Sanremo 2020 è andato e poiché, si sa, Sanremo è Sanremo, non ci delude mai e non sono mancati sketch imbarazzanti e cringe a livelli inverosimili, battute e siparietti in odore di sessismo e monologhi, sessisti pure loro, ma con l’ambizione di sembrare femministi.

Ma se questo è quello che Sanremo ci propina da anni, c’è qualcosa di “quasi” nuovo (nel senso che siamo al secondo anno): il “citazionismo” di Achille Lauro.
Siamo al secondo anno consecutivo in cui Lauro, come fosse un mutaforma, cambia pelle e sembianze, ma solo se griffate Gucci e, sul palco dell’Ariston, dice di voler combattere la mascolinità tossica esibendo look esagerati e performance eccentriche.

Premessa: il mondo della trap come quello del rap sono profondamente maschilisti e sessisti; e questo Achille lo sa bene. Ne faceva parte anche lui e, come succede praticamente a ogni persona, ha assorbito il contesto in cui era immerso, come possiamo notare da qualche suo testo.

Lauro ha però cambiato rotta, ha detto no a quella mascolinità tossica, per abbracciare un idea più fluida in cui è presente il femminile.

Fin qui direi tutto bene, se non fosse per le sue dichiarazioni in merito, che mi lasciano molto perplessa: parlo di dichiarazioni in cui descrive il femminile come fossimo in un romanzo rosa degli anni ’50, attribuendo alla donna tratti e ideali tipici di una visione patriarcale.

Il femminile per Achille è delicatezza, eleganza e candore, ma non è tutto, per lui infatti, in un mondo dove le donne vengono invisibilizzate, discriminate, uccise, derise, marginalizzate, infantilizzate, sessualizzate, un mondo in cui non possono decidere per il proprio corpo e non possono rivendicarlo, per lui la donna è “l’estremo simbolo di libertà”.

Pur capendo il senso che lui attribuisce a una dichiarazione del genere, non possiamo non notarne le gigantesche problematicità, che derivano sicuramente da un privilegio, esercitato mica poi così bene e che forse non gli è poi così chiaro.

Diciamocelo chiaramente, Achille di privilegi ne ha un po’ (che non sono una lettera scarlatta, attenzione, ma delle condizioni che possono essere utilizzate molto male o molto bene in base alla propria consapevolezza!): è bianco, ricco, magro, all’apparenza abile e per quanto ne sappiamo etero e cisgender perché, per quanto possa giocare con l’ambiguità, quando si parla di questi due punti le risposte sono strategiche ed evasive, tipo:  “lascio al caso la mia sessualità” o “non voglio etichette”, e quest’ultima affermazione è quella che mi spaventa di più.

Il non darsi delle etichette nasce dal privilegio e dalla consapevolezza di esistere comunque oltre queste, privilegio che le persone trans non hanno mai avuto, come non lo hanno mai avuto tutte le persone marginalizzate. Perché parlo di persone trans? Perché la fluidità di genere, l’essere gender fluid fa parte del termine ombrello TRANS, che racchiude tutte quelle persone che non si riconoscono, totalmente o in parte, con il loro sesso biologico.

Le etichette le abbiamo create e con fatica, sangue e sudore ce le siamo cucite addosso, per autodeterminarci, per dire chi siamo, per dire a un mondo che ci ha invisibilizzato, “io sono qui, sono questo ed esisto”, per lottare contro la norma e dimostrare che c’è altro oltre ad essa.

Lungi da me pensare che una persona sia validata solo dal suo coming out, ma quando ci si arroga il diritto di parlare per le persone diverse, emarginate, incomprese, non possiamo pensare che sia solo uno show: è politica e il coming out è un atto molto politico. Ha a che fare con l’identità e con le identità che vuoi rappresentare.

Achille Lauro non sta combattendo solo la mascolinità tossica, come si potrebbe fare in mille altri modi: sta attingendo dalla cultura queer e, quindi, la RAI gli ha concesso la “quota queer” (come ha fatto saggiamente notare Eugenia Fattori). Capirete bene che questa cosa è problematica, soprattutto per i punti che abbiamo trattato fino ad ora.

È giunto il momento di chiederselo:

Achille Lauro sta facendo cultural appropriation o queerbating?

Parliamo di appropriazione culturale quando abbiamo una cultura dominante –  in questo caso quella bianca, eteropatriarcale e abilista –  e ne abbiamo una marginalizzata – in questo caso quella queer – e quella dominante sfrutta quella marginalizzata per il proprio tornaconto. In questo modo abbiamo un prodotto dal contenuto perfettamente in linea con il pensiero egemonico, ma rivestito in modo da camuffarsi e strizzare l’occhio all‘inclusività.

Parliamo di queerbaiting invece quando, nel mondo dell’intrattenimento, si cerca di attirare quella fetta di pubblico queer, che da sempre vuole vedersi rappresentata e, contemporaneamente, non andare contro il pubblico più tradizionale, che non vuole vedere contenuti che vadano contro la norma. È una sorta di promessa non mantenuta, ma pur sempre una promessa, che crea aspettativa, ma poi nei fatti non viene mantenuta, esattamente come le azioni di Achille, studiate per essere facili soggetti per articoli clickbait, senza poi avere sostanza.

Siamo palesemente davanti a una ben organizzata e, secondo me, fin troppo artefatta strategia di marketing. Ma quanto quello che avviene su quel palco è problematico?

Molte persone mi hanno detto “l’importante è che ci sia questo tipo di rappresentazioni che rompe gli schemi”? 

Io credo che allora dovremmo guardare meglio e chiederci: “Quali schemi rompe?”.
Lo fa per davvero o rafforza solo il “basta che se ne parli”?

Il fatto ad esempio che non ci sia l’espressione vera e pura del proprio io, ma solo del citazionismo convulso lo trovo già un elemento che la dice lunga su questo progetto (che dovrebbe vederlo parlare di sé).

Per quanto quello di Lauro sia un discorso assolutamente egotico, non riesce a farlo: è solo un patchwork di momenti, situazioni, persone, correnti che hanno costruito un immaginario.
Ma questo immaginario attinge da una precisa comunità che, sul quel palco, non è stata né riconosciuta né ringraziata. Mai.

Dopo tante citazioni incollate una sull’altra, come fogli di carta imbevuti di colla vinilica a costruire un fantoccio, non c’è mai stata una sola dichiarazione in cui si parla della cultura queer alla quale palesemente si ispira. Quello che lui ha dichiarato di voler creare, il suo immaginario, ricorda, in tutta onestà il vecchio carosello: un format in cui si vede una pubblicità dopo l’altra.

Siamo di fronte a un controsenso:

  • dice di voler rappresentare solo se stesso, eppure rappresenta tutto tranne che se stesso;
  • non vuole parlare per nome di nessuno eppure le didascalie delle sue foto sono chiarissime: lui a nome delle persone ci parla eccome, ma senza prendersene la responsabilità.

Già l’anno scorso durante queste performance insieme alla sua spalla (il chitarrista Boss Doms, etero, sposato con prole) faceva queerbaiting, ammiccando effusioni in stile bromance, ma quest’anno è stato decisamente più ambiguo, da solo, con un ego sicuramente più grande della sua presenza scenica.

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