Ieri parlavo con una persona della divulgazione dei sex tapes delle star hollywoodiane e mentre discutevamo, ragionavo su quante siano le formule verbali del parlato comune che sorreggono il victim blaming e instillano il dubbio in chiunque ascolti o legga suddette parole (vorrei chiamarle “cagate” ma non so se possa farlo, ndr).

Ci sono infatti una serie di frasi ricorrenti che servono a rimarcare quanto una persona non solo sia sessista ma anche, desumibilmente, incapace di vedere oltre al proprio mastodontico naso e annusare il mondo esterno con un approccio più empatico e meno caustico.

Queste sono formule che derivano dalla stessa rape culture, ovvero quel sistema che normalizza, depenalizza e sminuisce ogni deriva della violenza di genere.

Ma vediamo quali sono queste frasi che, quando vengono dette, diventano subito victim blaming e violenza secondaria screditando l’esperienza traumatica della survivor che le riceve.

La prima, grande classico intramontabile del patriarcato dagli albori ad oggi, mai un giorno fuori dal podio, la vera fuoriclasse delle frasi colpevolizzanti è “Se l’è andata a cercare”.

Punch-line di decine e decine di ospiti in salotti tv, opinionist* della domenica, pollici veloci dei commenti del web, questa frase ci ricorda come la responsabilità della violenza sia minore se le circostanze in cui è successa siano ritenute non consone allo svolgimento di uno stupro. Esatto, questo sottintende che ci siano delle vittime ideali che subiscono reati in situazioni perfette: non è affascinante come concetto da quanto è poco sensato? E invece è la più disarmante normalità: la donna che subisce violenza può, tranne in rarissimi casi, essere considerata dall’opinione comune (che, come abbiamo già visto, è deformata da un aspetto prettamente culturale) corresposanbile del suo stesso reato.

Per spiegare questo concetto al meglio faremo un esempio piuttosto recente, quanto drammatico, che ha avuto modo di spalancare le porte dell’inferno e far riversare l’odio di matrice sessista in ogni media e in ogni luogo e ogni lago negli ultimi mesi: il caso Genovese.

In questo particolare episodio, visto che la vittima non rispondeva all’identikit della bravadonna™ che fa tutto in modo timoroso e non occupa spazio, che non viene violentata da uno sconosciuto incappucciato che esce da un cespuglio all’imbrunire ma anzi, da un facoltoso uomo d’affari reputato dai più un baluardo del “farcela da soli”, la voce del patriarcato non ha tardato a farsi sentire: “eh ma se vai a quelle feste” “lo sapeva a cosa andava incontro” “figurati se non sapeva cosa si fa in quei posti”.

Insomma, come se fosse normale doverlo sapere, come se non fosse neanche messo in esame chi ha dato quel tipo di festa e ha violentato una ragazza chiudendola in una stanza per ore e ore ma chi vi ha partecipato. Colpa? Essere sprovveduta. Perché nel mondo dei giusti, le veredonne™ non vengono stuprate.

Un secondo incredibile leitmotiv immancabile nelle case del patriarcato è “Chissà come era vestita”.

Con questa frase, che solitamente si sussegue a uno stupro, si vuole intendere non solo che l’abito faccia il monaco (in questo caso la monaca) aggiungendo dunque dello slutshaming a questo victim blaming da manuale. Ma anche che la violenza sia causata da eccitamento, ormonella, la famosa incapacità di tenerselo nei pantaloni, come se vivesse di vita propria e non potesse sicuramente trattenersi davanti a una minigonna.

Ecco, se qualcun* che conoscete usa questo intercalare dopo aver sentito una notizia su un episodio di violenza di genere, ricordate l*i che nessuna di queste dimostrazioni avviene per impeto sessuale, bensì per voglia di potere e di ristabilire, punendo la donna, delle dinamiche culturali ben precise di sottomissione. Non è una minigonna a scatenare uno stupro, bensì il mero fatto di essere donna in una società misogina.

Al terzo posto di questo podio dell’orrore troviamo un caro adagio che mi vedo scrivere spesso sotto alle mie foto: il sempiterno “Basterebbe smetterla di fare certe cose”.

Come il prosecco che sta un po’ bene con tutta la cucina vegetariana, questa frase si sposa magistralmente con primi piatti a base di condivisione non consensuale di materiale intimo, secondi di molestie e catcalling e perfino gran finali di violenze sessuali e femminicidi.

Già, perché ogni cosa che eluda dalla forma stereotipata della bravadonna™ cui accennavo sopra è un rischio che si corre e, dopotutto, ce lo hanno insegnato fin da bambine: Cappuccetto Rosso se va nel bosco se la cerca, la tragedia.

Ma nessuno ci dice che quel bosco è particolare, perché è pieno di rischi solo per le femmine e mai per i maschi.

Nel nostro personalissimo frasario di sessismo e svalutazione vorrei finire con una cosa che mi fa sempre piuttosto male quando la leggo o la sento: la frase “Lo ha fatto per la notorietà”.

Non ha bisogno di spiegazioni questo passaggio, perché mi pare chiaro che chi lo dice sia qualcuno che pensa sia soddisfacente e proficuo passare un circo di gogna mediatica, analisi mediche, ispezioni corporali, tribunali, paura, onta e video mai più cancellabili dal web e dai meandri di Telegram per avere il proprio nome sui giornali. O magari chi lo dice ha il privilegio di non avere idea di cosa si subisca e come ci si possa sentire a ogni commento, insulto, minaccia, offesa, dubbio.

Tutto questo non solo fa ben capire come sia poco considerata valida l’esperienza di ogni survivor, ma anche che non si abbia idea della furia che la società riserva a chi subisce una violenza di genere. Perché nessuna persona sana di mente farebbe a se stessa una cosa simile.

Non siamo credute, siamo responsabilizzate fino all’inverosimile e passiamo dei guai se alziamo la testa in nostra stessa difesa.

Non so come usciremo da tutto questo ma so una cosa sola: con chi usa queste frasi dopo che una donna ha subito una qualsiasi violenza, abbiate poca pazienza e, se siete survivor, allontanate da voi chi dice queste cose: si chiama violenza secondaria e non siete e non siamo obbligate a sentirla, prevederla e sopportarla.

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