Perché indossare un costume da indiana è sbagliato ed è "appropriazione culturale"

Vestirsi da indiana o tingersi la faccia di nero, per quanto possa sembrarci innocuo, è sbagliato e ha un nome: appropriazione culturale. Ecco di cosa parliamo e perché dovremmo pensarci due volte la prossima volta, prima di indossare un costume o un travestimento.

A molti di noi sarà capitato, per una festa in maschera, di vestirsi da indiana, geisha o comunque con costumi che richiedessero specifici accessori o di tingersi la faccia per avere un altro colore di pelle. Chiaramente nessuno di noi ha mai compiuto questo gesto con una volontà di offendere o denigrare altre persone di etnie diverse, ma, estremizzato, questo comportamento ha un nome specifico, che è quello di appropriazione culturale.

Già il termine di appropriazione lascia ben intendere a cosa ci si riferisca e, per quanto il concetto sia piuttosto complesso e di non facile inquadramento, si potrebbe dire, parafrasando anche la definizione data dall’Oxford Dictionary, che si tratta dell’adozione inappropriata di costumi, pratiche, idee di un popolo o di una società da parte di altri popoli o società che sono, storicamente, ritenute più dominanti.

Il contesto dell’appropriazione culturale è, a dire la verità, soprattutto quello anglosassone e, in particolar modo, americano, ed è spesso davvero difficile distinguere il confine sottilissimo che passa tra il replicare per apprezzamento un look tipico di certi popoli, ad esempio, dallo scimmiottamento che dà luogo all’appropriazione indebita. Bossy fornisce un esempio pratico che ci fa comprendere meglio quanto complesso sia distinguere i due atteggiamenti:

Per la copertina di agosto 2019, Harper’s Bazaar China ha scelto la pop star Rihanna come protagonista. Mentre dalla nazione asiatica sembra non essersi alzata alcuna critica, dall’altra parte di Twitter sono arrivate accuse e lamentele: ‘Quando Kendall Jenner era sulla copertina di una rivista con un ‘afro’ la gente urlava ‘appropriazione culturale’, ma quando Rihanna si veste così nessuno dice niente, è arte, è glamour’, recita un tweet.

Ecco, qui si intravede un abbozzo di linea di demarcazione: il trucco, la pettinatura, gli abiti tradizionali che indossa Riri sono frutto della genialità del team cinese di Harper’s Bazaar. Non c’è traccia di mancanza di rispetto verso la loro cultura perché, a dire della rivista, loro hanno scelto Rihanna per mostrare cosa succede ‘quando un’icona dello stile occidentale incontra l’estetica orientale’.

Di appropriazione si parla invece quando si prendono degli elementi tipici di una determinata cultura o società e li si inserisce in un contesto solo per trend o per svago, togliendoli completamente il loro valore storico o, perché no, religioso.

Esempi e casi specifici di appropriazione culturale

appropriazione culturale
Fonte: web

Non è impensabile che chi indossa il kostoweh, il copricapo nativo americano, per una festa di Halloween o per eventi come il Coachella possa essere tacciato di appropriazione culturale. E anche brand importanti come Gucci sono incappati nel problema: l’azienda italiana, ad esempio, è stata costretta a ritirare i turbanti indiani Sikh fatti indossare a modelle bianche, o a porgere legittime scuse per un maglione che ricordava la blackface (di cui parleremo fra poco).

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Di esempi ce ne sono davvero tanti, anche rispetto a comportamenti che possono sembrare innocenti, e nelle intenzioni lo sono pure. Parliamo proprio della tendenza a dipingersi il volto di nero per interpretare personaggi di colore, ovvero della blackface, che nasce nel XIX negli Stati Uniti nei Minstrel show, spettacoli in cui gli attori, bianchi, tingevano il proprio volto.

A “inventarla” per primo, nel 1830, l’attore Thomas D. Rice, conosciuto come Daddy Rice, che si vestì di stracci, si dipinse il viso di nero e iniziò a ballare e a cantare impersonando uno schiavo, Jim Crow. La canzone che eseguiva, Jump Jim Crow, è stata a lungo popolare e iconica rispetto alla rappresentazione della componente nera nella sua totalità, tanto che persino le leggi di segregazione razziale adottate negli Stati Uniti del Sud alla fine del XIX secolo e rimaste in vigore fino al 1965 si chiamavano proprio Jim Crow laws.

Cosa c’era di sbagliato in quella rappresentazione? Sicuramente il fatto che gli afro-americani venivano tutti dipinti come stupidi, sporchi, pigri e ladri dalla componente della società, quella bianca, ritenuta dominante. Era un melting pot di razzismo e discriminazione, un po’ come quello che nei film americani fa parlare tutti i personaggi italiani con inflessione siciliana, mangiare solo spaghetti e suonare il mandolino.

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Dal teatro americano la blackface finì col diffondersi in tutta Europa, con una serie di imitazioni, travestimenti e comportamenti che scimmiottavano la cultura afro-americana.

Nella tradizione dei Paesi Bassi, ad esempio, esiste la figura di Zwarte Piet, “Pietro il moro”, un servo nero che aiuta San Nicola a portare i doni di Natale, ancora oggi rappresentato con la blackface, che è il frutto anche di quella lunga colonizzazione da parte del Paese e del ruolo centrale giocato nel trasporto degli schiavi africani da vendere nelle piantagioni di zucchero e di caffè nelle loro colonie.

È proprio perché indica una sorta di “derisione” da parte della cultura bianca su quella nera che la blackface verrà per sempre collegata a una storia di violenza e oppressione, rappresentando quindi un esempio di appropriazione culturale.

Quando l’appropriazione culturale è mancanza di rispetto

Il rispetto viene meno quando il travestimento che imita un’altra etnia non fa che ridurre a un semplice feticcio infarcito di stereotipi una complessa realtà culturale, spesso mistificandola e fomentando le discriminazioni.

Per quanto possa sembrarci innocuo vestirci da indiani, da messicani col sombrero, o tingerci la faccia di nero, in quel momento stiamo ridicolizzando la rappresentazione di un’etnia, anche se il gesto è fatto in buona fede. Perché? Perché non si può ridurre la cultura di un popolo a dei semplici accessori, appropriarsene, appunto, senza la benché minima considerazione di ciò che essi rappresentino per quella cultura e per quella società. Un turbante sikh non dovrebbe essere indossato come un vezzo fashion, soprattutto considerando il fatto che ancora oggi moltissimi ragazzi sikh sono vittime di bullismo per questioni religiose che dipendono anche dall’indossarne uno.

Idem dicasi per i nativi americani, popolo che ha conosciuto fin troppo bene l’oppressione e la discriminazione proprio da parte di quella componente bianca che oggi indossa per moda piume e frange.

E badate bene, di appropriazione culturale si parla solo e soltanto quando è la società dominante, ovvero quella che ha il potere, a fare propri i costumi tipici di altre, cosa che la differenzia quindi dallo scambio culturale, che è ovviamente reciproco.

Chi pensa quindi, ad esempio, che anche le donne nere abbiano fatto appopriazione culturale quando hanno iniziato a indossare delle parrucche si sbaglia: la loro è stata semmai una risposta a chi le ha discriminate e derise proprio per i loro capelli afro, e un tentativo di essere socialmente accettate e inserite in quella cultura che le rifiutava.

Cosa si può fare per non cadere nell’appropriazione culturale allora? Anzitutto, aprire la mente e capire che apprendere nel modo giusto usi e costumi di altri popoli è istruttivo e utile, se integrati al meglio nelle proprie usanze. Del resto, la multiculturalità è sempre esistita e oggi vive una fase quantomai accesa.

In alcuni college degli Stati Uniti vengono affissi volantini come questi.

appropriazione culturale
Fonte: unaltrogeneredirispettoblog

In cui, oltre a spiegare il significato di appropriazione culturale, vengono forniti consigli su come evitare un costume “sbagliato”:

Il tuo costume….

  • rappresenta una cultura che non è la tua?
  • include parole come ‘tradizionale’, ‘etnico’, ‘culturale’ o ‘tribale’?
  • Perpetra stereotipi, disinformazione o inesattezze storiche e/o culturali?

NON INDOSSARLO!

Travestimenti inaccettabili: indossare un copricapo nativo indiano, vestirsi da ‘messicano’ indossando un sombrero, vestirsi da geisha, qualsiasi tipo di blackface.

Ma un comportamento corretto è anche quello di istruirsi rispetto alle origini e al significato culturale di un accessorio che ci piacerebbe indossare, smettendo di fare le cose “solo per moda”.

Sessismo e appropriazione culturale

appropriazione culturale
fonte: web

È piuttosto frequente che all’appropriazione culturale si accompagni il sessismo, soprattutto in alcuni costumi.

Già è piuttosto mortificante notare come, in occasioni quali appunto Halloween, i vestiti da uomo si chiamino tutti “indiano” o “infermiere” , mentre nella quasi totalità dei casi nelle versioni al femminile si ha l’aggiunta dell’aggettivo “sexy”; insomma, è assai facile che i costumi e i travestimenti usati dalle donne abbiano il secondo fine, nemmeno troppo nascosto, di sessualizzarle, acuendo dei dettagli o rivedendoli in una chiave decisamente sensuale, cosa che ancor di più è umiliante per la cultura a cui fa riferimento. Anche nei vari siti di e-commerce, del resto, molto spesso si trovano rappresentazioni sessualizzate di costumi tradizionali completamente decontestualizzati dalla loro cornice naturale.

Una precisazione, però, va fatta, e risponde alla domanda: “Se mi volessi vestire da Jasmine, del film Aladdin? Sarebbe sconveniente indossare quel costume o scurirmi la pelle?”. La risposta, in questo caso, è no, perché si sta rappresentando un personaggio, non un’etnia. Lo stesso discorso vale, ad esempio, per i cosplayer, che non solo stanno interpretando un personaggio, ma stanno anche portando avanti un omaggio a parte della cultura giapponese (quella pop) che bisogna necessariamente conoscere a fondo per fare cosplay.

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