Climate quitting: sei disposto a rinunciare al lavoro se fa male all'ambiente?

Il "climate quitting" è un approccio maggiormente consapevole al lavoro, che consiste nel rinunciare a un impiego se l'azienda non rispetta i criteri ESG (Ambiente, Società, Governance). A ritenere importante un impegno nei confronti delle tematiche ambientali e della crisi climatica, non solo la Generazione Z, ma anche i Millennial e gli Under 40. Vediamone i dettagli.

Le nuove generazioni – e non solo – sono sempre più attente alla propria qualità della vita e al giusto bilanciamento tra carriera, vita privata e interessi personali. Una necessità, quella dell’equilibrio, posta in evidenza già nel periodo post-pandemico, con la Great Resignation (le dimissioni di massa finalizzate a soddisfare le proprie ambizioni lavorative) e, soprattutto, il Quiet Quitting, ossia l’impegno professionale “limitato” alle ore previste dal contratto (senza straordinari o incarichi extra-lavorativi).

In questa cornice, da qualche tempo, rientra anche il cosiddetto Climate Quitting, il quale consiste nella valutazione di una proposta di lavoro sulla base dell’impegno aziendale nei confronti dei criteri ESG, quindi rispetto all’ambiente, al comparto sociale e alla governance.

Di che cosa si tratta, nello specifico, e chi interessa? Vediamone i dettagli.

Che cos’è il Climate Quitting?

Per “Climate Quitting” si intende un approccio consapevole al lavoro, figlio delle azioni di sensibilizzazione portate avanti dai movimenti ambientalisti, soprattutto nell’arco degli ultimi anni, e di una maggiore coscienza di sé, del proprio posto nel mondo e della propria responsabilità nei confronti del pianeta.

Essere un “Climate Quitter“, infatti, consiste nel rifiutare di lavorare per aziende che non abbiano a cuore le tematiche legate all’ambiente, al riscaldamento globale e, in generale, al benessere della nostra Terra, sempre più piegata dalla crisi climatica in corso.

Per tale ragione, appare, quindi, essenziale che gli imprenditori adottino comportamenti e visioni interne improntate al green e al rispetto dell’ambiente, che non siano, però, solo “di facciata”, ma abbiano un impatto significativo sull’azienda e sulla realtà a essa circostante.

In assenza di questo impegno e delle garanzie correlate, come accennato, sempre più persone decideranno di abbandonare il proprio lavoro o di rifiutare determinate proposte professionali in virtù della ricerca di aziende che, al contrario, rispettino concretamente i criteri ESG e le loro applicazioni.

Che cosa sono i criteri ESG?

Ma che cosa sono, e quali, i criteri ESG? L’acronimo racchiude in sé i termini “Environmental, Social and Governance“, e, come riportato da Forbes, è stato coniato nel 2004 nella ricerca Who Care Wins – Connecting Financial Markets to a Changing World. La pubblicazione è il risultato di

un’iniziativa congiunta di diverse istituzioni finanziarie invitate dall’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan a sviluppare linee guida e raccomandazioni su come integrare meglio le questioni ambientali, sociali e di corporate governance nella gestione degli asset, nei servizi di intermediazione dei titoli e nelle funzioni di consulenza associate. I sottoscrittori del report sono convinti che in un mondo più globalizzato, interconnesso e competitivo, il modo in cui sono gestite le questioni ambientali, sociali e di corporate governance siano parte integrante della qualità gestionale complessiva delle aziende e fattore necessario per competere con successo. Le società che ottengono il rating ESG migliore possono creare valore per gli azionisti e permettere loro di avere un forte impatto sulla reputazione e sul marchio, aspetti sempre più importanti per il business.

Ma quali sono, esattamente, tali criteri? Vediamoli nel dettaglio:

  • Ambiente: qual è l’impatto che un’azienda ha sull’ambiente? I parametri possono includere diversi fattori: dall’impronta di carbonio all’utilizzo delle risorse naturali, fino al ricorso di sostanze chimiche nel processo di produzione e agli interventi di sostenibilità messi in atto;
  • Società: in che modo l’azienda apporta un miglioramento alla comunità, sia all’interno che all’esterno? In questo contesto rientrano il rispetto per i diritti umani, l’inclusione e l’uguaglianza della comunità LGBTQI+, la diversità etnica della classe dirigente e del personale e la lotta per il bene sociale, al di là della mera influenza sulla propria sfera di competenza e interesse;
  • Governance: quali sono le azioni con cui direzione e consiglio di amministrazione promuovono un impatto e un cambiamento positivi? Tale ambito spazia dalla retribuzione dei dirigenti alla diversità etnica e culturale di questi ultimi, concentrandosi, in particolare, sul modo in cui essi interagiscono con gli azionisti.

Il profilo del “conscious quitter”

A pretendere il rispetto dei criteri ESG non vi sono solo i membri della Generazione Z, ma anche i Millennial e, nel complesso, gli Under 40, ossia le fasce della popolazione che, nel corso degli anni, hanno dimostrato maggiore sensibilità nei confronti della crisi climatica e delle tematiche ambientali.

Lo rivela anche uno studio condotto da KPMG UK, società di consulenza che ha intervistato circa 6.000 cittadini del Regno Unito, tra impiegati, apprendisti, studenti e persone che hanno terminato il ciclo d’istruzione nei sei mesi precedenti, in relazione al proprio atteggiamento nei confronti del lavoro e, in particolare, dei criteri sopra elencati.

Il quadro che ne emerge è molto chiaro: quasi uno su due (46%) ha manifestato il desiderio che l’azienda in cui è impiegato manifesti un impegno in materia ESG, mentre uno su cinque (20%) ha rifiutato una proposta di lavoro perché gli impegni aziendali in merito ai criteri ESG non erano in linea con i propri valori.

Per quanto concerne l’età, i più propensi a dare importanza – e ad apprezzarli, quando presenti – ai criteri ambientali, sociali e di governance sono i giovani tra i 25 e i 34 anni (55%), ma non sono da meno anche i giovani tra 18 e i 24 anni (51%) e tra i 35 e i 44 anni (48%).

Le conseguenze del climate quitting

Ma se le aziende non rispettano i criteri ESG, qual è la conseguenza? È evidente: gli impiegati, soprattutto di una certa età, saranno sempre meno.

Come spiega John McCalla-Leacy, responsabile ESG di KPMG nel Regno Unito, infatti:

Dalle recenti discussioni della COP27 emerge chiaramente che, sebbene si stiano compiendo alcuni progressi, la strada da percorrere per limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5°C è ancora lunga. Sono le generazioni più giovani a subire gli impatti maggiori se non riusciamo a raggiungere questo obiettivo, quindi non sorprende che questo aspetto, e altre considerazioni ESG correlate, siano in primo piano per molti quando scelgono per chi lavorare.

E, a questo proposito, precisa:

Per le aziende la direzione di marcia è chiara. Entro il 2025, il 75% della popolazione attiva sarà costituita da millennial, il che significa che le aziende dovranno avere piani credibili per affrontare il tema ESG se vogliono continuare ad attrarre e trattenere questo gruppo di talenti in crescita.

È, dunque, necessaria un’inversione di rotta da concretizzare il prima possibile, sia per il benessere del nostro pianeta, sia per garantire un impiego a tutte le persone che non si piegano a dinamiche distorte e credono fortemente nelle azioni positive che possono essere compiute dalle singole aziende e dagli individui che le popolano. Dalle più piccole alle più grandi.

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