stato il gruppo The Furies Collective, che si esprimeva attraverso un giornale, The Furies, pubblicato e distribuito dal gennaio 1972 alla metà del 1973.

Questo movimento è divenuto poi molto popolare nel corso degli anni Settanta anche per via del fatto che alcune lesbiche hanno dubitato che la società tradizionale e lo stesso movimento LGBT fossero in grado di rappresentare le loro parti e sposarne la causa.

Il credo ideologico del movimento separatista lesbico ci viene consegnato attraverso le parole di Ginny Berson, una delle figure più influenti del gruppo, che così scriveva:

Il lesbismo non è una questione di preferenza sessuale, ma piuttosto una scelta politica che ogni donna deve fare se vuole diventare una donna identificata e quindi porre fine alla supremazia maschile.

Gruppo più tardi definito radicale è stato tra i primi a sfidare l’eterosessismo delle femministe eterosessuali.

Il concetto della sessualità e dissidi interni al movimento femminista

La concezione della sessualità – e in primis la critica all’eterosessualità – è alla base delle divisioni interne al movimento femminista, iniziata sul finire degli anni Sessanta, che ha portato alla fine del femminismo di seconda ondata e all’istituzione del lesbismo politico, nato da una costola del femminismo radicale, di cui ne condivide la posizione.

In quegli anni, le battaglie sessuali femministe si fondavano essenzialmente su due posizioni contrapposte che possiamo sintetizzare in antipornografiche e sessopositive.

La prima, in genere sposata dalle esponenti del femminismo radicale, da cui poi emerge la concezione che ne viene fatta dal lesbismo politico, vede una forte critica a tutto ciò che viene concepito come oggettivazione e sfruttamento sessuale nei mezzi di comunicazione di massa e all’interno della società, critiche che culmina con l’opposizione all’industria del sesso, prostituzione e pornografia.

La posizione delle femministe pro-sesso identifica invece il sesso come una via di piacere sessuale per le donne, oltre che un potere nelle mani delle donne.

Le critiche al lesbismo politico

Il lesbismo politico, oltre alle critiche da parte delle frange femministe più liberali sulla concezione dell’eterosessualità, riconosciuta come il fondamento legittimo del patriarcato ai danni del genere femminile, è stato oggetto di diverse obiezioni da parte di altre femministe.

Tra le altre, emerge quella dell’attivista femminista Beatrix Campbell, che riteneva come fosse più appropriato e conveniente mettere in discussione e sfidare il comportamento degli uomini nelle relazioni eterosessuali piuttosto che rivendicare e reclamare una rinuncia del desiderio eterosessuale da parte di tutte le donne.

Lynne Segal vedeva invece alla base dell’atteggiamento delle lesbiche politiche una paura nei confronti degli uomini piuttosto che amore per le donne e la diversità.

Il pensiero della Wittig, teorica del lesbismo politico

È attraverso le parole e gli scritti di Monique Wittig, pioniera del movimento femminista e lesbico francese, che si comprende appieno il concetto alla base del lesbismo politico. La sua “non-donna” è una categoria fondante di questo pensiero, come si evince da un estratto del suo libro del 1978, The Straight Mind:

Sarebbe scorretto dire che le lesbiche si associano, fanno l’amore, vivono con le donne, perché “donna” ha un significato solo nei sistemi eterosessuali di pensiero e nei sistemi economici eterosessuali. Le lesbiche non sono donne.

Per la Wittig, la categoria “donna” è stata creata per il dominio eterosessuale-maschile ed esiste solo in funzione del costrutto uomo, ma senza il riferimento a quest’ultimo, cessa di esistere. Ne deriva nella sua ottica che una donna che non risponde ai criteri di femminilità dettata dall’eteronormatività e che non si sottopone all’uomo non è una donna ma una lesbica.

La Wittig, interprete del femminismo radicale, invita quindi le donne a diventare lesbiche, termine che diventa quindi una scelta, e che si carica di una dimensione politica, e non legata all’orientamento sessuale.

Una scelta che guida le donne verso la liberazione. Nella sua opera del 1969 dal titolo Le guerrigliere, la Wittig scrive che le lesbiche fuggono dall’eterosessualità ad una ad una come gli schiavi neri dalle piantagioni. E in questa fuga verso la libertà perdono le loro caratteristiche di “donne”:

“Donna” e “uomo” sono costruzioni politiche e ideologiche, funzionali alla struttura di dominio, che mascherano il conflitto di interessi tra due classi, le donne e gli uomini, ambedue prodotto di relazioni sociali. Classi che hanno ragione di esistere solo perché esiste il conflitto, e che la composizione del conflitto abolirebbe. Sfuggendo alla relazione sociale particolare con un uomo – e quindi alla costruzione ideologica codificata proprio da questa relazione – la lesbica diventa transfuga della sua classe. Non è più una donna, come gli schiavi neri che fuggivano dalle piantagioni non erano più schiavi.

È nel suo scritto del 1966, L’Opoponax, che la non-donna della Wittig sembra trovare il suo atto di nascita. Un libro che racconta un’infanzia lesbica, svincolandola da sovrastrutture, valutazioni psicologiche o parametri culturali, per consegnare alle pagine una storia fluida, in continuo divenire, che procede per “fotogrammi” e che poco concede alla classica narrazione.

L’opoponax diventa la parola per indicare un essere mitico, “né animale, né vegetale, né minerale”, ciò che sfugge alle definizioni e alle categorie, quelle categorie che la Wittig, e il suo pensiero di matrice materialista, rifiuta e smonta in nome di una libertà.

E questa fluidità di concetti si ritrova anche nella forma, in uno sperimentalismo sintattico e linguistico che è anch’esso rottura delle convenzioni: non ci sono paragrafi comuni nel testo, perché ogni capitolo è costituito da un unico lungo paragrafo esteso, i capitoli non hanno numeri o intestazioni e dominano figure e linguaggio dell’eccesso.

L’eredità culturale del pensiero della Wittig

L’eredità del pensiero radicale della Wittig, e del lesbismo politico che incarna, è prima di tutto in questo rifiuto delle categorie, nell’abolizione di ciò che è norma e convenzione. Anche da un punto vista formale e linguistico, perché per comunicare ciò che non può essere catalogato, serve un ribaltamento delle logiche tradizionali.

Interprete di questo approccio, è la scrittrice di origine nigeriana Bernardine Evaristo, vincitrice del Booker Prize nel 2019 ex-aequo con Margaret Atwood con il libro dal titolo Girl, Woman, Other (Ragazza, Donna, Altro). La sfida alle convenzioni è nella materia del libro, che racconta 12 donne di colore – ugualmente protagoniste – che diventano metafora del diverso, delle persone che restano ai margini, escluse da quelle categorie da smontare.

Non stupisce, quindi, che una delle protagoniste del libro venga chiamata a chiarire tra le righe uno dei punti centrali del pensiero lesbico politico, mentre spiega – e legittima – il concetto fondante a una giovane che prende in considerazione l’idea di diventare non binaria.

È qualcosa che hai dentro, non è un trend, anche se può capitare che qualcuno scelga la condizione trans come presa di posizione politica, il che va anche bene se tutto parte da una base di integrità, di solidarietà, quando rappresenta un autentico rifiuto delle costrizioni di genere che ci impone la società / non perché è di moda o avanti / è lo stesso motivo per cui le donne anni fa diventavano lesbiche politiche scegliendo di aver rapporti sessuali con le donne perché ne avevano abbastanza degli uomini sessisti / non perché non li desideravano più.

Ma prima di tutto, l’eredità della Wittig è formale: il testo scritto sulla pagina – come si può notare dalla citazione appena riportata- sembra una poesia, è una sorta di prosa poetica, quasi priva di punti fermi, che si genera da un impulso narrativo fluido e senza regole.

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