Slacktivism, che valore ha il 'clicktivismo' o 'attivismo da poltrona'?

Lo slacktivism designa tutte quelle azioni, perlopiù online, che intendono fornire supporto a specifiche cause sociali, politiche, religiose e comunitarie mediante interventi che richiedono uno sforzo pressoché limitato all’attivista stesso. Scopriamone i dettagli e le dinamiche.

Pagine social, infografiche, tweet, video tematici: in un mondo che viaggia e cambia velocemente, interiorizzare informazioni è sempre più semplice. Proprio perché ne siamo costantemente circondati e immersi, non è difficile, in questo senso, appoggiare cause sociali che ci stanno particolarmente a cuore.

È così che, like dopo like e ricondivisione dopo ricondivisione, potremmo diventare anche noi esponenti dello “slacktivism”, un attivismo di “piccola scala” che si basa su azioni ridotte e quotidiane, con l’intento di porre in luce determinate tematiche e sentirsi partecipi delle lotte che le riguardano.

Ma quale valore ha quello che i detrattori definiscono un “attivismo da poltrona”? Conduce davvero ad azioni concrete, o rimane recluso nell’universo dei social network senza via d’uscita? Vediamone i dettagli.

Slacktivism: che cos’è e cosa significa

L’espressione “slacktivismderiva dalla crasi dei termini “slack, slacker” (“lento”, ma anche “fannullone, scansafatiche”) e “activism” (“attivismo”) e designa tutte quelle azioni che intendono fornire supporto a specifiche cause sociali, politiche, religiose e comunitarie mediante interventi che richiedono uno sforzo pressoché limitato all’attivista stesso.

Il concetto, come si legge su Inside Marketing, fu utilizzato per la prima volta a metà degli anni Novanta per indicare il contributo che anche i più giovani potevano apportare alla società e al suo miglioramento – dal partecipare a uno sciopero al prendere parte a una manifestazione in piazza, fino a piantare un albero e a donare soldi per la ricerca.

Con il trascorrere del tempo e, soprattutto, l’imporsi sempre più massiccio delle nuove tecnologie, lo slacktivism si è diffuso in Rete e ha inondato i social network, tramutandosi in una forma di attivismo digitale che offre il proprio contributo mediante “Mi piace”, follow, ricondivisioni, reel, (ri)tweet e video di 30 secondi.

In questo modo, l’attivista si sente parte di una comunità più grande, cui crede di dare il suo prezioso contributo pur con un’azione minima come quelle possibili sui social. Si tratta, però, di un’arma a doppio taglio: da un lato, si “dimostra” approvazione e preoccupazione per argomenti di attualità di rilevanza sociale o politica, dall’altro, tuttavia, lo sforzo comporta un coinvolgimento passivo e impersonale, che nella maggior parte dei casi non porta ad alcuna azione concreta al di fuori del mondo online, tra le piazze e le sedi dell’attivismo più “tradizionale”.

Esempi e forme di slacktivism

Le forme dello slacktivism sono, naturalmente, molteplici, come molteplici appaiono le attività che si possono compiere in Rete.

Tra di esse, le principali sono senza dubbio le seguenti:

  • Il “clicktivism”, o “attivismo da click”, che pone le sue basi sul potere del “click”, come si evince dalla sua definizione. Il gesto di cliccare, infatti, offre all’utente/attivista la possibilità di mostrare il suo supporto alla causa in un modo “tangibile”, apparentemente diretto e incontestabile. Da un evento a un post, qualsiasi comunicazione social può essere soggetta a questo meccanismo e divenire, così, testimone del coinvolgimento di un numero più o meno grande di persone. Un esempio sono le petizioni online, che richiedono il maggior numero di firme per ottenere un risultato “offline”, ma di cui, purtroppo spesso, gli individui che firmano conoscono poco o nulla, in un certo senso vanificando, in questo modo, il contributo apportato;
  • Idem con le donazioni e i crowdfunding, sempre più semplici da effettuare – anche attraverso app –, soprattutto in caso di emergenze sociali, festività e campagne pubblicitarie dedicate. Anche in questo caso, non sempre le persone sono totalmente consapevoli della “causa” portata avanti, oppure non attuano nella “realtà” ciò che sostengono online (un esempio: chi sostiene la pulizia degli oceani ma usa, poi, quotidianamente prodotti di plastica);
  • A quest’ultima forma di slacktivism si lega a stretto giro anche il cosiddetto “hashtag activism”, il quale consiste nel ricondividere una storia o un tweet, seguire un profilo Instagram, mettere “Mi piace” a post e reel, seguire una pagina Facebook, caricare una foto profilo ad hoc e così via. Azioni che servono a calamitare l’attenzione su un determinato “hashtag”, “etichetta” di uno specifico argomento, ma che, come negli esempi precedenti, non proseguono nella vita lontana dalla Rete (se non in casi rari, come il #metoo e il movimento #blacklivesmatter).

Oltre lo slacktivism: fare attivismo digitale

Quindi lo slacktivism serve o i suoi risultati sono irrisori? Come spesso accade, dipende da chi ne è portavoce e dall’uso che viene effettuato dei social network che lo sostengono.

Molti detrattori affermano, infatti, che lo slacktivism sia una forma di attivismo superficiale, colpevole di condurre gli individui che lo praticano ad accrescere il proprio ego e a farli sentire importanti, nel “giusto”, sebbene le loro azioni abbiano, a livello effettivo, una conseguenza sostanzialmente nulla.

Una sensazione che porterebbe, inoltre, a dissuadere l’attivista dallo svolgere altre forme di attivismo, facendolo desistere dallo scendere in piazza o dal partecipare ad assemblee o associazioni e, in generale, a sfumature di attivismo più concrete e solide.

Nello stesso tempo, tuttavia, l’attivismo digitale può nascondere in sé un potenziale ingente, dovuto alla capacità di influenzare le altre persone e di connetterle intorno a un tema comune, anche a chilometri, nazioni e continenti di distanza.

Questo è, senza dubbio, il potere più evidente dell’attivismo online: la capacità di catalizzare l’attenzione su un fenomeno specifico e smuovere, così, le coscienze affinché la situazione possa cambiare e migliorare. Un esempio? L’hashtag #OscarsSoWhite, lanciato nel 2016 in occasione della premiazione Oscar per denunciare la presenza ridotta di attori e addetti ai lavori neri sui set delle grandi produzioni cinematografiche. Come si legge su Lettera43, la viralità della campagna social ha avuto la forza di portare in luce la problematica, fungendo da eco di un argomento che, fino a quel momento, non era mai stato affrontato nel dibattito pubblico.

E così può e potrà essere per qualsiasi argomento che riteniamo di fondamentale importanza: l’essenziale è supportare una causa ed essere coerenti fino in fondo, sia online sia offline, tramutando la community digitale in una comunità “reale” con cui far sentire la propria voce e lottare in prima persona, senza l’intermediazione di uno schermo. Le due forme di attivismo dovrebbero essere complementari, non escludenti.

Così, da social a sociale sarà un attimo. Il tempo di un click.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!