Burqa, guardiamole negli occhi: cosa ci insegnano le donne afghane!

Spesso confuso con gli altri tipi di veli, il burqa nasce con l’intento di nascondere integralmente la donna – afghana e pakistana – dalla testa ai piedi, rispondendo alle esigenze di un governo fondamentalista, totalitario e disumanizzante.

Quando si è apprestata a interpretare Sana, il personaggio principale della quarta stagione di SKAM Italia – il teen drama di successo targato Timvision e Netflix –, l’attrice Beatrice Bruschi ha avvertito fin sa dubito la responsabilità del ruolo di cui avrebbe, letteralmente, vestito i panni.

Sana è, infatti, una ragazza musulmana italiana di seconda generazione vittima di derisione e pregiudizio, scissa tra etica religiosa e bisogno di appartenenza a un gruppo sociale, di impronta occidentale, dal quale, talvolta, si sente rigettata.

Fin da subito – mi ha raccontato Bruschi in occasione di un’intervista per CronacaQui –, ho avuto chiaro che il ruolo sarebbe stato delicato e difficile, e che avrei dovuto interpretarlo con umiltà, rispetto e studio assoluti. Per questo motivo, la prima cosa che ho fatto è stata comprare il Corano e leggerlo interamente, oltre a frequentare ragazze e famiglie musulmane e l’associazione Giovani Musulmani Italiani. In tal senso, poi, è stato fondamentale anche indossare il velo nella mia quotidianità, per guidare, fare la spesa, portare fuori il cane…

Un’esperienza dai risvolti inaspettati, che, per Bruschi, si è rivelata

bellissima. Fin dal primo momento, ho sentito una forza incredibile: come se stessi indossando una sorta di corona. Con il velo, ho percepito emergesse una bellezza più “adulta”, e mi sono sentita sicura e a mio agio. Mi manca molto indossarlo, e non nascondo che ogni tanto lo porto ancora!”

Non tutti i “veli”, però, sono uguali, così come i significati che essi portano con sé. Lo dimostra la raccapricciante situazione in corso in Afghanistan, in cui i fondamentalisti talebani reinsediatisi stanno ora costringendo le donne residenti a coprirsi integralmente con il burqa contro la propria volontà. Ma che cos’è il burqa e qual è la sua origine? Scopriamone i dettagli.

Che cos’è un burqa? Storia e origini

La parola “burqa” trae la propria derivazione etimologica dal termine persiano “purda”, ossia “cortina”, “velo”, e individua un capo d’abbigliamento diffuso prevalentemente nei territori dell’Afghanistan e del Pakistan.

Spesso confuso con altri indumenti a esso molto simili, il burqa – chiamato anche “burqa completo” o “burqa afghano”, proprio per distinguerlo dalle altre tipologie – è un abito lungo, perlopiù di colore blu o nero, che copre tutto il corpo, dalla testa ai piedi, ponendo, all’altezza degli occhi, una maglia a rete in grado di consentire – pur se altamente ostacolata – la vista.

Il suo utilizzo, tuttavia, a differenza di quanto si possa comunemente pensare, non è diretta conseguenza di precetti religiosi, bensì di un’interpretazione radicalizzata e restrittiva degli stessi.

L’uso del velo, infatti, come si legge sul sito di Fondazione Bruno Kessler, non è estraneo alle donne fin dai tempi più antichi: si pensi, per esempio, alla raffigurazione della Vergine Maria, da sempre rappresentata ornata di un velo azzurro, o alle patrizie romane, che erano solite utilizzarlo per sottolineare il proprio status sociale elevato, così come le dame di corte, per le quali era simbolo di riserbo e purezza, e alcune donne anziane del Sud d’Italia, tuttora fruitrici del velo come segno di rispetto verso Dio o a causa di un lutto.

In generale, il velo rappresenta, dunque, da secoli, un modo “elegante” e “garbato” per coprire quelle parti del corpo reputate “sacre” e “inopportune”, considerate alla stregua di un veicolo di attrazione e disponibilità sessuale nei confronti degli uomini. Quasi un modo per porre al “riparo” questi ultimi dalle “spire sensuali” delle donne, costrette a coprirsi per non risvegliare il desiderio ferino degli uomini stessi.

Fino alle sue radicalizzazioni più estreme, come nel caso, appunto, del burqa. L’obbligo di indossare il velo integrale è stato introdotto dai talebani afghani nel corso dei cinque anni del loro – ahimè, primo – governo teocratico degli anni novanta, come risultato di una lettura castrante e politicizzata del Corano.

Tale imposizione trae spunto da una coercizione risalente almeno a un secolo prima. L’introduzione del burqa in Afghanistan risale, infatti, al 1890 e, più precisamente, al regno di Habibullah Kalakani, emiro che costrinse le duecento donne del suo harem a indossare l’abito al fine di non “indurre in tentazione” – come volevasi dimostrare – gli uomini del Paese.

Nel testo sacro islamico, tuttavia, non vi è alcun passo che sancisca l’obbligo in maniera esplicita, ma “solo” il suggerimento, alle donne, di non mostrare il proprio corpo e adottare un comportamento remissivo e decoroso. Il verso 31 del Sura XXIV recita così:

E di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne. E non battano i piedi, sì da mostrare gli ornamenti che celano. Tornate pentiti ad Allah tutti quanti, o credenti, affinché possiate prosperare.

Come si indossa un burqa nella cultura araba?

Al momento attuale, quindi, l’utilizzo del burqa e, in generale, del velo non risponde direttamente a dettami teologici, bensì a ingerenze familiari e a esigenze di carattere sociale e spirituale, delle donne stesse e dei loro nuclei parentali.

E, soprattutto, come ricorda la giornalista Sara Hejazi su Wired, «ci sono tanti veli quante sono le donne che lo indossano». Le tipologie più conosciute sono, infatti, le seguenti:

  • Il “hijab”, il più diffuso in Occidente, è una sorta di sciarpa disponibile in diversi colori e stili che ha la funzione di coprire il collo e la testa lasciando esposto il viso. Il termine è etimologicamente connesso alla radice del burqa, e indica un “velo” atto a garantire privacy e separazione rispetto al mondo esterno;
  • Il “niqab”, usato spesso insieme a una sciarpa, è un velo che cela il volto e la testa lasciando libera solo la zona degli occhi. Questo tipo di velo è il più utilizzato in Arabia Saudita, soprattutto in pubblico, e ha la funzione di sottrarre allo sguardo maschile anche i capelli e il petto;
  • Il “burqa”, come abbiamo visto, è il velo più integrale tra quelli fruiti dalle donne musulmane. Questo tipo di abito copre tutto il corpo femminile, compresi gli occhi, schermati con una sorta di struttura “a griglia”. A introdurlo furono, appunto, i talebani, al fine di instaurare un nuovo ordine sociale e culturale. A Kabul il colore più diffuso è il blu, mentre in altre zone del Paese e in Pakistan ve ne sono anche di bianchi, verdi e marroni;
  • Il “chador”, secolare in Iran, è una sorta di mantello a semicerchio, indossato in modo tale da avvolgere completamente il corpo – passando anche sopra la testa – ed essere chiuso con la mano, proprio come uno scialle. Il colore più utilizzato è il nero;
  • L’“abaya”, particolarmente usato in Arabia Saudita, nella Penisola Araba e in Nord Africa, è un tipo di abbigliamento ampio, nero, non aderente – come un caftano –, che lascia scoperti mani, volto e piedi e si affianca all’hijab o al niqab;
  • La “shayla”, ancora, è una sciarpa lunga e rettangolare, che le donne della regione del Golfo indossano attorno alla testa, fissandola al livello delle spalle.

Donne e burqa in Italia

E in Italia? Nel corso degli anni non sono mancate, naturalmente, polemiche e discussioni politiche, suscitate perlopiù da conservatorismi e timori razzisti e frutto di incomprensione degli usi dei diversi veli esistenti.

I detrattori del velo e, nello specifico, del burqa si basano sull’articolo 5 della legge 152 del 1975, ossia, come si legge su Voce Controcorrente, il principale riferimento normativo a tal proposito – ma non un divieto vero e proprio all’utilizzo del velo. La legge, poi successivamente integrata e modificata, afferma, infatti, che:

È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, il luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino.

Fulcro focale su cui i partiti contrari hanno strutturato la propria battaglia contro il burqa è stato, dunque, la precisazione di un “motivo”, che, quando si tratta di donne islamiche, non sempre appare, a essi, “giustificato”.

Tanto da condurre alcune regioni d’Italia – in primis, Lombardia e Veneto – ad adottare sanzioni ad hoc, negando l’ingresso nei luoghi pubblici alle donne portatrici di velo integrale.

Burqa e donne afghane

Situazione totalmente opposta, invece, in Afghanistan, dove il nuovo regime teocratico dei talebani sta imponendo alle donne rimaste in patria l’utilizzo del burqa, immergendole in una condizione di repressione, terrore e perdita totale di tutti i diritti finora acquisiti.

Come ha testimoniato un cittadino afghano, Hashmot, al Corriere della sera:

Le donne devono essere interamente coperte, compresi i guanti neri e il velo sul viso. Non possono uscire di casa senza un uomo di famiglia maggiorenne. Ma non è neppure servito che arrivasse un’ordinanza specifica. Per evitare problemi, anche le ragazze giovani si sono coperte ancora prima di vedere le milizie talebane per la strada.

Tra paura, guerriglia, perquisizioni e torture, le donne temono per le libertà e le conquiste progressivamente raggiunte negli ultimi venti anni, e si ribellano – per quanto possibile – all’imposizione del velo integrale.

Per me il burqa è sempre stato un segno di schiavitù – racconta una donna di Kabul a Vanity Fair. Sei come un uccellino intrappolato in gabbia: non avrei mai immaginato di indossarlo. Ma adesso, se voglio salvarmi la vita, penso che lo dovrò fare. Le donne lo comprano perché è l’unico modo per non essere in pericolo.

E chi non lo possiede si appresta ad acquistarlo, come dimostra la “corsa ai burqa” dell’ultimo mese, diventato ora un articolo essenziale e, ovviamente, costoso. Ma totalmente estraneo al patrimonio culturale delle donne afghane, costrette, ora, ad assecondare le velleità del governo talebano per non rischiare di morire o essere rapite e torturate.

«Il burqa non ha mai fatto parte della nostra cultura» spiega, infatti, l’attivista Spozhmay Maseed, che ha abbracciato, insieme a molteplici donne afghane sparse in tutto il mondo, la ribellione via social contraddistinta dagli hashtag #DoNotTouchMyClothes e #AfghanistanCulture, la quale mira a opporsi alle imposizioni dei talebani diffondendo sul web foto degli abiti tradizionali con cui erano solite vestirsi le donne di Kabul.

Le donne afghane indossano abiti colorati – continua Maseed – e i nostri vestiti tradizionali rappresentano la nostra ricca cultura e la nostra storia, che ci rende orgogliosi di ciò che siamo.

Un modo in più per far sentire la propria voce e combattere la repressione dei fondamentalisti, che, ancora una volta, vogliono donne sottomesse, abnegate e senza autonomia e dignità.

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