Nella visione comune, da tempo immemore, il corpo è qualcosa di sacro.

Questa sacralità viene percepita dai più come un senso di responsabilità morale che l’individuo dovrebbe comunicare attraverso la propria fisicità e l’annessa rappresentazione.
I corpi infatti si fanno depositari del comportamento e, come vedevamo nello scorso articolo (consigliato di seguito) soprattutto il corpo femminile è soggetto a tantissime regole, codificazioni ed aspettative.

Questa subordinazione ad un sistema di pregiudizi porta non solo a conseguenze emotive elevate e costante pressione sociale (basti pensare alla paura di perdere la verginità con leggerezza, il timore di sembrare poco professionale con un vestito attillato o superficiali con un determinato look), ma anche a subire un fenomeno che si chiama “doppio standard”.

Cos’è e come si manifesta il doppio standard

Per doppio standard intendiamo il giudizio diametralmente opposto che diamo, a parità di situazione, a due soggetti.

Questo avviene perché le aspettative e i pregiudizi su una certa categoria di persone ci portano a formulare delle conclusioni morali totalmente sbilanciate ed impari, figlie della cultura patriarcale e sessista che domina le società occidentali e non.
Perciò, il valore che diamo ad un’azione compiuta da un uomo, può essere totalmente differente se a compiere quella stessa cosa è una donna. Ma facciamo degli esempi pratici per capire bene quanto questo meccanismo sia subdolo e ben radicato.

Da tempi assolutamente non recenti, la verginità femminile viene considerata come un valore, qualcosa di connesso alla purezza d’animo e di intenti, che qualifica la donna illibata come di una categoria superiore, inarrivabile e sacra (esatto, come la Madonna, che ha concepito senza avere rapporti sessuali). La donna vergine viene preferita e scelta perché ritenuta fedele e sottomessa, remissiva ed educata. La necessità di trovare partner vergini è stata, per anni, una cosa fondamentale per la reputazione della famiglia intera della futura sposa: infatti, se la donna risultava impura, il matrimonio poteva addirittura saltare (uso il passato, ma anche oggi può funzionare così).

La pressione all’illibatezza era così forte che, in seguito alla prima notte di nozze, la suocera della sposa usciva mostrando con orgoglio il lenzuolo insanguinato dalla rottura dell’imene. Se questo non era macchiato di rosso, allora la persona era da considerare bugiarda.

Non mi soffermerò adesso sull’inesattezza medica di questa pratica (l’imene può rompersi in centinaia di modi e molte persone non lo hanno neanche fin dalla nascita, ergo è semplicemente stupido pensare che la purezza di una donna combaci con una caratteristica fisica così soggettiva e variabile), ma mi addentrerò in un altro aspetto strettamente collegato a questa cosa: mentre i corpi femminili sono tacciabili di poca serietà se non vergini, l’uomo viene – e veniva, anche in passato – legittimato ad avere rapporti prima del matrimonio.

Questo infatti denota come il maschio sia “esperto” e capace, una sorta di esigenza affinché sappia “maneggiare la materia” senza farsi cogliere impreparato: una sorta di giustificazione, come se fosse un corso propedeutico alla vita matrimoniale rigorosamente monogama ed eteronormata.

Questo sentore negli anni è aumentato e si è radicalizzato con la liberazione sessuale. Infatti, per continuare a mantenere un controllo diretto sui corpi femminili anche dopo la rivoluzione sessuale degli anni ’60, la società patriarcale ha iniziato ad escludere le donne che sceglievano di avere più partner dando loro delle prostitute (usando quindi la stigmatizzazione del sex work in modo ghettizzante e negativo).

Stereotipi di genere: la libertà delle donne fa paura

Perciò adesso ci troviamo con una stereotipizzazione ben precisa e definita che vede da un lato gli uomini che hanno molteplici rapporti sessuali ed esperienze relazionali come dei ganzi, dei playboy, dei latin lover, dei Don Giovanni (sì, sono tutti termini che si portano dietro una connotazione principalmente positiva e che indica scaltrezza e furbizia) e le donne che scelgono la stessa formula di vita come delle poverette, delle troie, delle disperate, delle arriviste, delle rovina-famiglie (esatto: nessuno di questi termini viene usato in maniera costruttiva, bensì distruttiva e stigmatizzante).

La connotazione morale delle scelte del genere femminile fa subito capire quanto il doppio standard sia indicativo della poca liberazione dagli stereotipi di genere e di come questi si evolvano e ci seguano nei secoli, impedendo a quello che Simone de Beauvoir chiamava “il secondo sesso” di arrivare ad un livello di reale parità e libertà. La strada da fare è ancora tantissima e parte proprio dalla distruzione di questi meccanismi culturali.

Rimbocchiamoci le maniche, sorelle.

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