“Bisogna prendere le distanze dalla parola normale. 
Cosa vuol dire normale? Chi ha definito la norma? Un conto è la norma scientifica o norma statistica, che fissa un parametro necessario; ma la norma sociale, sessuale, familiare, qual è? Chi l’ha decisa e con che diritto?”.

Il tema dell’intervista è l’inclusione e la diversity nella comunicazione e, posto che per dialogare è fondamentale fissare un codice comune, Simona Maggini, Country Manager WPP Italia e CEO VMLY&R Italy, inquadra chirurgicamente la non-norma come parametro fondamentale per parlarne.

Maggini ha il piglio risoluto della manager focalizzata all’obiettivo e un’attitudine, per certi versi naturale ma in parte . si può ipotizzare – sviluppata negli anni, a far valere la propria voce e spogliare le parole della retorica facile dell’emotività.

Comincia ripercorrendo il suo percorso lavorativo dandone, per sua stessa definizione, “una scheda tecnica e sintetica, al netto delle emozioni”: un’esperienza ventennale nella comunicazione, il cui percorso più  significativo si gioca in quella che un tempo era Young and Rubicam e oggi è VMLY&R e, quindi, parte del Gruppo WPP (comunque la si chiami stiamo parlando di un’eccellenza riconosciuta a livello mondiale nel settore). Maggini individua poi la chiave di volta e di svolta della sua crescita professionale nell’esperienza all’estero, precisamente nell’Est Europa e in Russia: “Un mercato molto diverso, anche culturalmente parlando, dalle tradizionali mete professionali del marketing inteso in ottica occidentalo-centrica”.

E proprio da qui partiamo:

Donne che ricoprono ruoli apicali in holding internazionali come lei sono, purtroppo, ancora un’anomalia in Italia.
Possiamo raccontarci la storia del “non è più come una volta”, il che è vero in parte, ma ciò non toglie che la parità sul lavoro sia ancora lontana a venire: i numeri del gender gap e delle donne nei luoghi che contano parlano chiaro.
Qual è la sua esperienza a riguardo?

Parto dal contesto generale: sicuramente l’Italia ha una situazione più negativa di altri Paesi rispetto al tema donne e lavoro.
Nonostante non ci piaccia ammetterlo questo gap è da ricondurre, tra i vari fattori, anche all’enorme peso della dimensione culturale: l’impostazione della società italiana è maschilista per certi versi, ma anche matriarcale, nel senso che il ruolo della donna nella famiglia è predominante. La donna, per dirla in termini di marketing, è il pillar del ménage familiare: gestione organizzativa, acquisti, lavoro, tutto ruota attorno a lei.

Questa ‘grandezza’ culturalmente attribuita alla donna, però, in ambito lavorativo diventa un limite, non solo pragmatico – perché al di là dei benefit offerti in genere dai grandi gruppi, il sistema Stato non dà sostegno reale alla famiglia – ma anche psicologico.

Personalmente, non posso nascondere che, da, donna mi sono trovata ad affrontare le stesse situazioni che affrontiamo un po’ tutte, quando decidiamo di essere mamme lavoratrici e, in particolare, se abbiamo ambizioni di carriera. Probabilmente ho solo avuto la fortuna di avere un reale sostegno familiare da parte non solo dei nonni, ma anche di mio marito – cosa che a molte di noi manca – ma ho pagato il discorso emotivo, di cui si parla poco.
Per una donna italiana è culturalmente difficile accettare di ‘delegare’ i figli ad altri, non penso solo a baby sitter e professionisti estranei, ma spesso anche agli stessi famigliari: ammetto è stato anche un mio bias più o meno inconscio.
A mio vantaggio è andato anche il supporto dal punto di vista lavorativo: il nostro settore già prima della pandemia aveva un suo livello di flessibilità intrinseco; in più ho avuto la fortuna di avere un capo che mi diceva “non mollare, supera i tre anni; se lasci poi te ne penti!”. Aveva ragione: ma ci sono stati un paio di anni molto difficili per stanchezza fisica e mentale. E per molte donne può diventare un inferno.

Ecco, appunto, parliamo di pandemia: ha peggiorato le cose e, in ottica di parità, ci ha fatto fare un salto indietro di anni.
Il famoso dato Istat sulla disoccupazione a dicembre 2020 – su 101mila posti di lavoro persi, 99mila erano occupati da donne – è tristemente esplicativo.
Le donne sono state richiamate ai lavori di cura e gestione di figli, mai abbandonati peraltro, però senza la scuola hanno dovuto sopperire anche a quegli spazi.

È l’esemplificazione del fatto che siamo una società patriarcale con un’idea matriarcale della famiglia. Il problema è culturale. Dobbiamo dare alla società moderna modelli nuovi, basati sull’alternanza e l’alleanza uomo-donna, se si parla di famiglie tradizionalmente intese, ma bisogna tenere ben presente che anche questa idea di famiglia è insufficiente e non rappresenta più ciò che siamo.
D’altra parte non bisogna fare l’errore di pensare che si possa uscire da questo tradizionalismo senza fare i conti con il fatto che l’Italia non è fatta solo da Milano, Roma e Torino, ma da tantissimi paesini di provincia in cui sono proprio le donne stesse spesso a non sapere di essere limitate da un sistema, né di doverlo combattere.
Attenzione, non sto dicendo che ogni donna deve lavorare o aspirare alla carriera: si può legittimamente scegliere di stare a casa o fare altro, ma deve essere una libera scelta, libera da costrizioni sociali, alla stregua di quello che potrebbe fare un uomo, senza differenze.

Servono nuovi modelli, dice, che necessariamente passino anche per la rappresentazione.
La pubblicità, la comunicazione aziendale, il marketing, lo sappiamo bene, in questo senso creano mondi e sono determinanti in ottica di creazione o superamento di stereotipi.

Sì, ed è un senso di responsabilità che ci sentiamo addosso, anche se bisogna sempre tenere presente che il nostro è un ruolo che agisce su commissione e su terreni che sono di natura più commerciale e tecnica che sociale.
Negli ultimi anni in Italia la comunicazione si è persa delle opportunità: pur agendo per obiettivi commerciali, la possibilità di creare dei modelli di comportamento più virtuosi ci sarebbe stata, anche laddove abbiamo visto ancora tanti stereotipi in fatto di rappresentazione della donna, della famiglia, della bellezza…
Gli stereotipi sono una tecnica di comunicazione: dovendo andare per sintesi è normale creare modelli, ma a questo punto bisogna fare un’opera di decostruzione e ricostruzione di modelli meno statici e più fluidi, capaci di cambiare, di raccontare la realtà in maniera variegata, inclusiva e, soprattutto, reale.

In che senso reale?

La comunicazione e la pubblicità hanno creato negli anni Ottanta e Novanta modelli aspirazionali o mondi ispirazionali che non esistono. Bellezze perfette, famiglie sempre felici… Non hanno fatto da specchio alla realtà: si è creato un mondo di finzione che la società ha preso a misura del proprio successo.

In WPP Italia è stato creato nel 2020 il WPP D&I Board, dove D sta per Diversity e I per Inclusion, con l’obiettivo di promuovere la diversità all’interno dei team e non solo nella comunicazione verso l’esterno. Perché questa scelta?

Partiamo dal presupposto che quello della comunicazione è un settore privilegiato, che ha visto nella diversità, da sempre, una ricchezza.
Ma nessuno di noi, in quanto individui cresciuti in una società con un’educazione di un certo tipo, è esente da inconscious bias. Il WPP D&I Board prevede attività e consulenze esterne quindi, per definizione, non coinvolte e neutrali, e lavora in questo senso. In paricolare ci stiamo interrogando su come il linguaggio possa esser usato in modo virtuoso e non vizioso come spesso accade, basti pensare agli epiteti involontari che spesso usiamo o agli errori anche nel linguaggio visivo (es. la classica scena della mamma che lava i piatti).
Torniamo sempre al discorso che la formazione è fondamentale: è importante dare alle persone gli strumenti per fare scelte consapevoli. La cosa peggiore che, a mio parere, può accadere a un essere umano, non solo donna e non solo in ambito lavorativo, sia fare scelte forzate, per mancanza di alternative e di supporto.

Questo approccio nasce nel solco del progetto WPP Italia del 2017, Winspire, nato per per supportare e promuovere i talenti e la leadership femminili…

In WPP Italia, da tempo stiamo lavorando a programmi pratici che hanno l’obiettivo di fornire, all’interno degli orari lavorativi e gratuitamente, quindi senza richiedere ulteriori sforzi, tutta una serie di attività: training, coaching, mentoring per aiutare lavoratori e lavoratrici a superare i limiti psicologici autoinflitti o socialmente inflitti. Nel 2017 con Winspire siamo partiti con le donne, tema caldo nel nostro Paese, ma parlare di inclusione significa guardare a molte più categorie o, semplicemente, a molte più persone e agire su più livelli di discriminazione. Il Campus di Milano, appena inaugurato, lavora in quella direzione, è manifestazione concreta di inclusione, per come è stato pensato e realizzato. Poi non possiamo ovviamente sostituirci al sistema Paese e Governo, da cui servono risposte concrete.

Questa formazione interna ricade poi, ovviamente, anche sull’esterno.

Promuovere la diversity e l’inclusion nel team significa creare una cultura della diversità e dell’inclusione che porti a maggiore innovazione e creatività nei progetti esterni, quindi sì. Mettere a disposizione delle nostre persone un Campus nato per incrementare sinergia e collaborazione contribuirà a sviluppare innovazione ed eccellenza. Poi, torno a ribadire, noi lavoriamo tendenzialmente per aziende e l’obiettivo è quello, forse apparentemente meno nobile, ma necessario di vendere. Non va dimenticato.

E veniamo infatti ai temi del pink/ green/ white/diversity washing o woke washing in generale: cioè quando le aziende vengono accusate, spessoa ragione, di cavalcare istanze e cause sociali che non hanno sposato solo per capitalizzarle a proprio vantaggio.

Le aziende non fanno beneficienza, quindi è ovvio che la coscienza sociale sia più avanti di alcuni brand; tanto più che le aziende sono fatte di persone che, come avviene nella vita di tutti i giorni o in politica, hanno idee e valori diversi: alcune credono in determinati valori, altre no.
D’altra parte inclusione significa comprendere l’importanza di un modo di lavorare – e nel nostro caso di fare comunicazione – etico e necessario; ma a volte è importante fare un passo indietro.
Bisognerebbe, di regola, comunicare solo quando si è pronti ovvero:
a) quando si è profondamente convinti del messaggio che si dà;
b) quando si è in grado di farlo, usando il giusto linguaggio, verbale e non;
c) quando quello che si comunica corrisponde alla realtà.

Ultima domanda: oggi ha ancora senso parlare di comunicazione e linguaggi reali da una parte e virtuali dall’altra come di due mondi distinti?

Mai come adesso, e intendo in questo frangente in cui si convive con una pandemia, queste dimensioni si sono fuse in un percorso che nel settore chiamiamo seamless, senza soluzione di continuità. La pandemia ha dato una spinta all’e-commerce e alla digitalizzazione. Prima c’erano le persone che acquistavano prevalentemente o quasi esclusivamente in store e quelle che lo facevano soprattutto o solo via e-commerce: oggi, non è più così, ma era un’evoluzione già in essere.

Il ragionamento di marketing e comunicazione non può da tempo essere divisivo in questo senso: oggi nel settore parliamo di data-driven creativity, di tecnologia e dati al servizio della creatività. Significa mettere davvero al centro le persone, le loro esigenze e, quindi, anche i loro valori. Come dicevamo prima: rappresentare la realtà, che è molteplice e in continuo mutamento.

È una sfida e noi del settore, per primi, navighiamo tra grandi entusiasmi e momenti di smarrimento: ma è un cambiamento inarrestabile e, soprattutto, necessario.

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