Il Lato Oscuro del Marketing: Cos'è il Purplewashing e come riconoscerlo

Il termine purplewashing deriva dalla commistione delle parole inglesi "purple", "viola" (in riferimento al colore tipico del movimento e delle battaglie femministe) e "washing", "lavaggio". Esso si riferisce, dunque, alla pratica - utilizzata da un'elevata quantità di aziende, istituzioni e personaggi pubblici - che consiste nell'appropriarsi del linguaggio, delle lotte e dei simboli appartenenti al femminismo con il mero scopo di migliorare la propria immagine. Vediamo di che cosa si tratta nello specifico.

20Non c’è mai limite al marketing ingannevole. Alla stregua del greenwashing, del pinkwashing e del wokewashing, anche il purplewashing sta, ora, prendendo sempre più piede e sta diffondendo un “femminismo di facciata”, reo di ledere, talvolta in maniera molto profonda e pericolosa, il reale significato delle le lotte per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere.

Vediamo di che cosa si tratta nel dettaglio.

Purplewashing: definizione e significato del termine

Il termine purplewashing deriva dalla commistione delle parole inglesi “purple”, “viola” (in riferimento al colore tipico del movimento e delle battaglie femministe) e “washing”, “lavaggio”. Esso si riferisce, dunque, alla pratica – utilizzata da un’elevata quantità di aziende, istituzioni e personaggi pubblici – che consiste nell’appropriarsi del linguaggio, delle lotte e dei simboli appartenenti al femminismo con il mero scopo di migliorare la propria immagine.

Ne consegue, allora, che non vi siano un impegno e un appoggio concreti alle istanze avanzate dal movimento, bensì solo una strategia di marketing cattivo e illusorio, che intende promuovere in maniera superficiale e transitoria le cause correlate all’uguaglianza di genere e ai diritti delle donne, senza, di fatto, introdurre cambiamenti effettivi, ad esempio, nelle proprie politiche aziendali.

Un fenomeno particolarmente pericoloso perché rischia di svalutare il femminismo reale – riducendolo a un puro elemento estetico o a un trend – e di depotenziare la forte critica sociale di cui esso si fa portavoce – e i suoi temi “scomodi”, come l’aborto, la violenza di genere, il gender pay gap e la disparità di genere -, creando confusione e spaesamento, soprattutto nelle persone più giovani e inesperte.

Differenza tra purplewashing e pinkwashing

Sulla falsariga dei diversi -washing, nei primi anni 2000 ha iniziato a prendere strada anche il cosiddetto pinkwashing, espressione coniata dall’associazione statunitense Breast Cancer Action nel corso del lancio della sua campagna Think Before You Pink. Come si può leggere sul sito ufficiale:

L’idea è quella di contrastare l’immenso numero di prodotti e promozioni con il fiocchetto rosa presenti sul mercato. La campagna chiede più trasparenza e responsabilità da parte delle compagnie che partecipano in raccolte fondi per il tumore al seno, e incoraggia ɜ consumatorɜ a fare domande critiche riguardo le promozioni con il fiocchetto rosa.

Una misura che si è rivelata necessaria dal momento che diverse aziende mettevano, infatti, in bella mostra sui propri prodotti il nastro rosa simbolo della lotta contro il cancro al seno, veicolando il messaggio di essere in prima linea in questa battaglia e con la promessa, quindi, che il ricavato – o parte di esso – sarebbe stato destinato alla ricerca. La verità? Attirare maggiore clientela e migliorare la propria immagine, dando a quest’ultima una “passata di attivismo”.

La fruizione del concetto si è, poi, estesa, andando a significare tutte quelle azioni di comunicazione e marketing che si appropriano dei simboli e delle tematiche proprie del femminismo, in particolar modo relative all’emancipazione delle donne, in maniera opportunistica e mendace, senza correlare a esse un impegno reale nella battaglia per la parità di genere. Con una lieve differenza rispetto al purplewashing, che, come abbiamo visto, si concentra maggiormente sull’utilizzo di temi legati all’uguaglianza di genere, alla lotta contro le discriminazioni e ai diritti delle donne – ma sempre in modo illusorio e “di facciata”.

Come riconoscere il purplewashing nelle campagne di marketing e comunicazione

Ma come si fa a riconoscere un buon marketing da un caso di purplewashing? Riconoscere il purplewashing nelle campagne di marketing e comunicazione richiede, un primo luogo, uno sguardo altamente critico e lucido, che sia in grado di effettuare una disamina non solo di ciò che “si vede”, ma anche di ciò che si cela “dietro” il messaggio.

Nel complesso, tuttavia, i segnali d’allarme tipici di un marketing ingannevole in relazione ai temi dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere sono i seguenti:

  • attivismo limitato a date simboliche, come l’8 marzo e il 25 novembre, seguito da un totale silenzio e da un’assenza di azioni tangibili nel resto dell’anno, cui si correla anche un silenzio concernente i temi più “critici” e la mancanza di presa di posizione circa gli stessi (o, peggio, la presa di posizione c’è, ma solo quando è utile a fini commerciali);
  • uso strumentale di linguaggio e simboli femministi, quali gli slogan “Girl Power”, “We Should All Be Feminist” e affini, e i colori tipici del movimento, ossia il viola e il fucsia, senza che vi sia, però, un impegno concreto e trasparente verso la parità;
  • mancanza di coerenza tra comunicazione e marketing esterni e politiche interne, la quale si evince, in particolar modo, quando un’azienda promuove l’uguaglianza di genere ma presenta, ad esempio, un consiglio di amministrazione composto prevalentemente da uomini, gap salariali significativi o carenza di eque politiche di congedo parentale;
  • assenza di trasparenza e accountability, per cui non vi sono dichiarazioni pubbliche circa azioni effettive riguardanti i diritti delle donne e la parità di genere, non sono pubblicati report su inclusività e diversità e non vi è nessun supporto reale a enti e organizzazioni che sostengono attivamente le istanze femministe.

Esempi di purplewashing: casi studio e critiche

In questi anni, i casi di purplewashing sono stati, purtroppo, molteplici, e hanno suscitato una sequela di invettive molto aspre. Tra le più note, si annoverano:

  • nel 2017/2018, H&M ha lanciato una linea di t-shirt con alcuni slogan afferenti al movimento femminista, come “GRL PWR” e “The Future Is Female”. Diverse indagini giornalistiche, però, hanno rivelato che molte di queste magliette sono state prodotte in fabbriche tessili site in Bangladesh, dove le donne che vi lavoravano erano sfruttate, sottopagate e, spesso, abusate;
  • sempre nel 2017, L’Oréal, nonostante abbia sempre sponsorizzato campagne di empowerment femminile collaborando con testimonial femministe, ha deciso di rimuovere da una sua campagna Munroe Bergdorf, attivista trans e modella nera, dopo un suo post pubblicato su Facebook in cui ha denunciato il razzismo sistemico. L’operazione non è, naturalmente, passata inosservata, e ha sollevato dure critiche nei confronti dell’azienda francese, accusata di ipocrisia e mancanza di reale inclusività;
  • ancora nel 2018, in occasione della Giornata internazionale dei diritti delle donne, McDonald’s ha capovolto la sua iconica “M” in una “W” (iniziale della parola “woman”, “donna”, in inglese), su social media, insegne e packaging. Peccato che, anche in questo caso, molteplici ricerche hanno evidenziato, al suo interno, una forte disparità salariale di genere, assenza di azioni tangibili per il benessere delle lavoratrici, casi di molestie e discriminazione e mancanza di trasparenza nei dati diffusi sul proprio sito.

In questi episodi, e in tutti quelli che si sono verificati negli ultimi anni, si assiste, quindi, a un ricorso a slogan, simboli e colori tipici del movimento femminista senza, tuttavia, che vengano attuati cambiamenti strutturali e concreti all’interno delle aziende, le quali, anzi, si dimostrano, nella pratica, addirittura contrarie a ciò che comunicano e sponsorizzano “di facciata”.

Purplewashing e femminismo: quando l’inclusività è solo una facciata

I casi di purplewashing esaminati fin qui palesano, allora, una strumentalizzazione estremamente preoccupante delle lotte per l’uguaglianza e i diritti delle donne, che mira a trasformare interi decenni di battaglie e attivismo in una serie di sterili e superficiali opportunità commerciali e fonti di guadagno. Quando l’inclusività diviene mera facciata, infatti, si verifica una vera e propria mercificazione del femminismo, in grado di svuotare di significato e valore concetti fondamentali come quelli di empowerment, parità di diritti e intersezionalità e di ridurli a puri slogan e claim accattivanti, privi di sostanza.

Si crea, perciò, uno scollamento tra quello che le aziende comunicano pubblicamente, appropriandosi del linguaggio e dei simboli femministi (si vedano le già citate magliette e gli accessori riportanti frasi quali “Smash the Patriarchy”, “Girl Power” e affini) e con il solo obiettivo di aumentare le vendite, e ciò che, invece, succede al loro interno, dove si perpetuano strutture gerarchiche discriminatorie, disparità salariale e stereotipi di genere.

Si staglia fiera, così, la banalizzazione del femminismo, resa mediante gadget, merchandise e campagne esteticamente attraenti che rischiano di ridurre movimenti complessi e stratificati a mode passeggere e trend di mercato. Senza dimenticare, infine, la grande confusione che queste operazioni generano nel pubblico, soprattutto se giovane e poco avvezzo alle strategie di marketing fallace, il quale può incontrare diverse difficoltà a capire quali realtà abbraccino il vero attivismo e quali, al contrario, attuino un sistema di vendita opportunistico.

L’unica reazione possibile a tale scenario è, dunque, rappresentata dalla resistenza critica: movimenti che promuovono la “feminist washing awareness” ed educano i consumatori a distinguere tra sostegno genuino e appropriazione commerciale. Solo attraverso una maggiore consapevolezza critica, infatti, è davvero possibile preservare l’integrità del movimento femminista e affrancarlo dalle manipolazioni del marketing aziendale.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!