Veronica Diquattro di Dazn: "Noi donne che stiamo conquistando il mondo dello sport"

La parità di genere nelle professioni sportive? Per Veronica Diquattro, Executive Vice-President di DAZN per il Sud Europa, non più una chimera, ma un processo iniziato e inarrestabile, che fa bene all'economia e al successo del settore stesso.

Non le chiedo l’età, e non perché penso sia di cattivo gusto domandarlo a “una signora”, che mi sembra semmai un tabù da superare. Non gliela chiedo perché non mi interessa, anche se appena la incontro penso che per lei deve essere stato difficile imporsi professionalmente più di quanto già normalmente non lo sia per le donne in generale: non solo opera in un ambito considerato maschile, ma è una bella donna e sembra giovane, due cose che rischiano di complicarti ulteriormente le cose.

D’altra parte Veronica Diquattro, Executive Vice-President di DAZN per il Sud Europa, quindi responsabile per il mercato Italia e Spagna del servizio di streaming sportivo, è una che si è costruita da zero, con la pervicacia di chi non si fa intimidire.

La leadership femminile nel lavoro sportivo e che ruoto attorno allo sport è ancora un’eccezione?

Sì, a livello sportivo in generale e, soprattutto, nel calcio.
Si sono fatti dei passi avanti negli ultimi anni, però è chiaro che è ancora un percorso in divenire. Giusto per fare un esempio, la prima donna FIFA è arrivata nel 2013 e i ruoli dirigenziali al femminile si contano ancora sulle dita delle mani.
Cosa significa? Da una parte c’è la consapevolezza che il processo è iniziato, dall’altra la necessità di lavorare ancora molto per un cambio culturale, dare visibilità ai talenti femminili che ci sono, a tutti i livelli (club, federazioni, imprese e organi vari), e favorirne l’inclusione, che è ormai indispensabile allo sviluppo di tutto il settore.

Lei ricopre un ruolo che in molti penserebbero come maschile e ci è arrivata con un percorso non esattamente convenzionale. Ce lo racconta?

Dopo gli studi, ho lavorato per un po’ di anni in Sudamerica nel settore turistico e da lì mi sono poi spostata a Dublino dove ho lavorato per diversi anni per Google e ho iniziato a costruire le mie competenze in ambito digitale. Da lì ho avuto l’opportunità di ritornare in Italia per guidare e seguire il lancio di una realtà come Spotify, con un percorso incredibile durato sette anni che mi ha portato a guidare tutta la regione del sud est Europa. Da lì, ho cercato di portare innovazione in un settore diverso ma con lo stesso modello di business, puntando cioè a creare nuove abitudini di consumo in questo caso nel settore sportivo, spostandomi in DAZN.
Come ha detto lei, il settore sportivo come del resto quello tecnologico possono essere visti ancora come maschili, e non nego che nei primi anni la mia presenza a tavoli importanti a qualcuno ha fatto alzare le sopracciglia. Soprattutto perché ero giovane. Quello che ho fatto è stato sicuramente cercare di costruire la mia credibilità, focalizzandomi sui fatti e sui risultati e devo dire che questo è stato percepito, valorizzato e secondo me ha anche aiutato a portare degli esempi concreti di come la diversity possa effettivamente favorire le realtà industriali e il loro sviluppo.

Parliamo dello sport maschile per eccellenza, almeno in Italia, ovvero di calcio. Abbiamo in realtà una squadra femminile molto forte, che però è ancora assolutamente sottovalutata, anche quando dà risultati migliori (mi riferisco ai Mondiali). Sappiamo entrambe che una delle ragioni è che, indubbiamente, muove molti meno soldi. Ma le chiedo: crede ci sia la possibilità da questo punto di vista di un concreto cambiamento negli anni a venire?

Secondo me sì, nel senso che i primi passi sono stati fatti e lo abbiamo visto anche con i numeri: il Mondiale femminile ha registrato un audience incredibile di 314 milioni. Questo si è anche accompagnato con una crescita del numero di donne che si sono avvicinate al mondo del calcio: dal 2014 ad oggi quasi più del 10% di nuove atlete. Questi sono tutti segnali che stiamo andando nella direzione giusta. Lo stesso emendamento che è stato inserito nella legge di bilancio del 2019 e che ha finalmente riconosciuto il titolo di atlete professioniste alle donne in tutti gli ambiti sportivi (cui ha fatto seguito l’annuncio della FIGC che entro la stagione 2022/2023 le calciatrici diventeranno tali) è un passo concreto in questo senso. Quindi io sono fiduciosa che questo percorso sia iniziato e inarrestabile.

Credo ci sia anche un altro stereotipo da abbattere, ma sicuramente lei può dirmi se è tale avvalendosi dei numeri. Parliamo del pubblico sportivo: si tende a pensarlo maschile, ma è davvero così o le tifose ci sono eccome?

Confermo lo stereotipo. Il calcio femminile, per esempio, è seguito per il 54% dagli uomini e per la restante parte da donne, una fetta importante e in crescita. Così come anche tutti gli altri sport femminili, dalla boxe alla ginnastica, sono seguiti anche dal pubblico maschile. Iniziamo davvero a vedere una parità sia di audience, sia in termini di crescita di tutte le discipline femminili che stanno raggiungendo numeri che in passato non pensavamo possibili.

A cosa dobbiamo questa spinta alla parità?
Si sta creando un circolo virtuoso, che deve essere messo in atto da tutti gli operatori del mondo dello sport.
Mi spiego meglio: quanta più visibilità tu dai a queste discipline, tanto più avrai attenzione in termini di audience e, quindi, tanto più riuscirai ad avere sponsor e risorse che ti permetteranno di continuare ad investire in questi settori, continuando a far crescere il meccanismo in una maniera sostenibile.

Parliamo dell’altro aspetto della diversity: negli ultimi anni si è assistito a un interesse crescente per gli sport praticati da atleti con disabilità. Merito anche di alcuni personaggi come Bebe Vio o Alex Zanardi, che sono diventati davvero figure ispiratrici per tutti noi, ma forse non solo.

Sicuramente questi atleti sono portatori di valori, che non rappresentano soltanto i valori fondamentali del mondo dello sport – quindi l’impegno, la perseveranza, la determinazione nel superare le sconfitte -, ma un atteggiamento alla vita. Chiaramente c’è un interesse che va al di là delle competenze e delle performance di questi atleti, che pure sono innegabili e vanno valorizzate anche in quanto tali.

A questo proposito, tornando al tema delle donne nello sport, è successo negli ultimi anni qualcosa di simile: abbiamo visto figure sportive femminili imporsi non solo o non tanto per le loro competenze sportive innegabili, ma per le loro storie considerate d’ispirazione. È giusto che lo sport che riguarda le donne e le persone con disabilità sia a volte spinto più dalle vicende personali che dalle performance?

Sicuramente raccontare le storie che ci sono dietro, quindi le storie personali, contribuisce a dare valore anche ai risultati e a raccogliere maggiore attenzione sulla tematica femminile in questo momento. Quindi ha ragione: questo succede e, pur riconoscendone i limiti, credo sia anche importante, perché come sempre quando si devono sradicare degli stereotipi bisogna fare leva su storie in grado di conquistare la visibilità e che aprano la strada a una normalizzazione del discorso sportivo femminile o con disabilità. E poi queste storie servono alle nuove generazioni: permettono alle bambine di identificarsi, a rendersi conto che è possibile praticare uno sport, riconoscersi in un modello che le rappresenta finalmente davvero. Quindi secondo me sì, fa tutto parte dello stesso sistema che contribuisce a creare fermento, consapevolezza e attenzione sul tema della leadership femminile nel mondo sportivo.

Ovviamente la parità sarà raggiunta quando non ci sarà bisogno di grandi storie ispirazionali per interessarsi a una sportiva o ad atlete/i con disabilità. Nel frattempo, questa rincorsa a colmare un gap, come la vede? Vicina, lontana?

Inarrestabile. Non sarà un cambiamento rapido, ma ormai le aziende che vanno in quella direzione – come la mia – hanno dimostrato di avere anche un vantaggio competitivo nel poter dare voce e raggiungere un’audience diversificata, di essere più competitive sul mercato nazionale e internazionali, di creare sinergie con settori diversi e fare innovazione.

Cosa direbbe a una bambina (ma anche a un bambino), per supportarla nell’immaginare il suo futuro.

Di non mettersi limiti, di credere in se stessa, di lavorare alla costruzione della consapevolezza del proprio valore e della propria autostima.

Soprattutto nelle giovanissime l’autostima è qualcosa di fondamentale, che deve essere coltivato e invece spesso viene dato per scontato. È l’autostima che ti permette di prenderti dei rischi, di uscire dalla comfort zone ed esporti, ed è solo così che si possono ottenere grandi risultati.

Quando si è piccoli non si ripete mai abbastanza: credi in te stessa e in quello che sai fare.

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