Ormai il verbo inglese to explain, ovvero spiegare, viene usato in combinazione con sostantivi diversi, per andare a indicare fenomeni sociologici in cui una certa categoria di persone si sente in diritto (o in dovere) di dover spiegare cose ad altre, pur essendo queste ultime sicuramente più competenti o coinvolte nell’argomento.

Vari esempi sono il mansplaining (uomini che spiegano cose alle donne, ben illustrato dal libro di Rebecca Solnit), il whitesplaining (i bianchi che spiegano ai neri perché dovrebbero sentirsi discriminati) e l’ablesplaining, che è proprio ciò di cui parleremo in questo articolo.

Che cos’è l’ablesplaining?

Per capire meglio di cosa stiamo parlando, possiamo leggere il post dell’attivista e atleta paralimpica Sofia Righetti, che abbiamo intervistato, che spiega alla perfezione qual è il problema alla base dell’ablesplaining.

ABLESPLAINING: riconosciamolo e difendiamoci. 🇮🇹 Ableismplaining: quando una persona abile, con paternalismo e...

Pubblicato da Sofia Righetti su Domenica 22 settembre 2019

In sostanza, chi pratica ablesplaining è la persona abile, normodotata, che, in maniera paternale e con condiscendenza, spiega alle persone con disabilità quali sono i loro diritti e persino quando e con che modalità dovrebbero arrabbiarsi, quando devono sentirsi discriminate e cosa possono pretendere dalla società.

Davvero un bel modo  per parlare di cose che, evidentemente, non si possono conoscere non vivendo la situazione in prima persona, e che rappresenta una forma come un’altra di discriminazione nei confronti delle persone con disabilità.

Fra gli esempi più evidenti di ablesplaining figurano frasi come “Io ho tanti amici disabili”, oppure “Fidati, so bene di cosa parlo”, “Sono molto sensibile al tema”, che presuppongono tutte la medesima cosa: il rifiuto di ascoltare davvero la persona che ci troviamo di fronte.

Ablesplaining e abilismo

Si può dire che l’ablesplaining sia senza dubbio una faccia dell’abilismo, con il quale si intende un atteggiamento discriminatorio rivolto alle persone con  disabilità, per cui si presuppone che tutte le persone abbiano un corpo abile, con la conseguenza di avere luoghi inaccessibili o servizi scadenti per queste ultime, le quali dovrebbero considerarsi “grate” qualora riescano a ottenere quelli che, a tutti gli effetti, sono invece diritti primari e indispensabili.

A tal proposito, non possiamo non menzionare la lunga battaglia intrapresa dalla nostra Giulia Lamarca per poter volare senza disagi.

Il corpo della persona con  disabilità riceve due reazioni solo apparentemente opposte: pietismo o eroismo. Il che significa, da un lato, ridurre tutto a un “poverin*” nei suoi confronti, dall’altro celebrare in maniera eccessiva qualsiasi gesto normale della persona con disabilità, interpretandolo come un successo. Anche frasi come “Che coraggio”, “Che forza d’animo” sono quindi discriminatorie, per quanto possano invece sembrare apprezzamenti benevoli.

Il motivo è presto detto: agendo in questo modo si rischia di ridurre la persona, e la personalità di conseguenza, solo al fatto di avere una disabilità, e di considerarla esclusivamente in quanto tale; che è poi la ragione per cui il corpo delle donne con disabilità sia praticamente spogliato di ogni connotazione erotica o sessuale, tanto che, come ci ha spiegato la stessa Sofia Righetti nell’intervista, molte donne con disabilità arrivano persino a invidiare il catcalling rivolto alle normodotate.

Questo comportamento viene definito dalla giornalista e attivista Stella Young Inspiration Porn (pornografia motivazionale), che consiste nella rappresentazione ostentata delle persone con disabilità come fonte d’ispirazione, solo per il fatto di avere una disabilità. Un esempio su tutti? Alex Zanardi o Bebe Vio. 

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C’è un ulteriore aspetto, citato sempre da Righetti, ovvero la retorica del Super Cripple, letteralmente “il super storpio”, che non è altro che

uno stereotipo che la società ha creato sulle persone con disabilità, per poterle includere ed accettare. Si ritiene che le persone con disabilità siano sempre straordinarie, che qualsiasi cosa facciano debba essere eroico, fuori dal comune, letteralmente delle imprese eccezionali.
[…] questo crea una grossa ansia nelle persone con disabilità, perché fin da subito si sentono in dovere di eccellere, di dimostrare di poter fare cose eccezionali, di dover lavorare e impegnarsi il doppio rispetto ai normoabili per essere considerate, altrimenti passano nella zona grigia dell’invisibilità.

Eppure non tutti hanno lo sbatti di vincere le medaglie di Zanardi o della Vio, non tutti hanno le possibilità socio-economiche di pagarsi gli allenamenti o di viaggiare in giro per il mondo.
Lo stereotipo del super cripple crea ansia, inadeguatezza e aspettative troppo alte, che non sono richieste alle persone non disabili. […] Ma le prestazioni eccezionali sono appunto, un’eccezione. Rivendico il mio diritto di essere disabile e mediocre, e di non dover dimostrare una beata minc*** a nessuno per avere valore.

In questo contesto si inserisce l’ablesplaining, che si evidenzia quando, ad esempio, parliamo delle esigenze delle persone con disabilità senza neppure chiedergliele realmente, oppure nel momento in cui a conferenze sul tema i soli a parlare sono medici e caregiver.

È esattamente la stessa cosa di quando gli uomini parlano di molestie contro le donne, senza lasciarne intervenire una (vedasi la polemica di Valeria Parrella allo Strega 2020), o quando sono i bianchi a voler parlare dei diritti dei neri.

Ragioni e cause culturali dell’ablesplaining

C’è un’associazione fra la disabilità e il senso di commiserazione o il pensiero che le persone che hanno una disabilità siano “sfortunate” che è di natura culturale.

Proprio come altre forme di discriminazione, anche l’ablesplaining parte dal presupposto che ci sia qualcuno posto in una posizione “migliore” e quindi deputato a parlare per tutti, anche non conoscendo in profondità l’argomento di cui si parla; è successo, storicamente, con le donne, relegate ai margini della società, con i neri, sottoposti a secoli di schiavitù, e ovviamente non è diverso per le persone con disabilità, che un tempo erano semplicemente equiparate a reietti da rinchiudere (per non parlare di quelle che finirono nei campi di sterminio nazista, perché naturalmente giudicate inidonee a rappresentare la perfezione della razza ariana).

Il motivo fondante che accomuna tutte le forme di “x-splaining” è appunto quello: c’è una maggioranza, generalmente predominante per ragioni storiche e sociali, che sente di avere il potere di parlare per tutti. Anzi, sente di avere il potere di spiegare a una certa categoria di persone come dovrebbero comportarsi, con quali modalità e in quali occasioni.

Perché l’ablesplaining va combattuto

Il  motivo è piuttosto elementare e semplice: dobbiamo lasciare la possibilità alle persone con disabilità di scrivere la propria storia, di lottare per ciò che ritengono giusto e di considerarsi offese laddove vogliano, senza che nessuno, fra i normodotati, debba “indicare loro la strada”.

Il punto di partenza è ovviamente l’abbattimento dell’abilismo, che finalmente spoglierebbe le persone con disabilità da quella dicotomia “poverino/eroe” che deve per forza incasellarli sotto una certa etichetta o impone loro di dover suscitare emozioni negli altri (ovviamente normodotati).

Super cripple e inspiration porn devono lasciare spazio a una presa di coscienza tanto basilare quanto fondamentale: le persone con disabilità non sono tenute a fare qualcosa di eccezionale per dimostrare il proprio valore, e allo stesso tempo non hanno bisogno dell’approvazione dei normodotati quando compiono le azioni più elementari. Non c’è bisogno di considerare “eroica” una persona con disabilità che va a fare la spesa da sola, non c’è bisogno di giudicarla necessariamente una “fonte di ispirazione” se decide di partecipare all’Iron Man, come Zanardi.

Se davvero si vuol costruire una lotta intelligente e che serva a tutti, sarebbe importante unirsi, normodotati e persone con disabilità, per superare l’abilismo e, con esso, le barriere architettoniche, ma anche culturali, che impediscono talvolta a queste ultime di vivere davvero la vita che vogliono.

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