A oggi nel mondo del lavoro sempre più generazioni si ritrovano a condividere spazi e ruoli che un tempo avevano rigidi confini e target precisi. Molti linguaggi a confronto che non sempre riescono a decifrarsi a vicenda e a superare il gap generazionale che inevitabilmente si interpone tra di loro. Il risultato è spesso un luogo di incomprensioni e tensioni che si esprime attraverso logiche discriminatorie.

Una di queste, spesso sottovalutata, riguarda i pregiudizi legati all’età. Si è di norma abituati a pensare che gli unici a pagarne le conseguenze in questo senso siano i più anziani, “vittime” di un mondo che va troppo veloce e non perdona chi resta indietro, ma la realtà è che a rimetterci sono anche i più giovani, il cui ingresso nel mondo del lavoro è spesso un lungo percorso ad ostacoli bloccato da pregiudizi, false convinzioni e incomprensioni, frutto di una società che ancora fatica a comprendere come proprio dalle diversità venga la più preziosa ricchezza.

Ageism: significato e origini

L’ageismo – da “age” che significa “età” – è un tipo di discriminazione che comporta un pregiudizio nei confronti delle persone in base alla loro età. Il termine è stato usato per la prima volta dal gerontologo Robert N. Butler in un articolo del 1969 pubblicato sulla rivista medica The Gerontologist, per descrivere la discriminazione subita dalle persone più anziane.

Butler è stato uno dei primi a percepire la denigrazione e l’esclusione sistematica a cui erano soggetti gli anziani e a equipararli alla discriminazione e agli stereotipi basati sulla razza, l’etnia o il genere.

L’ageism nei confronti degli anziani si manifesta in vari ambiti; lo si vede ad esempio in modo piuttosto chiaro in quello medico-sanitario, in cui, spesso implicitamente, si mette in discussione il diritto alla salute dell’anziano proprio per via del suo status, o nella cultura dei mass media, che negli anni ha sempre più promosso un’idea di giovanilismo a tutti i costi, a discapito dell’età matura, dipinta in modo caricaturale, tanto da renderla quasi “illegittima” e indecorosa.

Tra questi, vi è poi l’ambito del lavoro, dove l’età matura viene considerata a tutti gli effetti un ostacolo, fino a fare dell’anziano una figura economicamente e socialmente inutile, perché non produttiva. Ne abbiamo avuto testimonianza recente in questo periodo di pandemia, in cui tali considerazioni sono state sposate e rese pubbliche da personaggi istituzionali di un certo potere, come il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti. Questo un suo tweet di dubbio gusto, che ha suscitato molte polemiche:

Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid-19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone perlopiù in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese, che vanno però tutelate.

La dimensione lavorativa è senza dubbio l’ambito in cui la discriminazione in base all’età risulta più diffusa, come testimonia anche la US Equal Opportunity Commission, secondo la quale quasi un quarto di tutti i reclami presentati dai lavoratori è legato alla discriminazione basata sull’età. A questo proposito, un rapporto dell’AARP, l’Associazione americana dei pensionati riferisce che il 65% dei lavoratori dichiara di aver sperimentato la discriminazione basata sull’età, il 58% dei quali a partire dai 50 anni.

Inizialmente, il termine è stato quindi maggiormente associato a una discriminazione nei confronti dell’età matura, ma con il tempo è passato ad indicare un atteggiamento discriminatorio e pregiudizievole basato su qualsiasi tipo di età.

Gli adulti più anziani si sono infatti ritrovati spesso ad avere problemi nell’ottenere promozioni, nel trovare un nuovo lavoro o cambiare carriera, nell’essere considerati ancora competitivi in un mondo che si evolve e cambia di continuo, ma anche i più giovani hanno sperimentato difficoltà in questo senso, soprattutto a causa della percezione di mancanza di esperienza e credibilità, a cui non raramente sono stati associati. In questo secondo caso, siamo di fronte al reverse aegism.

Cos’è il reverse ageism?

Il reverse ageism, o ageismo inverso, si verifica quando gli oggetti della discriminazione in base all’età sono i giovani. Si parla di “reverse” proprio perché la discriminazione a danno degli anziani è sempre stata considerata la norma.

Alcuni esempi di questo tipo di discriminazione sono i seguenti:

  • quando dipendenti più anziani trascurano il feedback dei colleghi più giovani o non li coinvolgono in progetti e riunioni;
  • quando ai dipendenti più giovani non vengono affidati compiti importanti, nonostante il titolo e le competenze dimostrate;
  • quando i dipendenti più giovani sono sottoposti a micromanagement da parte dei superiori, relegati cioè a svolgere mansioni non centrali, come la compilazione di report lunghi e inutili che richiedono molto tempo e non hanno un’utilità effettiva;
  • quando i colleghi più giovani sono bersaglio di supposizioni stereotipate sull’età, che possono anche sfociare in frasi e atteggiamenti discriminatori, atti a screditarli.

Esistono, in alcuni paesi, leggi che vietano la discriminazione dei lavoratori con un’età più avanzata. Queste, però, non vengono dedicate nella stessa misura ai più giovani, che subiscono “reverse ageism”.

Come spiega Emma Waldman, una giovane editor newyorchese che ha sperimentato nel suo percorso lavorativo episodi di reverse ageism, in alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti, ci sono leggi che vietano la discriminazione dei lavoratori con un’età più avanzata, ma la stessa cosa non è prevista per il reverse ageism:

Quando cerchi su Google “discriminazione per età sul lavoro”, troverai un articolo dopo l’altro sul pregiudizio maturato nei confronti dei dipendenti più anziani e sulle leggi che mirano ad affrontare questo problema. Negli Stati Uniti, il governo federale ha messo in atto misure specifiche per prevenire la discriminazione contro i lavoratori dai 40 anni in su.  Allo stesso tempo, non ci sono tutele nei confronti dei giovani professionisti. Questo è un problema. Uno studio recente ha rivelato che i giovani sono spesso più propensi a riferire di aver sperimentato l’ageismo sul lavoro rispetto alle loro controparti di mezza età o più anziane.

E i dati confermano questa realtà: Glassdoor, sito internet nel quale impiegati ed ex impiegati recensiscono anonimamente le aziende e i loro superiori, ha rilasciato un sondaggio, riferito all’anno 2019, sulla diversità e l’inclusione negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia e in Germania e ha scoperto che i dipendenti più giovani – di età compresa tra i 18 e i 34 anni – hanno più probabilità dei dipendenti anziani – over 55 – di aver assistito o sperimentato l’ageismo sul lavoro: siamo al 52% contro il 39%.

La situazione è poi confermata anche da Dominic Abrams, professore di psicologia sociale e direttore del Centro per lo studio dei processi di gruppo nella School of Psychology dell’Università del Kent:

L’ageismo è un’arma a doppio taglio. È vero che la gente spesso applica stereotipi paternalistici ai lavoratori più anziani e quindi si presume che siano meno impiegabili. Ma le persone più giovani tendono ad essere più esposte a tutte le forme di pregiudizio e discriminazione rispetto alle persone più anziane, tra cui razzismo, sessismo e ageismo.

Il reverse ageism se sei donna

La situazione diventa poi esponenziale se i soggetti sono donne. Questo perché si uniscono due stereotipi. Purtroppo, infatti, la cultura maschilista tuttora vigente ha portato già di per sé a considerare le donne meno credibili da un punto di vista professionale e le ha rese maggiormente esposte al giudizio e ai pregiudizi, relegandole in una condizione lavorativa più fragile, vulnerabile e penalizzata.

Che la vita delle donne – qualsiasi sia la loro età – sia più difficile sul piano lavorativo ce lo dicono anche i dati. Nonostante sulla carta rappresentino il 58,7% del totale dei laureati, il mondo del lavoro in Italia privilegia ancora gli uomini. Ma non è solo una questione numerica: i dati del consorzio universitario Almalaurea, relativi all’anno 2019, ci dicono che le donne laureate, oltre ad essere la maggioranza, hanno anche una media di votazioni pari a 101,1 contro il 98,6 dei loro colleghi maschi; ma più competenze e risultati migliori non si traducono nella realtà in maggiori tassi di occupazione o nel raggiungimento di posizioni apicali. Si pensi ad esempio che il tasso di occupazione femminile è pari al 48,4% contro al 67,6% di quello degli uomini e che le donne arrivano ad occupare solo il 24% dei ruoli dirigenziali, mentre si scende addirittura a un misero 15% se si parla della presenza femminile nei Consigli di amministrazione.

A queste situazioni, si aggiungono poi i soliti pregiudizi di genere a cui sono sottoposte le donne:

  • tendono ad essere percepite come soggetti meno competenti, ambiziosi e competitivi rispetto agli uomini;
  • sono prese meno sul serio e considerate soggetti meno disposti a dedicarsi interamente al lavoro;
  • sono considerate di norma meno adatte all’ambiente lavorativo e soprattutto ai lavori di leadership, poiché associate maggiormente ai valori di empatia, interdipendenza e altruismo – nella loro ottica poco conciliabili con i ruoli manageriali e di potere – ma se manifestano ambizione, determinazione e autorevolezza, subiscono i backlash effects, e vengono cioè penalizzate perché interpreti di comportamenti non conformi agli stereotipi di genere.
  • sono percepite come meno credibili in ambiti generalmente considerati più idonei alle figure maschili, ad esempio in campo scientifico, tecnologico, ingegneristico o matematico.

Il tutto acquisisce ancora più potenza se il soggetto, oltre ad essere donna, è anche giovane. La ragione è ancora una volta da ricercarsi nella cultura patriarcale e maschilista in cui tutt’oggi viviamo, che ha sempre concepito la figura femminile come subordinata al maschio e da esso dipendente, e in una generale ritrosia a riconoscere il potere nelle mani delle donne e a rispondere ad esse, soprattutto se di età inferiore.

Perché è importante parlarne

Combattere stereotipi e pregiudizi basati sull’età, oltre a rappresentare una giusta causa, come succede con qualsiasi altro tipo di discriminazione, diventa anche una questione di vitale importanza perché i cambiamenti sono ormai in atto da tempo e hanno già modificato in modo sostanziale il tessuto sociale. Non si vive più, infatti, nella vecchia struttura del passato: oggi il mondo del lavoro è più fluido, mobile e interconnesso e le varie generazioni sono e saranno sempre più a confronto tra di loro.

Si è smantellata la tradizionale vita in tre fasi rigorosamente distinte che conoscevamo fino a poco tempo fa: il tempo dell’istruzione, la fase lavorativa e quella della pensione. Questa situazione ad oggi è stata sostituita da una vita a più stadi che si incrociano tra di loro e che mescola istruzione ed esperienze lavorative, lavori aziendali e di freelance, transizioni e cambi di carriera e che porta più generazioni a contatto diretto.

C’è poi un’altra questione non certo secondaria che porta a un gap generazionale sul lavoro: l’allungamento dell’aspettativa di vita spinge i lavoratori ad estendere il loro percorso in azienda e a ritardare l’età della pensione, ciò significa che inevitabilmente persone di età molto diverse tra loro lavoreranno sempre più spesso insieme. È pertanto fondamentale che si inizino ad adottare linguaggi universali in grado di facilitare la dialettica tra le generazioni nell’ottica di un rapporto collaborativo e proficuo che possa trarre benefici dalle differenze, che devono essere viste come preziose risorse e fonte di arricchimento reciproco tra le parti.

Come superare il reverse ageism

Per superare le discriminazioni basate sull’età, tanto possono fare le imprese e il mondo del lavoro in generale, soprattutto attraverso l’adozione di precise politiche aziendali che valorizzino la competenza come principale criterio di avanzamento.

Programmi che agevolino la trasparenza, puntino su una comunicazione chiara, si fondino su equità e uguaglianza tra i lavoratori e abbattano stereotipi di genere e pregiudizi di ogni tipo sono il primo passo verso una nuova sensibilità culturale che promuove una maggiore integrazione e collaborazione tra i membri appartenenti a diverse generazioni all’interno di una realtà comunitaria.

Anche la singola persona può però fare molto se si trova a vivere una situazione di reverse ageism. Ecco cosa:

  • consultare dei pari livello che lavorano nella stessa azienda per capire se vivono le stesse dinamiche ed eventualmente ottenere consigli da loro su come comportarsi;
  • parlarne con il proprio responsabile, per fare in modo che sia consapevole della situazione venutasi a creare e possa anche porvi rimedio senza creare tensioni tra i sottoposti;
  • affrontare personalmente il collega da cui si è subìto l’episodio di reverse ageism in modo educato, assertivo e rispettoso. Iniziare un confronto aperto e senza pregiudizi o rancori potrebbe definitivamente sciogliere le tensioni e le incomprensioni e creare un rapporto sincero, di stima e di collaborazione reciproca.

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