Perché dire "all lives matter" è sbagliato e perché non basta non essere razzisti

Non basta non essere razzisti. Bisogna essere antirazzisti. Non basta non essere sessisti. Bisogna essere antisessisti. Le teorie del femminismo intersezionale di Angela Davis sono oggi più attuali che mai, alla luce delle proteste dopo la morte di George Floyd e dello slogan All Lives matter (che è sbagliato).

La morte di George Floyd, l’afroamericano fermato dalla polizia e deceduto dopo che l’agente Derek Chauvin (ora agli arresti) lo ha tenuto a terra con il ginocchio sul collo per nove minuti, ha scatenato non solo l’indignazione mondiale sui social, cui si sono uniti anche moltissimi artisti, ma soprattutto un’ondata di proteste in tutti gli Stati Uniti, il cui bilancio sta diventando tragico.

In dieci giorni sarebbero state fermate oltre 10 mila persone, dieci sarebbero rimaste uccise, mentre nella sola Minneapolis si contano danni per oltre 55 milioni di dollari; la rabbia popolare ha insomma preso la piega peggiore, permettendo anche ai delinquenti di approfittare del momento particolare per compiere atti di violenza che nulla hanno a che fare con le ragioni di chi sta manifestando per chiedere riforme concrete contro le iniquità razziali.

Condannando ovviamente chi ha trovato la “scusa” dei moti per sfogare la parte peggiore di sé, allo stesso tempo occorre spendere due parole su chi, in questi giorni, crede di portare avanti, idealmente o fisicamente, la battaglia civile degli afroamericani con lo slogan di “All Lives matter”, ovvero “tutte le vite contano”, piuttosto che lo slogan principale adottato dalle proteste “Black lives matter” (“le vite dei neri contano”).

Un’alternativa che con l’obiettivo di essere il più inclusiva possibile ha il difetto di oscurare (per l’ennesima volta) proprio coloro che stanno protestando perché spesso non sono inclusi. Perché sì, tutte le vite contano, ovviamente, ma in questo caso i bianchi, storicamente detentori di privilegi e diritti che ai neri sono spesso stati negati (proprio da loro), non sono il centro dell’attenzione, e ricordare una banalità, la sacralità della vita per tutti, non fa che minimizzare, ancora una volta, la sofferenza delle persone nere, screditando il valore delle loro richieste.

Il fatto che una categoria di persone alzi la voce per specifiche sofferenze non toglie legittimità alle sofferenze di altre categorie, ma negare l’esistenza di queste differenze significa appiattire il dibattito e contribuire a perpetrare lo stesso sistema oppressivo che pensiamo di combattere.

In breve potremmo schematizzare così:

  • È il tuo privilegio a parlare: rifiutarsi di usare lo slogan tradizionale in virtù di quello “inclusivo” è sintomo della difficoltà di abbandonare la proprio posizione di privilegiati bianchi. Per la prima volta non siamo al centro dell’attenzione e questo, in modi che forse non riusciamo nemmeno a razionalizzare a pieno, dà fastidio.
  • Non è una gara: affermare che le vite dei neri contano non significa dire che quelle dei bianchi non contino più nulla.
  • Stai evitando il problema: sono le vite dei neri a subire i maggiori rischi e discriminazioni, allargare il dibattito a “tutte le vite” significa screditarne le proteste.
  • Stai supportando un sistema razzista: privare i neri dei loro slogan, screditarne le proteste e le rivendicazioni significa perpetrare un sistema razzista.

Seppure siamo consapevoli che probabilmente molti di coloro che si sono impegnati a preferire uno slogan più inclusivo l’abbiano fatto in buona fede, è importante capire che spesso la “buona volontà” non basta, o meglio, come affermava Angela Davis: dichiararsi “non razzisti” non è sufficiente.

È infatti difficile che qualcuno si definisca ancora razzista, ma molti dei comportamenti che tutti noi portiamo avanti, ogni giorno, dimostrano come vi sia una grande differenza tra coloro che aborrono il razzismo per davvero e chi lo evita, lo ignora o fa finta di non vederlo.

Se la domenica a Messa fate delle donazioni per la raccolta di cibo e vestiti per i migranti appena arrivati nella vostra parrocchia, ma quando per strada incontrate uno ‘straniero’ scansate voi e i vostri figli perché ‘non si sa mai’ , non siete degli antirazzisti.

Scrive Espérance Hakuzwimana Ripanti nel suo libro, E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana, nel capitolo intitolato “Antirazzista Wannabe”. Come spiegava Angela Davis nel suo libro più importante, Donne, razza e classe, si deve essere antirazzisti, così come antisessisti, perché le discriminazioni hanno tutte la stessa origine.

Perché non basta non essere razzisti, ma si deve essere antirazzisti: le teorie di Angela Davis

Angela Davis è stata colei che per prima ha teorizzato il femminismo intersezionale, riconoscendo un punto di contatto tra tutti i tipi di oppressione: nel suo libro più famoso l’attivista afferma che non solo la questione femminile, razziale e di classe siano collegate, ma siano imprescindibili l’una dall’altra.

Il femminismo del suo tempo, degli anni ’60 e ’70, si rivolgeva infatti principalmente alle donne bianche e di ceto medio, ma non considerava affatto le afroamericane, che perciò subivano la doppia esclusione, sia all’interno della comunità nera, in quanto donne, sia dal femminismo bianco, che le aveva messe ai margini.

Considerare tutte le donne come un unicum è uno sbaglio che il femminismo dell’epoca ha compiuto, poiché non ha tenuto in considerazione il vissuto sociale e culturale di una certa parte di donne, come le afroamericane, appunto.

Non basta essere anticlassisti, antirazzisti o antisessisti, dice Davis, si dovrebbe essere tutte e tre le cose contemporaneamente, dato che i tre elementi sono intersecati.

Tutte le discriminazioni hanno una stessa origine

Il punto cardine è proprio questo: ogni genere di discriminazione nasce dal pensiero che ci sia qualcuno “migliore” di un altro, e perciò tenuto a comandarlo. I bianchi sui neri, i ricchi sui poveri, gli uomini sulle donne. Da qua si capisce perché per Angela Davis ciascuna di queste discriminazione non possa essere considerata senza ricordare anche le altre.

Negli Usa il femminismo nero è sempre stato impegnato a dimostrare che razza, genere e classe sono inseparabili nella realtà sociale in cui viviamo. Le femministe nere hanno respinto per prime l’approccio ‘o movimento femminista o movimento antirazzista’ – ha spiegato in un’intervista – Dobbiamo porci quindi il problema di come trovare le interrelazioni tra i due movimenti. Come s’intrecciano razza, classe, genere, sessualità, nazione e abilità? Si tratta di una questione chiave. Riflettere sulle relazioni tra le lotte contro il razzismo negli Stati Uniti e lotta per la difesa dei migranti messicani vuole dire per esempio adottare un approccio femminista moderno e rivoluzionario.

Anche se non ci si ritiene razzisti, maschilisti o classisti in qualità di bianchi, uomini o economicamente privilegiati si sta beneficiando da tutta la vita di un sistema costruito ad hoc per alcune categorie di persone, escludendone altre. Ed è proprio questo che dobbiamo cambiare.

Cosa può fare una persona bianca?

Per anni abbiamo trovato normale che a discutere di razzismo nei salotti televisivi, sui media, nella letteratura fossero le persone bianche, senza considerare che anche questo fosse, in un certo qual modo, un riaffermarne l’egemonia e la supremazia. Ma, alla fine, ascoltare le ragioni dei discriminati “raccontate” da chi è parte integrante, suo malgrado, dello stesso sistema che le discrimina non aiuta ad avere davvero una visione oggettiva della questione; è, in sostanza, come se a parlare di femminicidio venissero invitati sempre e solo uomini. Abbandonando il whitesplaining, che cosa si può fare davvero nel concreto per dare voce alle persone nere?

Semplicemente, fare un passo indietro, e lasciare il megafono a chi, meglio di noi, sa cosa significhi vivere sulla pelle una discriminazione costante. La letteratura contemporanea offre alcuni delle più intense e chiare testimonianze che ci permettono, laddove iniziassimo ad ascoltarle davvero, di avere una prospettiva del tutto nuova e vissuta, quella sì, realmente in prima persona.

Abbiamo già citato E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana, di Espérance Hakuzwimana Ripanti, che racconta la “doppia visione” di una ragazza nera, nata in Ruanda, ma vissuta nella provincia bresciana.

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