Cos'è la vittimizzazione secondaria, che rende la vittima due volte tale

La colpevolizzazione secondaria consiste nel ritenere la vittima di un sopruso o di una violenza responsabile, parzialmente o completamente, di quanto le è accaduto, instillandole, così, il senso di colpa per l’episodio verificatosi. Fenomeno trasversale e drammatico, la vittimizzazione secondaria colpisce tutti i segmenti della nostra esistenza. Vediamone i dettagli.

«Se l’è andata a cercare», «Se va in giro vestita così, che cosa può aspettarsi!», «Che madre snaturata», «Se lo è meritato: chissà che cosa ha fatto, per farlo reagire in quel modo». E così via. Frasi familiari, che abbiamo sentito nominare spesso in relazione a casi di cronaca (soprattutto di violenza di genere) e che, anche se in apparenza innocui, celano le dinamiche di un fenomeno molto subdolo e pericoloso: quello della vittimizzazione secondaria.

Una forma di abuso e crudeltà che può riguardare sia gli eventi più “quotidiani” («Ti hanno fatto catcalling perché vai in giro con la gonna corta: li hai stuzzicati tu!») agli episodi più gravi, quali, per esempio, le storie di separazioni e divorzi e l’alienazione parentale che sovente viene messa in pratica ai danni delle madri.

Vediamone i dettagli.

Che cos’è la vittimizzazione secondaria?

Per vittimizzazione secondaria si intende l’atto di ritenere la vittima di un sopruso, un crimine o una sventura, responsabile, parzialmente o completamente, di quanto accadutele. Tale atteggiamento conduce, di conseguenza, la persona coinvolta ad autocolpevolizzarsi e a giudicarsi anch’essa complice di quanto verificatosi, senza riconoscere a se stessa lo statuto di vittima innocente.

Nella maggior parte dei casi, a operare attivamente la vittimizzazione secondaria sono, infatti, proprio le istituzioni, chiamate a intervenire nei casi più complessi per discernere le peculiarità dell’episodio in oggetto. Polizia, medici, magistrati e avvocati si rendono, così, autori di una colpevolizzazione ulteriore, mettendo in dubbio quanto raccontato dalla vittima o accusandola, sovente, di aver provocato, mediante un determinato atteggiamento, il danno che l’ha interessata personalmente.

Risultato: le vittime (perlopiù donne) di violenze, abusi, crimini e affini, non vengono credute e stentano a trovare protezione presso quelle stesse istituzioni che, in teoria, sarebbero preposte a difenderle e a tutelarne la vulnerabilità e la salvaguardia. E si ritrovano completamente sole.

Le ragioni della vittimizzazione secondaria

Ma perché si pone in atto la vittimizzazione secondaria? Quali sono le motivazioni alla base della sua esistenza e perché continua a persistere?

Dal momento che la colpevolizzazione della vittima colpisce maggiormente le donne, appare evidente che una delle sue cause predominanti sia il sostrato di stereotipi e pregiudizi di genere che perdurano e caratterizzano tutti i comparti della nostra esistenza, spesso senza neanche esserne consapevoli.

Come spiega la giudice Paola Di Nicola Travaglini, membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio al Senato:

Siamo noi donne per prime che non crediamo alle altre donne, a casa, al lavoro, nei tribunali. E succede perché siamo immerse in un clima sociale e culturale sessista, per cui ci sentiamo responsabili e colpevoli di ciò che siamo e ci succede.

Anche negli ambiti in cui non dovrebbero esistere preconcetti di questo tipo. Continua, infatti, Travaglini:

Dopo 20 anni di sentenze, mi sono resa conto che anche noi giudici siamo vittime di stereotipi talmente radicati che orientano i nostri pensieri, e quindi i processi, senza che ce ne accorgiamo. E questo vale in tutto il mondo. Gli stereotipi sulle donne sono i più diffusi perché inchiodati nella memoria millenaria. Sono quelli per cui le donne mentono o esagerano, denunciano un innocente per averne vantaggi, vanno a caccia di notorietà, se la sono cercata (quindi sono responsabili di ciò che hanno patito), oppure traggono sempre qualche beneficio dall’essere oggetto di attenzioni sessuali.

Gli stessi pregiudizi di genere che

spingono i giudici, ma anche i carabinieri al momento della denuncia, a fare domande intrusive e a insinuare comportamenti colpevolizzanti nelle donne, che dunque sono portate a non fidarsi. E sono gli stessi che anche di fronte a un femminicidio portano a leggere il fatto come una reazione dell’uomo a qualcosa provocato dalla donna.

Vittimizzazione secondaria: chi la opera?

Tutti siamo circondati da casi esemplari di vittimizzazione secondaria. E magari, in passato, ne siamo stati artefici anche noi, pur se in modo ingenuo e involontario.

A farsi portavoce della colpevolizzazione delle vittime, infatti, sono, potenzialmente, tutti gli strati della popolazione: dalla signora al bar che commenta il caso di femminicidio al poliziotto che non crede all’avvenuto stupro per il “ritardo” nella denuncia, fino ai giudici che trasformano le donne vittime di violenza domestica in madri istrioniche e colpevoli di alienare i figli dal padre violento (anche se essi, per primi, hanno paura di frequentarlo).

Come sottolinea ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini:

Quando una donna racconta di essere stata picchiata dal marito, spesso non si pensa a un abuso di potere ma a una lite familiare. Se i giudici non hanno una formazione specifica su come nasce un rapporto di potere in un contesto affettivo, non vedono la violenza e rischiano così di ridurre le pene agli imputati, anche dimezzandole, o di assolverli. Allo stesso modo, una violenza sessuale non è un corteggiamento, come un femminicidio non è un raptus di gelosia.

Appare, dunque, chiaro che l’unica via per arginare la vittimizzazione secondaria sia intervenire sui pregiudizi che tuttora costellano tutti i segmenti delle nostre relazioni interpersonali, abbattendo gli abusi di potere di cui gli uomini, ancora troppo spesso, si rendono autori.

La vittimizzazione secondaria nella violenza di genere

Proprio per mappare i casi e i numeri della vittimizzazione secondaria nell’ambito della violenza di genere, D.i.Re, la rete nazionale dei centri antiviolenza, ha deciso di istituire un osservatorio che, come si legge su Sky TG24, ha lo scopo di

monitorare l’impatto delle distorsioni che si verificano nel sistema giudiziario e che portano le donne che hanno subito violenza a essere penalizzate una seconda volta, questa volta proprio dalle istituzioni.

L’osservatorio, costituito da 30 esperte appartenenti ad ambiti disciplinari differenti, si occuperà di promuovere azioni concrete per «modificare una cultura giudiziaria intrisa di stereotipi e pregiudizi che spesso rende la fuoriuscita dalla violenza un nuovo calvario».

Soprattutto nel caso in cui fossero coinvolti anche dei figli, vittime, insieme alle madri, della colpevolizzazione attuata in sede giudiziaria. Come spiega la presidente di D.i.Re Antonella Veltri:

Per liberarsi dai maltrattanti e porre fine alla violenza domestica, alla violenza assistita da parte dei minori, le donne non possono prescindere dal passaggio attraverso i tribunali civili e per i minorenni per definire la separazione e l’affidamento. […] Le donne sono sottoposte a Ctu che ne criticano la capacità genitoriale e i bambini sono affidati ai servizi sociali o collocati in istituto per rieducarli alla relazione con il padre, anche se ne hanno paura e non vogliono vederlo.

Un modus operandi drammatico e assurdo, che si spera di poter affrontare e decostruire mediante il disegno di legge depositato a ottobre 2021, il quale, con l’introduzione dell’articolo 317 ter nel codice civile, prevedrebbe il diniego del diritto di visita al genitore maltrattante in caso di violenza domestica. Un passo che, insieme agli altri ugualmente necessari, speriamo possa essere compiuto presto.

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