Gender pay gap, perché a rimetterci soldi e benessere non sono solo le donne

La discrepanza nei salari percepiti da uomini e donne non è solo un’ingiustizia e un’inaccettabile discriminazione, ma è anche causa di un sistema economico inefficiente e deteriorante. Scopriamo perché.

Nonostante gli sforzi, la maggior parte di noi è ancora condizionata da bias cognitivi. Soprattutto il mondo del lavoro, leader, da questo punto di vista, per quanto riguarda la discriminazione nei confronti delle donne.

Espressa, quest’ultima, in un modo ben preciso: nella discrepanza tra i salari percepiti dalle donne stesse e quelli riservati ai colleghi maschi (gender pay gap). A essa si affiancano, poi, differenze di trattamento, ostacoli nel proseguimento della carriera, assunzioni a tempo parziale anziché pieno, ingerenze familiari e, in generale, schemi obsoleti di gestione professionale.

Lo dimostra il recente “Gender Policies Report 2021” pubblicato dall’INAPP – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, che ha evidenziato la condizione in cui vige la componente femminile a livello contrattuale. Negli scorsi dodici mesi, infatti, solo il 38% degli 1,3 milioni di nuovi contratti destinati alle donne è stato a tempo determinato, cui seguono il lavoro stagionale (17,7%), la somministrazione (15,3%) e, in ultimo, il tempo indeterminato (con un misero 14,5%).

Una situazione critica ulteriormente peggiorata dal fatto che il 49,6% delle assunzioni femminili è part-time (contro il 26,6% di quello maschile), modalità impiegatizia che si rivela di gran lunga quella più numerosa, in particolar modo nella fascia d’età dei 30-50 anni.

Ma quali sono le cause del gender pay gap? E come può essere superato?

Che cosa significa gender pay gap?

Per gender pay gap si intende la differenza inerente la retribuzione di donne e uomini a parità di mansioni e ruoli. Esso si suddivide in due forme: da un lato, vi è quello “grezzo”, calcolato sulla base della paga oraria (lorda, quindi non ancora privata delle quote di tassazione e contribuzione); dall’altro, vi è il gender pay gap complessivo, che si riferisce anche alla media delle ore mensili retribuite e, in generale, al tasso di occupazione femminile.

In qualsiasi modo lo si interpreti, tuttavia, il divario salariale di genere pone in evidenza il malfunzionamento del mercato del lavoro. Come spiega su la Repubblica Azzurra Rinaldi, economista a capo della School of Gender Economics di Unitelma Sapienza:

Il gender pay gap è un fallimento di mercato, perché in una struttura efficiente, il capitale umano più formato è quello che viene pagato di più. Eppure, nella maggioranza dei paesi, compresa l’Italia, le donne si laureano prima, hanno voti più alti, ma non sono pagate equamente. E questo è dovuto semplicemente al fatto di avere un utero, tralasciando la volontà o meno di riprodursi.

Alla base del gender pay gap, dunque, vi sarebbe una pura e, spesso, malcelata discriminazione di genere, rea di perpetuare uno schema – familiare, lavorativo, sociale – vetusto e totalmente imperniato sull’occupazione maschile, valorizzata a scapito di quella femminile – relegata meramente alla sfera privata e di cura.

Il gender pay gap in Italia

L’Italia ne è un chiaro esempio. Il nostro paese, appunto, «presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa», come ha ricordato il premier Mario Draghi lo scorso marzo, ed è una delle priorità che necessitano di essere perseguite.

Ma a quanto ammonta il divario? Per quanto concerne il gender pay gap “grezzo”, come osserva l’Unione Europea, la discrepanza si attesterebbe intorno al 5%, contro una media del 15%. Ottimo, penserete. La situazione, però, non è rosea come sembra. Se si considera, infatti, il differenziale complessivo, il dislivello aumenta notevolmente, fino a raggiungere il 43,7%, rispetto a una media europea del 39%.

Le cause sono facilmente rintracciabili: da una parte, a pesare vi è l’ingente quantità di impiegati e impiegate nel settore privato, dove il divario salariale è più elevato in confronto al pubblico, e, dall’altra, la preclusione delle posizioni apicali alle donne (il fenomeno del glass ceiling), ossia quelle in cui gli stipendi sono mediamente più alti.

A queste motivazioni si accompagna, poi, il presunto “destino biologico” delle donne: la maternità, ossia il principale motivo di discriminazione nei riguardi delle lavoratrici. Che, quando si concretizza, contribuisce a soggiogare ancora di più le donne a occupazioni part-time, a lavori di cura e, nella maggior parte dei casi, alla sfera familiare tout court, rinunciando, così, ai propri avanzamenti di carriera.

I danni e le conseguenze del gender pay gap

Risultato: le donne, soprattutto se madri,

iniziano a perdere i treni fondamentali per la carriera e vengono escluse da una serie di momenti costruttivi – prosegue l’economista –, al contrario dei padri, che “devono mantenere la famiglia” e per i quali si aprono strade e opportunità di guadagno.

Ma anche senza essere madri, purtroppo, la strada per il conseguimento di posizioni apicali sembra essere, per le donne, fortemente ostacolata. Il quadro che ne consegue è desolante: al vertice della piramide, infatti, vi sono (perlopiù) gli uomini, che, a causa della scarsa rappresentanza femminile negli inquadramenti dirigenziali e quadri, sceglieranno per prossimità, in sede di assunzione, altri uomini. E così via, ad alimentare un eterno e discriminatorio circolo vizioso.

Quella provocata dal gender pay gap è, appunto, una “discriminazione sistematica” e strutturale, che tende a rimarcare leggi ed esigenze del mercato imposte da chi, quel mercato, lo ha plasmato fin dai suoi esordi: ovvero, ancora una volta, gli uomini. Senza considerare, però, gli enormi danni che una visione di questo tipo apporta all’economia stessa, di cui comporta una generale condizione di inefficienza e obsolescenza.

Il motivo risiede nel fatto che la conformazione del mercato del lavoro finora adottata non ha permesso il germogliare di nuovi paradigmi professionali, portando a una visione lineare di consumo a crescita infinita che, come sappiamo, non risulta più essere sostenibile. Come precisa Rinaldi:

A pensarci bene, la globalizzazione non è femmina, nel senso che ha un ritmo di produzione testosteronico e ormai ha stordito tutti: consumatori e consumatrici. E ha portato a conseguenze disastrose: delocalizzazione, sfruttamento dei lavoratori, inquinamento ambientale.

Gender pay gap: come superarlo?

Come fare, dunque? Una soluzione idonea potrebbe essere introdurre, nel mercato e nei sistemi di produzione, un’economia “circolare”, in grado di generare consumi consapevoli e un sistema attento ai valori di cura ed empatia.

E, soprattutto, è necessario sviluppare una maggiore flessibilità, tale da condurre non solo le donne, ma anche gli uomini a poter bilanciare equamente ambizioni professionali e responsabilità familiari, incrementando orari part-time anche per i padri e orari più “elastici”, utili a una programmazione della giornata lavorativa che tenga in considerazione le necessità di tutti i membri della famiglia, e non solo quelle della componente maschile.

In questo senso, infine, sarebbe utile promulgare vere e proprie leggi che garantiscano la condivisione della cura e la presenza di tutti i generi in posizioni apicali, svincolando le donne dal ruolo di “caregiver” che la società occidentale ha loro imposto. Ma che non sempre le spetta.

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