“Se va in giro vestita così un po’ se la cerca”.

“Si comporta come una zoc***a”.

“Sì, ma tu le credi? Una che denuncia una violenza sessuale dopo così tanto tempo deve farlo per interesse”.

Quante volte ci è capitato di sentire – e magari persino di dire – una di queste frasi, commentando una notizia sul giornale, una voce che gira in paese, un fatto di cronaca?

Tutto questo ha un nome: si chiama rape culture, cultura dello stupro. Il che significa tentare di normalizzare un atto aberrante quale la violenza sessuale, cercando, in maniera più o meno implicita, una corresponsabilità nella vittima, se non addirittura una vera e propria colpa, che finisce con l’umiliarla due volte.

Lo abbiamo visto, ampiamente, dopo lo scoppio del caso Weinstein e della crescita del movimento #MeToo, con la gente che si domandava perché Asia Argento e le altre ci avessero messo così tanto a denunciare, perché parlassero di quanto avevano subito solo dopo anni, fino ad arrivare a metterne in dubbio la parola, lanciando l’insinuazione del secondo fine, della vendetta personale, persino del ricatto.

Partendo dal presupposto di considerare – e ricordare – che non esista un tempo massimo, o un tempo “giusto” per esporsi in prima persona su un’esperienza dolorosa quale una violenza subita, la rape culture è diffusa in maniera capillare per una combinazione di fattori, fra cui figurano una buona dose di assenza di empatia, una massiccia dose di maschilismo da cui non sono esenti le donne e l’incapacità di comprendere che la radice nel problema sia nella necessità di fornire un’educazione diversa agli uomini, non un diverso codice di comportamento alle donne.

Abbiamo deciso di approfondire la tematica con Benedetta Lo Zito, attivista femminista romana ma trapiantata a Londra, impegnata negli studi di genere, a sua volta sopravvissuta a uno stupro e autrice del progetto Suns, che offre supporto online a chiunque si identifichi come donna e terapie psicologiche a tutti/ i/le sopravvissuti/e. Lo abbiamo fatto perché lei, dal suo account Instagram, cerca di educare e sensibilizzare al tema della rape culture, e c’è un post, in particolare, che ci ha colpiti.

Partiamo allora dalla domanda apparentemente più banale, ma più importante: cos’è la rape culture?

Possiamo definire la Rape Culture come un sistema di valori in cui lo stupro e le altre forme di violenza sessuale sono statisticamente incidenti, e in cui gli atteggiamenti delle persone, le norme della società e le parole dei media, normalizzano e giustificano la violenza stessa.

Il concetto di Cultura dello stupro è molto difficile da accettare sia per gli uomini che per le donne: si tende a pensare alla cosa come ad una società che incoraggi attivamente la violenza sessuale, quando è più un’incapacità di evidenziare le basi che conducono ad atteggiamenti di questo tipo e correggerli.

Facciamo qualche esempio. Un uomo che, in un contesto goliardico come uno spogliatoio, parla in modo poco rispettoso ed oggettificante delle donne, è anch’esso uno stupratore? Certo che no, ma incoraggia altri uomini a fare lo stesso con il suo atteggiamento. E l’amico che non interviene? Ha esattamente lo stesso livello di responsabilità.

Perché lo stupro non è una devianza mentale, nella stragrande maggioranza dei casi, ma la responsabilità collettiva di una società che distingue le donne in base al concetto di ‘possibili mogli o carne da macello’, e le donne che fuoriescono dallo schema delle ‘brave’ sono quelle sacrificabili. È qui che dobbiamo intervenire. La soluzione è nella parità di genere, non nella castrazione chimica”.

Perché a volte il victim blaming è diffuso soprattutto fra le donne?

Per il 10,3% della popolazione italiana spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%, a dire il vero).

Però sì, c’è un’incapacità di accettare di vivere in una situazione così drammatica per tutto il genere femminile. Ma perché erroneamente si pensa che parlare di Cultura dello Stupro sgravi di responsabilità lo stupratore: al contrario, questo verrà comunque punito e verranno però insieme combattuti anche tutti gli atteggiamenti che hanno indirettamente incoraggiato lo stupratore stesso. Evidenziare più responsabili non vuol dire dividere le colpe per ciascuno.

Inoltre, penso che in una società come quella di cui ho parlato prima, una società che ci dice quali siano le donne degne di rispetto e quali no, sia molto facile rifugiarsi non solo nella posizione più utile a livello di potere ma anche in quella che, erroneamente, ci farà sentire al sicuro. Peccato che ad uno stupratore non interessi poi per davvero come sei vestita in quel momento, e che l’unico modo per non essere stuprate sia combattere come collettività per una reale soluzione al problema”.

In Italia, purtroppo, non esistono dati attendibili sulle percentuali di false accuse per stupro, ma, secondo un articolo di The Vision a firma di Jennifer Guerra, confrontando i risultati di tre diversi studi, che hanno analizzato più di 3 mila casi, la percentuale varierebbe dal 2% stimato da una ricerca del 2006, fino al 7% riscontrato da un’altra, nel 2009. Percentuali irrisorie che, tuttavia, sembrano riuscire nell’intento di minimizzare, o perlomeno instillare il dubbio, rispetto a tutte quelle che vengono fatte.

Senza però, considerare, allo stesso tempo, che il numero di violenze sessuali denunciato spesso è di gran lunga inferiore rispetto a quelle effettivamente subite, dato che molte donne, per paura, imbarazzo o timore proprio di non essere credute, rinuncia a sporgere denuncia.

Purtroppo c’è un’incapacità di ammettere le proprie responsabilità e di sentirsi accusati da parte delle donne di non fare abbastanza – spiega Benedetta – Quando qualcuno punta il dito ad una collettività che discrimina, un po’ come per la questione black lives matter, la prima reazione della società non è di farsi spiegare dalla categoria discriminata come si sente e dove sta sbagliando, ma quella di chiudersi a riccio nel ‘non siamo tutti così’. Ma le statistiche dicono altro.

E magari ci si attacca a quella percentuale irrisoria perché ti dà la sicurezza che la tua parte stia nel giusto. Se guardi le cose per davvero, e senza la paura di essere parte di un sistema sbagliato ma con la voglia di ammetterlo per cambiare le cose, allora ti rendi conto che quelle statistiche andrebbero interpretate in modo completamente diverso: non è più un problema di 2-10% che è falsamente accusato, ma di 90-98% delle volte, cioè quasi la totalità, in cui le accuse di stupro sono vere e fondate“.

Fra i casi di stupro socialmente più difficili da valutare come tali c’è sicuramente quello coniugale; il pensiero sembra essere “finiti i tempi del matrimonio riparatore, se una donna ha un rapporto sessuale non voluto con suo marito non può considerarsi davvero violentata”.

Il problema secondo me risiede sempre nel tipo di società in cui viviamo. Se la moglie/compagna diventa un oggetto di proprietà e il sesso è visto come un diritto fondamentale dell’uomo allora è facile pensare che il consenso è dato una volta per sempre. Il problema è che non c’è nessun dovere coniugale, per nessuno. Gli uomini non sono bestie con il pene al posto del cervello e possono tranquillamente controllare i propri istinti, le donne possono avere lo stesso identico tipo di istinti, non essere angeli del focolare che assolvono passivamente a un bisogno maschile, e, di conseguenza, possono decidere liberamente di voler fare sesso o meno con uno o più partner. Tutto parte da ruoli di genere fuorvianti che ci ficcano in testa a forza sin da piccol*, tutto si combatte attraverso la parità di genere. Scusate se mi ripeto“.

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