Il particolare momento storico che stiamo vivendo ci ha spinto a riflettere su molteplici aspetti della nostra vita, compreso il lavoro. La pandemia ha spinto milioni di dipendenti a dire bye bye all’ufficio dando il la ad una vera e propria dimissione di massa chiamata The great resignation.

Lasciare il proprio impiego è diventata una decisione condivisa mossa da nuove considerazioni sul mondo del lavoro, le aspirazioni professionali e il concetto di carriera.

The great resignation: cos’è?

The great resignation significa letteralmente La grande dimissione, un fenomeno che vede milioni di persone nel mondo lasciare volontariamente il lavoro. A coniare il termine è stato lo psicologo del Texas A&M Anthony Klotz, che attribuisce alle “epifanie pandemiche” la motivazione di molti lavoratori a lasciare loro lavoro a favore di pascoli più verdi.

Gli effetti del Covid-19, infatti, sono ancora notevolmente sotto-indagati in economia in rapporto al lavoro: a influenzare la scelta di dimettersi non è il mero fattore materiale ed economico; adesso entrano in campo nuovi elementi di valutazione.

L’esperienza traumatica della pandemia ha scavato ben oltre, costringendoci non solo a ritmi e modi di vivere impensabili (tra lockdown, coprifuoco e distanziamento sociale) ma ci ha indotto anche a riflettere sulle cose realmente importanti per il nostro benessere. Non solo abbiamo acquistato consapevolezza della reale importanza della salute ma anche di ciò che vogliamo dalla vita, le nostre priorità e i nostri obiettivi personali e anche lavorativi.

Secondo Adam Grant, divulgatore scientifico e professore alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania, the great resignation non è una bomba esplosa dal nulla:

Più di un decennio fa gli psicologi hanno documentato un cambiamento generazionale nella centralità del lavoro nelle nostre vite. I millennial erano più interessati a lavori che fornivano tempo libero e vacanze rispetto ai Gen-Xers e ai Baby Boomers.

Questo ci spinge a rivalutare anche i concetti di carriera e di successo, come spiega la storica Pamela Haag:

Per me [the great resignation] punta nella direzione di rivedere ciò che pensiamo come successo. Se così tanti lavoratori sono felici di essere scesi dal tapis roulant, allora forse anche la nostra metrica è sbagliata. Forse stiamo usando gli indicatori di successo sbagliati. In questo momento, e forse ancora di più in futuro, il successo potrebbe riguardare la massima autonomia e flessibilità per fare un lavoro interessante ed essere pagati per questo, al contrario dell’ambizione verticale.

The great resignation: i numeri negli USA

Il fenomeno del the great resignation è stato un vero e proprio tsunami negli Stati Uniti, come testimonia il Bureau of Labor Statistics: 4 milioni di americani hanno lasciato il lavoro nel luglio 2021 e alla fine dello stesso mese si è registrato il record di 10,9 milioni di posizioni lavorative aperte. Già ad aprile il totale dei lavoratori che hanno rassegnato le proprie dimissioni era stato il più alto da sempre negli Stati Uniti, ma nessuno si sarebbe aspettato che the great resignation avrebbe continuato a guadagnare terreno nei settori più disparati.

Quasi il 7% degli impiegati del settore dell’accomodation e dei servizi alimentari hanno lasciato il loro lavoro in agosto (1 lavoratore alberghiero su 14) ma ad essere più colpito è indubbiamente il comparto tecnologico e sanitario: un’indagine promossa da Ian Cook, analista di Visier, su un campione di 9 milioni di dipendenti in 4000 aziende, ha rilevato come il 3,6% in più dei dipendenti della sanità hanno lasciato il lavoro rispetto all’anno precedente, e nel settore tecnologico, le dimissioni sono aumentate del 4,5%. Si è scoperto che i tassi di dimissioni erano più alti tra i dipendenti che lavoravano in settori che avevano sperimentato aumenti estremi della domanda a causa della pandemia, portando probabilmente a maggiori carichi di lavoro e quindi burnout.

Un altro dato interessante è che i dipendenti tra i 30 e i 45 anni sono quelli che si dimettono maggiormente, con un incremento medio di oltre il 20% tra il 2020 e il 2021. In un sondaggio di Bankrate pubblicato ad agosto 2021, si è scoperto che la maggior parte degli americani (55%) che sono occupati o attualmente in cerca di lavoro, è probabile che inizino o continuino la ricerca nei prossimi 12 mesi. Questo include più di tre quarti (77%) dei Gen Zers (di età compresa tra 18 e 24 anni) e quasi due terzi (63%) dei millennial (età 25-40).

Le cause e le possibili ragioni

Le ragioni che hanno fatto esplodere the great resignation sono essenzialmente 4:

1. Burnout

Il Covid-19 ha avuto un enorme impatto sul benessere delle persone anche in rapporto al lavoro. Lo smart working ha consentito di risparmiare tempo e denaro investiti negli spostamenti per raggiungere l’ufficio, ma molti non l’hanno vissuta bene.

Pr questi dipendenti infatti è risultato difficile trovare un equilibrio tra vita priva e lavorativa. Inoltre in certi casi il carico di lavoro è andato paradossalmente ad aumentare, a seguito di licenziamenti, alla cassa integrazione dei colleghi o magari proprio per la tipologia di azienda, che in piena pandemia ha registrato un’impennata di richieste.

Tutto questo porta a livelli di burnout mai visti prima anche per via di quella che viene definita in un’indagine della piattaforma di reclutamento Monster, la cultura del “sempre attivo”, che vedrebbe un dipendente su tre (sul totale di 65.000 intervistati) avere la percezione di dover essere sempre disponibili per il lavoro e/o il proprio capo. 

2. Mancanza di opportunità per lo sviluppo della carriera

Lo studio Monster ha rilevato che la seconda più grande ragione per cui i dipendenti sono inclini a lasciare la nave è a causa della mancanza di progressione di carriera

L’apprendimento e lo sviluppo, purtroppo, sono passati in secondo piano durante la pandemia, quando i datori di lavoro erano concentrati a mantenere il loro business a galla e ad investire in nuovi strumenti tecnologici HR e hardware in modo che i dipendenti potessero lavorare da casa.

I problemi relativi all’apprendimento e allo sviluppo hanno particolarmente colpito i dipendenti più giovani, secondo uno studio di LinkedIn che ha scoperto come il 69% dei 1.000 giovani tra i 16 e i 34 anni intervistati nel Regno Unito crede che la loro esperienza di apprendimento professionale sia stata influenzata dalla pandemia.

È chiaro che le persone vogliono l’opportunità di progredire nella loro carriera, imparare nuove competenze e assumere ulteriori responsabilità. Come ha evidenziato il giornalista dell’Atlantic Derek Thompson:

Smettere è un concetto tipicamente associato a perdenti e fannulloni. Ma questo livello di abbandono sembra piuttosto un’espressione di ottimismo: quella di chi dice “possiamo avere di meglio”.

3. Essere sottovalutati

Tutti vogliono sentire che il lavoro che fanno è significativo per l’azienda e contribuisce a un obiettivo più grande. Quindi non c’è da sorprendersi che i dipendenti siano inclini a lasciare il lavoro se non si sentono valorizzati.

Collegato a questo aspetto è la sensazione di mancanza di fiducia nel lavoratore quando non è fisicamente in ufficio. Durante il lockdown siamo stati ore in videochiamata e nonostante questo molti datori di lavoro hanno faticato a fidarsi della produttività dei dipendenti pur lavorando da remoto, una situazione del tutto inedita per diverse realtà aziendali. Il pregiudizio e la mancanza di fiducia nell’etica lavorativa del dipendente è un motivo che lo spinge e rassegnare le dimissioni. 

4. Disconnessione sui valori

Per i dipendenti non solo sentirsi apprezzati al lavoro è importante, ma ora vogliono anche sentire che l’azienda condivide i loro valori. Questo aspetto si manifesta in modo particolarmente forte nelle giovani generazioni, nella Generazione Z ad esempio, che tiene ad una cultura aziendale improntata all’etica e alla diversità.

The great resignation nel resto del mondo

La grande dimissione si sta verificando non solo negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo. Bas Van De Haterd, rinomato esperto di tecnologia, reclutamento e mercato del lavoro, ritiene che il Regno Unito possa essere il paese in cui le grandi dimissioni si faranno sentire maggiormente:

Quando si confrontano i mercati del lavoro, il Regno Unito è l’unico paese europeo che è più simile agli Stati Uniti. Anche se ha servizi sociali molto migliori.

Un altro esperto europeo in materia di lavoro e risorse umane è Wim Davidse, il quale sostiene che l’Europa vedrà un po’ di agitazione ma tutto sommato niente di che se paragonato agli Stati Uniti:

Negli ultimi mesi, i reclutatori si sono lamentati in massa della mancanza di candidati per i posti vacanti. Ma quello succede sempre verso la fine di una recessione – la gente non è ancora pronta a fare il salto. Ma mentre la luce diventa lentamente verde, ci saranno più cambiamenti di lavoro. Mi aspetto di vedere un aumento di persone che smettono rispetto a quello a cui siamo abituati, principalmente a causa di una stanchezza legata a Covid e Zoom – ma una grande dimissione mi sembrerebbe molto poco europea.

Personio, fornitore di software HR in rapida crescita per le piccole e medie imprese, ha recentemente condotto uno studio tra i lavoratori olandesi rilevando risultati simili a quelli degli Stati Uniti, dove il 46% degli intervistati ha pianificato di lasciare il lavoro nei prossimi sei mesi o un anno (5% in più rispetto alla percentuale globale).

Restando entro i confini europei, è la Germania che detiene il numero più elevato di dimissioni con il 6% dei lavoratori che hanno scelto di lasciare il proprio impiego per ragioni legate al post pandemia. A seguire troviamo Regno Unito (4,7%), Paesi Bassi (2,9%), Francia (2,3%) e Belgio (1,9%).

Anche il paese iper produttivo per antonomasia, la Cina, sta vivendo una propria versione del the great resignation: la giovane generazione di lavoratori si rivela più disincantata riguardo alle prospettive professionali dati i salari relativamente bassi dei centri di produzione che hanno alimentato l’ascesa economica cinese.

Le autorità di Pechino avvertono di una crescente carenza di lavoratori qualificati nella sua cruciale industria tecnologica, una sfida per la leadership cinese che cerca di dirigere l’economia nazionale verso settori d’avanguardia alternativi. Mentre la domanda globale si sta riprendendo, le fabbriche cinesi sentono la mancanza di manodopera.

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