White fragility, perché per le persone bianche è così difficile parlare di razzismo

La white fragility è un atteggiamento di resistenza e opposizione alle accuse di razzismo, che nasce in un contesto privilegiato ed è messo in atto da una maggioranza che gode, più o meno inconsapevolmente, di quel privilegio "invisibile".

Nonostante i molti progressi e le conquiste messe a segno negli anni dalle società occidentali sotto più punti di vista, i tempi attuali ci mettono ancora oggi di fronte a situazioni tutt’altro che risolte e superate, che non sono degne di civiltà evolute e rispettose dei diritti della persona, proprio in nome di quei progressi che negli anni sono stati faticosamente conquistati.

Una di queste riguarda il fenomeno del razzismo. In un mondo sempre più globalizzato e interrazziale, continua purtroppo ad essere preponderante in molte civiltà una mentalità fondata sulla superiorità della razza bianca, pesante eredità di politiche e un sistema legislativo e culturale che negli anni ha reso sempre più endemico il seme del razzismo, fino a farlo diventare a tutti gli effetti sistemico.

Questa condizione, presente in misura più o meno importante in molte culture, diventa purtroppo esponenziale in determinate realtà, tra cui quella americana. Impossibile, infatti, non rilevare l’esistenza di un’emergenza sociale negli Stati Uniti, in cui i fatti di cronaca ci consegnano di continuo l’immagine di un Paese dilaniato dalle conseguenze di una cultura ancora permeata da una mentalità profondamente razzista.

È proprio in questo contesto che nasce il concetto di white fragility, la tendenza cioè, tipica delle persone bianche, a mettersi sulla difensiva e a respingere e negare le accuse di razzismo, inteso in questo senso più come un sistema culturale radicato nella società e nelle sue dinamiche, che come un atteggiamento individuale volutamente offensivo, irrispettoso e discriminatorio. Ecco nello specifico di cosa si tratta.

White fragility: cos’è?

Il termine “white fragility” è il titolo di un libro del 2018 della scrittrice Robin DiAngelo – questo il titolo completo: White Fragility: Why It’s So Hard for White People to Talk About Racism – tornato alla ribalta lo scorso anno, tanto da finire in cima alla lista dei best-seller del New York Times, dopo la brutale uccisione di George Floyd ad opera della polizia americana, avvenuta nel maggio 2020.

Figura di spicco nel campo della formazione antirazzista, DiAngelo aveva usato questo termine per la prima volta in un articolo accademico del 2011 su The International Journal of Critical Pedagogy con cui indicava la propensione dei bianchi a respingere le accuse di razzismo attraverso una serie di argomentazioni poco convincenti e realistiche, come vedremo meglio in seguito.

Las premessa da cui parte la scrittrice è che quella americana è una cultura razzista, biancocentrica, in cui il razzismo rappresenta un fenomeno sistemico. Quella che segue è una frase significativa con cui la scrittrice espone questo concetto:

Il razzismo sistemico è incorporato nelle nostre definizioni culturali di ciò che è normale, ciò che è corretto, ciò che è professionalità, ciò che è intelligenza, ciò che è bello, ciò che è prezioso.

Il pensiero di fondo su cui si innesta l’intera ideologia di DiAngelo, non priva di critiche e limiti, che illustreremo di seguito, è che fino a che la cultura americana continuerà a non riconoscere in modo concreto l’esistenza di una contraddizione al suo interno, verranno perpetuate all’infinito politiche e pratiche che, intenzionalmente o meno, continueranno a limitare, penalizzare e condizionare le vite delle minoranze etniche, ponendole costantemente in posizioni di svantaggio.

In definitiva, è proprio questa resistenza delle persone bianche ad ammettere e riconoscere l’esistenza di un problema divenuto sistemico, che, secondo DiAngelo, ritarda e impedisce l’abbattimento di quell’insieme di norme socio-culturali e legislative che continuano a compromettere la vita e limitare le possibilità delle persone nere e di altre minoranze.

Esempi e “tattiche” con cui si manifesta la white fragility

Questo atteggiamento, che secondo la scrittrice americana è stato interiorizzato a tal punto da diventare un meccanismo di difesa automatico, si manifesta perlopiù con una serie di comportamenti o argomentazioni universali e generalizzate, con cui si tende a giustificare, respingere ed eludere critiche o accuse di razzismo.

Una delle tattiche con cui si esprime maggiormente la white fragility è il concern trolling, ossia l’espressione di una finta preoccupazione – più o meno consapevole – che di fatto suona più come una giustificazione con cui si vuole e in molti casi si crede di appoggiare la causa che si va di fatto a contrastare, con lo scopo principale di non guardare in faccia il fulcro della questione, ossia il razzismo, e assolversi da responsabilità e colpe dal peso individuale.

Le più diffuse sono le seguenti:

  • il cosiddetto daltonismo, ossia il ricorso a frasi sul modello della seguente: “Non vedo il colore della pelle”, con cui si afferma che la razza e il colore della pelle non avrebbero importanza;
  • l’impulso a individualizzare, ossia il ricorso all’argomento “Non sono tutti così”, per non riconoscere l’esistenza di un problema generalizzato di cui si è una manifestazione attiva e al tempo stesso evitare di assumersi le proprie responsabilità;
  • il ricorso a manifestazioni emotive di difesa e solidarietà o a storie che attingono alla propria vicenda personale, come ad esempio citare amici e familiari di colore o di etnie differenti per enfatizzare la vicinanza con il vissuto personale dell’interlocutore o un passato di attivismo per i diritti civili che possa riabilitarci dalla “colpa” di fare parte della maggioranza che da sempre gode del privilegio sociale.

Le ragioni della white fragility

Nella formulazione di DiAngelo, la white fragility nascerebbe dall’intento, più o meno consapevole, dei bianchi di salvaguardare il privilegio, ossia custodire ciò che la razza ha concesso loro, e continua a garantire loro, perpetuando quel modello fondato sulle gerarchie razziali, a garanzia della sopravvivenza del loro status privilegiato.

Oltre al razzismo sistemico, nell’ideologia di DiAngelo risulta quindi centrale il concetto del privilegio bianco inconscio, la ragione principale che porterebbe alla resistenza della white fragility, e che, nel tentativo di rendere appieno l’idea, viene paragonato dalla scrittrice al modo in cui i destrorsi non sono spesso consapevoli di quanto il mondo sia costruito a loro misura e a svantaggio dei mancini.

Il concetto di “privilegio” è stato introdotto nella sua forma moderna da Peggy McIntosh, ricercatrice al Wellesley Centers for Women, nel suo saggio del 1988 dal titolo White Privilege: Unpacking the Invisible Knapsack. Questa la definizione che ne dà la studiosa nei suoi scritti:

Sono arrivata a vedere il privilegio bianco come un pacchetto invisibile di beni non guadagnati che posso contare di incassare ogni giorno, ma di cui ero destinata a rimanere all’oscuro.

Le critiche alla “White fragility” teorizzata da DiAngelo

Come anticipato, sebbene l’intero sistema ideologico su cui si fonda il pensiero di DiAngelo si regga su basi incontrovertibili che danno prova dell’esistenza di un razzismo di tipo sistemico che va oltre le manifestazioni individuali di discriminazione e odio, sono state riconosciute più critiche alle considerazioni e tesi a cui la scrittrice e formatrice ha addotto nel suo lavoro.

Una di queste si riferisce alla tendenza ad ignorare le differenze all’interno della popolazione bianca e a considerare i bianchi (definiti da lei “whitehness”) come un unico blocco omogeneo. Sono molte le espressioni utilizzate da DiAngelo nel suo libro per descrivere i bianchi come un’unica entità spersonalizzata: “collettivo bianco”, “voce bianca”, “visione del mondo bianca”, “esperienza bianca”. Si tratta però di una modalità che nega l’esistenza della diversità e che porta a suggerire la falsa idea che tutti debbano essere trattati allo stesso modo.

È un ragionamento non molto distante nella sua essenza da quello razzista che porta a sostenere che i bianchi siano persone aventi diritto per il solo fatto di appartenere a una data razza. In definitiva, in questo senso DiAngelo finirebbe per mettere in pratica lo stesso atteggiamento che critica.

Anche John McWorther, collaboratore di The Atlantic e professore alla Columbia University si pone sulla stessa linea. McWorther, sostiene infatti che nonostante le sincere intenzioni dell’autrice, il libro finisca per sminuire i neri e li privi della loro dignità e del loro orgoglio, negando le loro conquiste raggiunte negli anni e non riconoscendo la realtà per quella che è. Queste le sue parole in merito:

Nel 2020 – al contrario del 1920 – non ho bisogno né voglio che qualcuno rifletta su come il fatto di essere bianchi privilegi questi ultimi rispetto a me. Né ho bisogno che la società più ampia si sottoponga a insegnamenti su come essere sensibile ai miei sentimenti. Non vedo alcuna connessione tra il marchio di rieducazione di DiAngelo e l’attivismo vigoroso e costruttivo nel mondo reale su questioni importanti per la comunità nera. E non posso immaginare che qualche lettore nero possa volentieri sottomettersi alle idee di DiAngelo mentre si considera un adulto con una normale autostima e forza. Pochi libri sulla razza hanno più apertamente infantilizzato i neri di questo presunto autorevole tomo.

Non solo, McWorther afferma inoltre che la scrittrice si prenda il lusso e l’incoerenza di valutare i bianchi a seconda di come conviene: ossia, a volte come un’entità unica – nella modalità che abbiamo appena descritto – altre volte come esseri inconsapevoli di essere un gruppo. La critiche che muove McWorther è però la seguente:  se i bianchi non si riconoscono in termini razziali, ossia non si percepiscono come un gruppo, e devono pertanto essere essere istruiti su questo punto, come possono poi agire per salvaguardare quel privilegio di cui godono – e vogliono continuare a godere – in quanto gruppo?

White fragility e whitesplaining

Indipendentemente dai limiti e le contraddizioni che le argomentazioni a cui adduce la scrittrice possono mostrare, non si può non riconoscere l’esistenza e la manifestazione di un atteggiamento – introiettato e pertanto nella maggior parte dei casi inconsapevole – frutto del privilegio che la cultura bianca si è ritrovata, senza di fatto conquistarlo.

E, proprio per questa ragione, il meccanismo diventa automatico, inconsapevole e non riconoscibile nell’immediato dalle stesse persone bianche, che in quel privilegio ci sono nate, fino a diventarne quasi del tutto inconsapevoli.

Un atteggiamento che porta spesso le persone bianche ad agire come se la storia non ci avesse mai consegnato un passato di differenze e discriminazioni, né continui a palesarsi davanti ai nostri occhi con quelle stesse dinamiche, più o meno visibili. Come se, in definitiva, ci trovassimo a percepire un presente che non tenga conto, silenzi e dimentichi le conseguenze, purtroppo ben visibili, di questo passato. Una delle modalità più frequenti con cui, consciamente o meno, si esercita questo privilegio inconsapevole è la pratica del whitesplaining.

Allo stesso modo del mansplaining, di cui è una declinazione, il whitesplaining è un atteggiamento che nasce dal punto di vista di una maggioranza – nel primo caso l’uomo medio bianco eterosessuale cisgender, in questo, la popolazione bianca – e da una prospettiva che è la norma e il parametro su cui è costruita la società in ogni suo aspetto, risultando pertanto poco sensibile se non completamente ignara delle condizioni a cui i gruppi delle minoranze sono esposti.

Più precisamente, il whitesplaining è quando una persona bianca dice a una persona di colore come rispondere, interpretare o vedere un determinato argomento che la riguarda direttamente. Un esempio di whitesplaining è il seguente: un amico nero che dice di essere stato seguito in un negozio perché pensavano che stesse rubando, a cui una persona bianca risponde “è successo anche a me, anche se sono bianco”. 

Si tratta purtroppo di un atteggiamento che è facilitato dal fatto che i media, i governi e le istituzioni culturali continuino a riflettere e assumere il punto di vista e la prospettiva della popolazione bianca, come fosse l’unica da cui valga la pena vedere il mondo e costruire la società nel suo complesso. È proprio in questo senso che le persone bianche continuano a godere del privilegio, che viene però percepito come default e pertanto non riconosciuto, ma considerato parte stessa di quella vita di serie A.

Delegittimare il whitesplaining può essere un modo efficace per permettere alle stesse persone bianche di vedere le differenze e le discriminazioni in atto e prendere coscienza di quel privilegio ingombrante, ma invisibile per loro, al fine di contribuire a costruire una consapevolezza nuova che consenta di interpretare e creare una realtà che non neghi il suo passato e il suo presente, ma che possa riconsiderare l’idea di un futuro più equo e rispettoso.

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