Doris Day, l'attrice che ispirò Barbie e scoprì da anziana di avere 2 anni in più

"Ragazza della porta accanto" innocente, genuina e vivace, Doris Day fu, in realtà, succube di un'immagine che non le apparteneva: la maschera dell'eterna giovinezza. Un problema che, ancora oggi, è il fondamento dell'ageism, soprattutto a Hollywood.

Per tutti era la “Fidanzatina d’America”. Con i suoi modi educati, semplici, vivaci e, talvolta, ingenui, Doris Day è stata emblema della Hollywood puritana e conservatrice degli anni ‘50 e ‘60, cui prestò il volto per una sequela di ruoli sempre candidi, sobri ed eleganti.

Cantante, attrice, personaggio televisivo e, lontana dal set, convinta animalista, fu, infatti, ben presto designata come la “ragazza della porta accanto” per la sua immagine rassicurante e gentile. Una maschera che fu costretta a indossare nel corso di tutta la sua carriera, e che, nonostante la giovane età, la condusse anche ad abbandonare le scene nel pieno fermento culturale sviluppatosi tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70, quando la controcultura introdusse a Hollywood ruoli più anticonvenzionali e seduttivi.

La popolarità che la distinse fu, tuttavia, ineguagliabile. Al punto che, si dice, nel 1959 la Mattel si ispirò a lei per la creazione della sua bambola più iconica, Barbie, in commercio proprio negli anni di maggior successo di Day. All’epoca, infatti, la figlia di Ruth Andler – moglie del cofondatore della casa produttrice, Elliot Andler, nonché, di questa, futura presidentessa – era solita giocare ritagliando dai giornali le figure delle dive cinematografiche più amate, dando a esse ruoli da adulti.

Di qui, l’idea di una doll con fattezze da donna – e non più da bambina o neonata – e il conseguente successo di mercato, che si impreziosì, inoltre, del coinvolgimento del truccatore degli anni d’oro di Hollywood: lo stesso Bud Westmore che, negli Universal Studios, truccò anche il volto di Doris Day. E immortalò per sempre la sua fisionomia nella “American Girl” per eccellenza, consacrandola, così, a un’eterna giovinezza.

Chi era Doris Day

Nata a Cincinnati, in Ohio, dalla casalinga Alma Sophia Welz e dall’insegnante di musica William Kappelhoff (entrambi di origine tedesca), Doris Mary Ann Kappelhoff dimostra fin da subito un vivo interesse nei confronti del mondo dello spettacolo. Il cinema è già nel suo destino – il suo nome è un omaggio a Doris Kenyon, attrice del cinema muto di cui la madre era profonda ammiratrice –, ma non è, però, a questo che la sua attenzione si rivolge negli anni della sua adolescenza.

Il suo cuore pulsa, infatti, per la danza, disciplina che, in coppia con il ballerino di tip tap Jerry Doherty, la conduce perfino a Hollywood negli anni ‘30. Un incidente stradale del 1937, tuttavia, la ferirà gravemente alle gambe e la costringerà ad abbandonare la carriera da ballerina professionista.

Ma Doris Kappelhoff non si arrende. Nel corso della convalescenza inizia, infatti, a prendere lezioni di canto, e, dopo una breve esperienza radiofonica, abbraccia il mondo delle big band, registrando una serie di successi con le orchestre di Jimmy Janes, Bob Crosby e Les Brown – da “Sentimental Journey” a “Getting Better All the Time” – e girando tutti gli Stati Uniti in tournée.

Proprio in una delle sue esibizioni, la futura attrice più pagata di Hollywood attira l’attenzione, con il suo talento, del compositore Jule Styne e del suo socio Sammy Cahn, che la introdussero, così, al regista Michael Curtiz.

È amore professionale a prima vista. Doris Mary Ann Kappelhoff si trasforma in Doris Day e firma un contratto con la Warner Bros di sette anni, divenendo uno dei volti più amati del cinema degli anni ‘40 e ‘50 e la protagonista indiscussa dei musical brillanti in voga in quel periodo.

Tra i titoli emblematici, si annoverano l’esordio Amore sotto coperta del 1948, con Jack Carson e Janis Paige, il film drammatico Chimere del 1950, al fianco di Lauren Bacall e Kirk Douglas, e le commedie musicali La ninna nanna di Broadway, del 1951, e Aprile a Parigi, del 1952. Fino al personaggio di Calamity Jane in Non sparare, baciami!, diretto da David Butler nel 1953, e alle sue interpretazioni più intense, in Amami o lasciami di Charles Vidor, nel 1955, e, l’anno seguente, in L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock, con la sua indimenticabile interpretazione di “Que Sera, Sera”.

Gli ultimi film, gli stereotipi, il ritiro dal set

In seguito a qualche insuccesso, Doris Day inaugura la terza fase della sua carriera, tornando alla commedia commerciale e dando vita al proficuo sodalizio artistico con l’attore Rock Hudson, compagno di set in Il letto racconta (1959), Amore, ritorna! (1961) e Non mandarmi fiori! (1964).

La struttura narrativa è sempre la medesima: una guerra tra sessi e stereotipi di genere in cui Day interpreta donne mature, orgogliose e impegnate a preservare il proprio valore e la propria “innocenza” fino al matrimonio. Uno schema che troverà la sua massima consacrazione in Il visone sulla pelle (1962) di Delbert Mann, pellicola che consoliderà lo stigma di “vergine quarantenne” dell’attrice.

E motivo per cui, nel 1967, Doris Day rinunciò al ruolo di Mrs Robinson ne Il laureato: un personaggio “scabroso” e in netto contrasto con la sua immagine candida, innocente e pressoché asessuata. Una proposta che Day considerò addirittura alla stregua di un vero e proprio insulto e di un’offesa personale.

Dal rifiuto al ritiro il passo è stato breve. L’offerta coincide, infatti, con l’addio al cinema della stessa Doris Day, che a partire dalla metà degli anni ‘60 inizia a diradare maggiormente le sue apparizioni sui set in favore di serie e programmi televisivi, per poi dedicarsi, in seguito alla morte del suo terzo marito e manager Martin Melcher, al figlio Terry e alla sua passione per gli animali.

C’è, però, un dato particolarmente significativo che, se pur indirettamente, ha segnato l’esistenza di Doris Day: la sua età. Pare, infatti, che la madre, in occasione dei primi contratti di lavoro di Doris Day, manipolò alcune registrazioni, attestando la sua data di nascita al 1924 anziché al 1922.

Una scoperta di cui Doris Day divenne cosciente, come si legge sul Time, solo nel 2017, nel corso del suo 95esimo compleanno e a due anni dalla sua morte. Ma che, se osservata con cura, rivela uno dei problemi di cui Hollywood mostra ancora i sintomi: l’ageismo.

Hollywood e l’ageism

L’ossessione per la giovinezza e, come si evince dall’esperienza di Doris Day, per la rassicurante fisionomia della “ragazza della porta accanto”, sempre dinamica, illibata e gioiosa, è, ancora oggi, uno dei cardini della forma mentis hollywoodiana.

Ed è anche il motore propulsore di una forma di discriminazione di cui non vi è ancora consapevolezza endemica, ma dal carattere insidioso e mortificante: l’ageism. Come riporta Treccani, l’ageism – da “age”, “età” – è una forma di pregiudizio basata sull’età di un individuo, svalorizzato e denigrato perché anziano o non conforme ai canoni presi in considerazione.
Coniato dal psichiatra e geriatra Robert Butler nel 1969, il termine ageism gode ancora – soprattutto in Italia – di scarsa diffusione. Ma non a Hollywood, in cui attori e registi non mancano di far sentire la propria voce per ostacolare il fenomeno.

Come rivela Forbes, negli ultimi sei anni i professionisti del cinema hanno mosso severe accuse nei confronti dell’industria cinematografica, al fine di sottolineare le disparità vigenti e aumentare le opportunità per gli attori più adulti, incolpati di non essere “abbastanza giovani” per determinati ruoli o contesti narrativi.

Gli over 60, infatti, compaiono sullo schermo per impersonare perlopiù figure di “supporto”, e, nella maggior parte dei casi, la loro caratterizzazione risulta mal rappresentata e poco affine al vero, spesso vittima di stereotipi obsoleti, inappropriati ed esagerati, volti al riso e al divertimento.

Come la gran parte delle discriminazioni, anche l’ageism segnala, però, un’incidenza superiore nei confronti delle donne, le quali, superata una certa soglia anagrafica, risultano imputate di essere “troppo poco”: magre, dinamiche, giovanili, sexy, credibili. E vengono relegate, così, a ruoli di “cura”, in qualità di madri e nonne, spogliate della loro vitalità e, in molti casi, anche del loro potere seduttivo. A differenza di alcuni colleghi uomini, ritratti come più affascinanti e avvenenti proprio con il procedere dell’età.

Un doppio standard di cui molte attrici hanno recentemente denunciato l’esistenza. Come Helen Mirren, che non ha avuto difficoltà ad affermare che esso sia un atto

ridicolo: noi tutti vediamo James Bond diventare sempre più vecchio, mentre le sue fidanzate diventano sempre più giovani. È fastidioso.

O come Nicole Kidman, la quale, in occasione del discorso tenuto agli Screen Actors Guild Awards del 2018, ha messo in luce il problema dell’ageismo nelle produzioni audiovisive invitandone l’industria a rappresentare donne di tutte le età sia al cinema, sia in televisione. Affinché

le nostre storie vengano raccontate, […] imploro scrittori, registi, studi e finanziatori a investirvi passione e denaro: abbiamo dimostrato di poterlo fare, e possiamo continuare a farlo, ma solo con il supporto dell’industria, soldi e passione.

La lista di attrici è ancora lunga, e annovera, tra le altre, anche Jennifer Aniston, contraria ai complimenti sull’età (della serie: “Sei magnifica per avere 50 anni!”) e Julia Roberts, nonché alcune esponenti della “nuova generazione”, quali Maggie Gyllenhaal (“troppo vecchia” per impersonare la fidanzata di un 55enne) o Dakota Johnson, che ha condiviso le sue frustrazioni circa l’assenza sugli schermi della madre, Melanie Griffith, e della nonna, Tippi Hedren, «attrici straordinarie» ma escluse da un’«industria brutale».

Come sempre, alle donne è richiesto di combattere e faticare di più. Anche per essere rappresentate nella loro età, senza vergogna delle rughe, dei corpi poco tonici e degli impulsi vitali che ancora le caratterizzano.

E, soprattutto, senza la necessità di falsificare la propria età anagrafica. Anche se si tratta solo di due anni in meno.

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