Giulia Lamarca: "Una parte di me quel giorno è morta. Poi ho scelto il mondo"

Scrivi: "Qualcuno doveva dire al mondo: 'Sai, una ragazza in carrozzina una volta l'ha fatto'. Se qualcuno lo fa, si crea un precedente. E io volevo essere quel precedente". Lo sai, vero, che questo è attivismo dei fatti? Intervista a Giulia Lamarca, psicologa, travel blogger e ora anche autrice di 'Prometto che ti darò il mondo' (DeAgostini, 2021).

“Io non sono orgogliosa della mia disabilità: è una condizione in cui mi sono trovata.

Accettare è un termine che spesso si usa in questi casi, ma io lo detesto, di certo non lo sento mio: io non ho accettato niente; anzi, se potessi scegliere farei volentieri a meno di questa sedia a rotelle. Però ho imparato a conviverci, a non lasciarmi definire dal fatto di essere una persona con una disabilità: semmai sono orgogliosa di quello che ho fatto o sto costruendo ‘nonostante’…”.

Giulia Lamarca, che su Roba da Donne ha una rubrica dal titolo indicativo, Illimitata-mente, La disabilità senza tabù, alla contro-narrazione eroica, tipica soprattutto del mondo sportivo che negli ultimi decenni si è opposta al racconto abilista del/la ‘povero/a disabile’, sceglie una rappresentazione alternativa della disabilità: definirla come una sua versione personale sarebbe riduttivo, per quanto Prometto che ti darò il mondo (edito da DeAgostini e in libreria da settembre 2021) sia a tutti gli effetti un’autobiografia.

“Non c’è una colpa, ma neppure un merito nell’aver ricevuto una diagnosi di paraplegia dieci anni fa a seguito di un incidente: più che orgogliosa, sono stata arrabbiata e capita di esserlo ancora. Poi ho scelto di vivere il presente e costruire il futuro”.

Forse è quello di cui dovresti essere orgogliosa, e del modo in cui lo hai fatto: togliamo il forse.

Vero! Temo però che la narrativa delle disabilità che passa oggi in alcuni contesti, anche da parte di attiviste/i e femministe/i che ammiro tantissimo, possa a volte essere dannosa.
Provo a spiegarmi meglio, perché io per prima mi considero sia attivista sia femminista, ma rispetto al passato oggi intervengo meno nel dibattito perché mi sembra sia molto difficile argomentare e dialogare sui social se il tuo pensiero è anche solo di poco fuori dal coro. Ma tentiamo. Alla me di diciannove anni che è salita con le proprie gambe su un motorino senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta che le avrebbe usate, subito dopo l’incidente e negli anni  successivi, questa visione ‘pride e power’ della disabilità avrebbe fatto davvero male.

In che senso?

Oggi ho gli strumenti per comprenderla, per abbracciarla e per farne, come è giusto, una ragione di lotta per uguali diritti e opportunità, ma al tempo no. C’è un tempo per il dolore, la rabbia, la depressione, lo sconforto assoluto; e un tempo di rinascita e ri-progettazione (in realtà a volte questi tempi ancora si mischiano, ma va bene così): l’importante è rispettare il tempo negativo della persone.

Quello inquadrato da Giulia Lamarca, psicologa di formazione, consulente, travel blogger e, ora, anche autrice, è un tema che ricorre spesso negli scambi con persone che vorrebbero disinnescare la narrazione pride di patologie e/o disabilità; non tanto o non solo perché ritengono retorico l’orgoglio attribuito a ‘cose di cui avrebbero fatto a meno’, ma proprio per quest’idea che far passare un messaggio così sbilanciato sulla body positivity e sull’empowerment possa nuocere in modo profondo a chi da quel racconto si sente alieno.

Non pensi che il problema sia più che altro il mezzo social?  Spesso chi parla di disabilità in questi modi ha molta consapevolezza di questa ambivalenza e del ‘diritto al tempo del dolore’: nel senso che lo conoscono e lo riconoscono ma, nella creazione di una nuova narrazione (necessaria!) della disabilità, forse è vero che questi temi passano in sordina, un po’ per forza di cose e un po’ per algoritmo; un po’, infine, per scelta politica di attivismo. Di fatto è il mezzo social che costringe a una semplificazione: sacrifica la complessità del tema alla logica dello slogan o della campagna in grado di fare rumore e spostare la discussione, per farla arrivare con ogni mezzo sui tavoli decisionali, da cui finora il tema è stato colpevolmente escluso? E sui quali è giusto attendersi maggiore approfondimento.

Sì, sicuramente. Infatti, ripeto, ho grande ammirazione per quel lavoro, ma io credo ci sia bisogno, oggi più che mai, di tornare a dare spazio al dialogo, al confronto. 

In questo senso un libro è un ottimo strumento di riflessione.
Prometto che ti darò il mondo ripercorre questi dieci anni dall’incidente a oggi, in cui la tua vita sta per subire la grande trasformazione dell’arrivo, a brevissimo, della piccola Sophie. A proposito, con il tuo permesso salterei il tema dello stigma della maternità delle donne con disabilità, di cui abbiamo parlato in questo video affrontando anche l’altro grande tabù: quello dell’aborto spontaneo, che purtroppo hai avuto nel corso della gravidanza precedente.

Prometto che ti darò il mondo

Dicevamo, tornando al libro: come spesso accade con le storie, questo non è (o non solo) un libro sulla tua disabilità, né sulla disabilità in generale?

Mi fa piacere tu l’abbia notato. Perché non era mia intenzione fare un libro da mettere nella categoria disabilità o motivazionale o autobiografia. Credo che nella mia storia ognuno possa riconoscere, nel bene e nel male, momenti di buio e di luce che ognuno di noi deve affrontare; cambiamenti, paure, rinascite… In questo forse emerge il mio essere psicologa.

La scrittura come terapia: è uno strumento – tu lo sai meglio di me – molto utilizzato e non innocuo. Tan’è vero che, quando arriva il momento di raccontare l’incidente, scrivi con grande onestà:

Mentre scrivo queste righe realizzo che non ho mai davvero fatto i conti con quel giorno, non ho mai voluto rivivere quelle sensazioni, non voglio piangere e forse non voglio ricordare, ma il libro deve parlare anche di questo, del brutto. Mi devo sforzare.

Ho fatto tanta terapia e ho cambiato almeno cinque terapeuti. Puntualmente, quando arrivava il momento di parlare dell’incidente, tagliavo corto. La verità è che tutti dobbiamo prima o poi passare per l’evento traumatico che ci blocca e immergerci dentro per poter andare avanti. Per me è l’incidente, per le altre persone sta nelle cose più svariate. Scrivendone nel libro ho realizzato quanto ancora non lo avessi davvero affrontato. 

C’è un altro trauma, che peraltro corrisponde e si intreccia con il momento dell’incidente. Ci conosciamo ormai da qualche anno: in privato o sui social ti ho sentita raccontare tante cose anche molto intime, ma poco o niente della relazione tossica che stavi vivendo in quel momento e di cui nel libro scrivi.

In un certo senso mi ha fatto più male mettere nero su bianco quel pezzo della storia.
Come ho potuto lasciarmi trattare così?, mi domandavo mentre scrivevo.
Ho lasciato che mi insultasse, che mi umiliasse, ho accettato la sua gelosia folle scambiandola per amore.
Io non ce l’ho con lui perché guidava quel motorino, non ce l’ho mai avuta: non è stata colpa sua, è stato un incidente. Io ce l’ho con lui per il male che mi ha fatto in quanto ragazza di diciannove anni che credeva che quello fosse l’amore e di non essere mai abbastanza, di non meritare attenzioni e rispetto.
Scrivere, anche in questo caso, è stato difficilissimo, ma liberatorio: è stato il mio modo per mettere un punto.

Tornando al fatto che il tuo non è (solo) un libro sulla disabilità, credo possa essere molto importante per le decine di migliaia di persone che ti seguono sapere che una donna come te, così sorridente e coraggiosa nel decidere di fare cose che gli altri ti dicevano essere impossibili (ci arriviamo a breve!), ha vissuto una relazione tossica.
Tendiamo a pensare che la violenza psicologica sia una violenza di serie b: non lo è. Ma soprattutto tendiamo a pensare che una relazione violenta capiti a donne dimesse e incapaci di reagire. Sai quando diciamo: “Al primo schiaffo o alla prima parola, me ne sarei andata…”? Raccontare che non è sempre così libera dallo stigma molte donne che vivono nella vergogna.

Verissimo: ed è quello che mi auguro con tutto il cuore.
Le vittime di violenza verbale o psicologica spesso sentono su di sé il peso di una colpa che non è loro. Sono donne molto intelligenti, sensibili, ma si auto condannano a pensare di non essere abbastanza, di meritare quello che stanno vivendo, anche solo perché non riescono a reagire. Anche in questo caso, come dicevamo sopra, c’è un tempo necessario per elaborare e liberarsi. 

Non so quanto sia consapevole, ma nel libro – insieme a tanta bellezza e coraggio – c’è una sorta di fil rouge: il tuo senso di colpa nei confronti delle persone che ami, per il dolore che ti senti di aver dato loro o per quello che ritieni di aver loro tolto.
Dai
 tuoi genitori a tua sorella più piccola, “Sara, alla quale – dici testualmente – l’incidente ha tolto una sorella con cui poter fare determinate cose”. 
Fino ad Andrea, lo studente di fisioterapia conosciuto dopo l’incidente, che poi è diventato tuo marito e il papà di Sophie.
‘Avrei voluto che Andrea e mia sorella Sara avessero almeno un ricordo di me in piedi’, scrivi e mi hai detto più volte da quando ci conosciamo. 
Ma è in chiusura che questo senso di colpa esplode verso il futuro della piccola Sophie, tua figlia, che cresce dentro di te e a cui dedichi parole d’amore, molto severe però nei tuoi confronti:

[…] perché la tua mamma, nonostante ti ami alla follia già ora, non sa proprio come poterti restituire le sue gambe, e so che, nella tua crescita, ci saranno momenti in cui questo mancherà a te come è mancato a me.

Riuscirai mai a comprendere quello che Andrea e Sara in primis continuano a dirti, anche senza parole: e cioè che non c’è nulla per cui devi farti perdonare?

È un’osservazione che mi stupisce, la tua. Non ci avevo pensato… Il fatto è che io, dal giorno dell’incidente, ho la sensazione di essere mancante. Di più, so di esser mancante: è il motivo per cui io certa narrativa sulla disabilità non riesco ad abbracciarla. Vorrei essere più ‘attivista’ – pure mi ci sento -, ma mi sembra di stonare: vorrei che chi mi legge capisse che anche le mie fragilità mi appartengono. Sono mancante, e va bene così.

Senza retorica, ma c’è una persona che ti ha sempre vista “tutta intera, quando tu ti vedevi a pezzi”, come tu stessa hai detto: “mi ha scelta quando ancora non mi ero scelta neppure io”. Credo che Andrea non sarebbe d’accordo con questa tua definizione di te come mancante. Lui è stato per te uno specchio molto equo nel restituirti la tua bellezza, mentre tu non sapevi dove cercarla.

Hai ragione. Anche qui, vorrei fare una riflessione sull’esaltazione del ‘farcela da soli’ oggi tanto in voga. Da una parte sarebbe bello salvarci da sole o da soli, ma nel mio caso non ci riuscivo e, comunque, non è necessario. Lo voglio dire a tutte quelle persone che si sentono in difetto per questo. Andrea mi ridà punti di vista che non riesco a vedere. Come dici tu, mi restituisce la bellezza di quello che sono o di quello che faccio anche quando io non riesco a sentirmi mai abbastanza.
Qualche giorno fa gli ho chiesto spaventata: ‘Che cosa succede se il libro va male o non piace?’.
Lui mi ha rimessa a terra: ‘Hai scritto un libro, il tuo libro prima dei 30 anni. Vanne fiera!’
Vedermi con i suoi occhi mi ha salvata, mi ha amata prima che mi amassi io: mi ha insegnato a farlo.

I viaggi: diventare una travel blogger in carrozzina significa rifiutare una serie di limiti che gli altri ti vorrebbero dare. 

Ero disposta a tutto pur di sentirmi libera. Tutti mi dicevano che un interrail in carrozzina non si fa, che sul Machu Picchu è impossibile andarci… Io e Andrea abbiamo deciso di prenderci il mondo. Viaggiare è stato il mio modo per riprendermi la vita e capire che Giulia e i suoi sogni non erano morti sull’asfalto quel 6 ottobre 2011.

Scrivi:

Qualcuno doveva dire al mondo: “Sai, una ragazza in carrozzina una volta l’ha fatto”. Se qualcuno lo fa, si crea un precedente. E io volevo essere quel precedente.

Qualche pagina più in là, parlando dell”inaccessibile’ Machu Picchu:

Nessuno dovrebbe decidere chi può e chi non può visitare un luogo […]
Sapevo di avere ragione a ribadire che è un diritto di tutti poter vedere le meraviglie del mondo.

Lo sai, vero, che questo è attivismo dei fatti? Esattamente come quando hai portato avanti la campagna denuncia sull’accessibilità dei bagni negli aerei. Anche di questo ne parlammo qui:

Giulia Lamarca ride:

Ci provo. Sai quanta gente mi scrive che non viaggia solo perché il mondo mette barriere come a dirti: ‘tu qui non puoi venire?’. Oggi so che la libertà non sono le gambe, ma uscire dai limiti che ci impongono gli altri e che non devono essere per forza i nostri. 

Ecco che di nuovo il tuo libro ha poco a che fare con il fatto di avere o meno una disabilità…
Un’altra chiave di lettura molto universale è quella del corpo che non si accetta o che a un certo punto non ti appartiene più (ne parli in questi termini quando sei in ospedale ed è alla mercé di medici e studenti come campo di studio e di esperimenti!). Temi molto attuali, soprattutto se si parla di corpi di donne.

Già. Anche se vado in un centro per disturbi alimentari, mi rendo conto, che la storia del mio corpo è la storia di tanti corpi…

Un’ultima cosa, di cui quasi non parli; a dimostrazione del fatto che non sei consapevole della portata rivoluzionaria (anche) di questa tua conquista: tu hai appena pubblicato un libro e sei dislessica e disgrafica! Lo urliamo ai quattro venti: credo che molti ragazzini che hanno appena iniziato la scuola vorrebbero saperlo! 

A scuola, in particolare all’università, mi dicevano che ero stupida o mi facevano sentire tale. È stata la mia insegnante delle elementari di italiano l’unica a tranquillizzare i miei genitori. Mi disse: “Hai contenuti belli, hai cose da dire: un giorno un libro lo scriverai; qualcuno lo correggerà”. Ha avuto ragione. 
Pure ancora mi vergogno. Prima di inviare le bozze all’editor ho chiesto ad Andrea di fare una prima correzione: ero a disagio.
Già in passato Andrea aveva corretto una delle mie tesi, ma al tempo avevamo litigato tantissimo perché mi ‘aggiustava’ le frasi secondo il suo gusto, pensando di farmi un piacere. Ma io volevo usare la mia voce, il mio modo di esprimermi.
Stavolta non ha toccato una sola frase e mi ha commossa; è stata una grande dimostrazione di amore e rispetto: la volontà di fare emergere me e le mie parole, senza anteporre le sue. 

Dopo i saluti, vado a cercare una frase di Anaïs Nin che credo si adatti alla perfezione a Giulia Lamarca. Gliel’ho citata a braccio nel corso dell’intervista, le è piaciuta. Te la cerco e te la mando, le ho detto. La lascio qui, è proprio sua e di chi, come lei, sceglie di non farsi bastare niente meno del mondo:

“La vita si rimpicciolisce e si ingrandisce in proporzione al proprio coraggio.”

Prometto che ti darò il mondo
La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!