Corpi nudi e stigma sessuale: una lunga storia. Eppure un c*lo è solo un c*lo

Lo slut shaming (letteralmente "lo stigma della puttana") è infatti quel procedimento per cui giudichiamo un corpo e i costumi che adotta, tacciandolo di poca serietà e farlo, spesso, fa proprio sentire "dalla parte giusta", da quella corretta della barricata ideologica che ci hanno fatto credere esista, in una fittizia gerarchia femminile che in verità non c'è mai stata.

“Guarda quella come si è vestita, è proprio senza pudore”

Se avete letto, sentito, detto o ricevuto questa frase vuol dire che avete ben presente la sensazione di rabbia e disagio che queste parole trasmettono: sia per chi le pronuncia, sia per chi le riceve. Già, perché solo due cose al mondo sono così immensamente divisive: scegliere tra Take That e Backstreet Boys e il corpo femminile.

E vi giuro, non immaginate quanto vorrei, in questa mia nuova rubrica qui per voi, su Roba da Donne, potervi parlare solo di Mark Owen, ma ahimè non siamo così fortunat*.

Infatti la mia analisi nei prossimi articoli riguarderà tutta quella serie di stereotipi di genere che sono connessi – azzarderei incollati con forza – al corpo femminile.

Il sistema di stereotipi che ci accompagna dalla notte dei tempi ci fa infatti avere un atteggiamento non razionale, giudicante e colmo di pregiudizi morali – che sono sempre collegati agli stereotipi, di qualsiasi tipo essi siano – nei confronti di tutte quelle donne che si allontanano dal “buonsenso comune”.

Questo avviene perché nei secoli si è radicata la credenza popolare per cui una donna consapevole della propria sessualità e sensualità non possa necessariamente essere una buona madre/moglie/figlia/collega/capa/sconosciuta.

Il discorso ha, come accennavo, radici lontane e profondissime, che ricordano le prime società patriarcali che vedevano la donna angelo del focolare, con un carattere dismesso e obbediente. Il controllo sul corpo femminile si è poi evoluto con la società stessa: dai test per provare la “verginità” delle ragazze in età da marito all’esporre il lenzuolo della prima notte di nozze, macchiato di sangue, per dimostrare la purezza della sposa; dalle leggi restrittive sull’aborto e sul divorzio al famigerato “delitto d’onore”, che voleva l’assoluzione per l’uomo che avesse commesso femminicidio in seguito ad un tradimento o a un’onta ritenuta irreparabile, che è stato abolito dal nostro stato solamente nel 1981 (se provate a contare, sì: è davvero molto vicino nel tempo e sì questa cosa fa davvero molta paura).

In questo quadro preoccupante in cui l’evoluzione per l’emancipazione è lenta e ancora perniciosa, proprio perché questi stereotipi sono stati così forti da riflettersi nelle regole sociali scritte (come il delitto d’onore, il divorzio e l’aborto legalizzati così tardi provocando la morte di tantissime donne) e non scritte (le opinioni che trapelano dai giornali e dai media, gli insegnamenti familiari e scolastici, le regole non scritte di un insieme di persone come collegh*/amic*/conoscenti), è davvero difficilissimo scrollarsi di dosso il senso di inadeguatezza costante che avvolge i corpi femminili.

Parlo non solo di una continua richiesta di perfezione corporea inesistente, ma soprattutto del rispetto di una rigida disciplina di codici che ingabbiano la donna in ogni suo slancio verso l’autodeterminazione e la ricerca di individualità non dogmatizzata.

Ma cosa succede alle donne che non rispettano questi schemi e si vestono in modo più succinto di ciò che è moralmente accettato o se hanno più partner sessuali o se non rispettano dei canoni che mai – e ripeto, MAI – abbiamo scelto di avere? E, nello specifico: cosa succede quando una donna mostra il proprio corpo?

Succede che il pregiudizio di cui vi parlavo prima prende la meglio e si innesca un meccanismo escludente e giudicante nei confronti della morale e delle capacità di chi sfida le convenzioni stereotipate.

Lo slut shaming (letteralmente “lo stigma della puttana”) è infatti quel procedimento per cui giudichiamo un corpo e i costumi che adotta, tacciandolo di poca serietà e farlo, spesso, fa proprio sentire “dalla parte giusta”, da quella corretta della barricata ideologica che ci hanno fatto credere esista, in una fittizia gerarchia femminile che in verità non c’è mai stata.

In questo senso, si attua un’eliminazione del soggetto problematico dalla sfera decisionale, umiliandone i costumi e l’intelligenza, riducendolo a una macchietta. Questa è, ne più ne meno, una forma di controllo nei confronti di un intero sesso e avviene in ogni momento della nostra vita, da quando scegliamo il rosa ed i giochi “da femmine” a quando copriamo il nostro corpo o non baciamo al primo appuntamento per “sembrare delle ragazze serie”, quando subiamo uno stupro che per forza di cose ce lo saremo “andate a cercare” o a seguito del quale l’opinione pubblica si chiederà cosa stessimo indossando o se avessimo o meno bevuto alcolici o assunto droghe.

Il centro di tutto questo discorso discriminatorio è sempre uno solo, ovvero il corpo femminile.

Croce e delizia, campo di battaglia e terra promessa, sacro e profano, il corpo delle donne è sempre stato argomento di discussione e colpevolizzazione (addirittura, nella condivisione non consensuale di materiale intimo sarebbe, per alcun* e ahimè la maggioranza, il casus belli del reato stesso) soprattutto quando nudo o semi. La lotta femminista ha da sempre cercato di depotenziare questo senso di svalutazione imposto dalla società patriarcale (che si basa e procede per stereotipi) con movimenti di liberazione sessuale e di costume anche di impatto, come quello delle Femen o delle Pussy Riot.

Negli ultimi anni (per la precisione, a partire dalla fine dei ruggenti ’80)  si è sviluppato un filone di pensiero femminista chiamato “sex positivity” che mira a scollegare e liberare i corpi dallo stigma e a validarli in ogni loro forma, costume, dimensione, colore, professione e abilità. L’importanza di questo movimento la si individua come necessaria ogni volta che una vittima di violenza di genere subisce attacchi personali o svilenti e vede svanire la possibilità e la voglia denunciare (dopotutto, pensando al caso Genovese e all’infinita cattiveria riservata alla vittima, non biasimo chi non trovi il coraggio di esporsi in  con il rischio di subire lo stesso trattamento nonostante non si abbia alcuna colpa), una ragazza in costume o lingerie viene assalita sui social media da persone che la insultano o le inviano foto di genitali maschili non richieste, ogni volta in cui sibiliamo un’offesa cattiva sulla base dell’abbigliamento di un’altra persona.

Nei prossimi articoli voglio parlare con voi di come un corpo debba ritornare a essere soltanto un corpo e di come la sessualità, liberata da regole che non ci sono mai appartenute, sia un mezzo incredibile per scoprire inclusione, rispetto e sorellanza.

Perché insomma, dopotutto è soltanto un corpo.

Dopotutto un culo è sempre, solo, unicamente un culo.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!
  • Femminismo e femminist*