Non si fa attivismo perché infallibili! La responsabilità dell'errore

In una società performativa e in un dibattito che sembra non ammettere errori, a meno che a farli non siano altri o altre, o distruggiamo il modello maschilista e patriarcale basato sulla forza e sull'infallibilità divina o qualsiasi alleanza inclusiva è destinata a perire sotto il peso di un modello di potere vecchio di millenni.

Negli ultimi tempi si sono verificati vari casi di produzioni culturali femministe e inclusive che hanno commesso una serie di errori che hanno offeso e discriminato minoranze o gruppi di persone già di per sé discriminate. Senza volontà di farlo, è importante specificarlo, ma il risultato non cambia.

L’ultimo, in ordine cronologico, riguarda il celebre podcast Morgana di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri, che nell’episodio dedicato alle sorelle Wachowski, hanno fatto scelte che la comunità trans indica da tempo come pratiche transfobiche e di misgendering.

Ora: nessuno e nessuna pensa, io credo, di tacciare Murgia e Tagliaferri di transfobia; né di negare il preziosissimo lavoro che hanno e stanno svolgendo. E, mentre Murgia e Tagliaferri hanno ‘rivendicato’ la scelta, fatta a loro dire per ragion di chiarezza narrativa e sensibilizzazione di un pubblico non educato a questi temi, in altri casi precedenti si è parlato di errori.

È chiaro che in tutte queste situazioni non c’era intenzione di far male e, anzi, spesso si è agito con spirito opposto di alleanza. Ma allora che cosa non è andato?
Qualche pseudo intellettuale che non vedeva l’ora di tuonare contro queste persone non ha perso tempo a cavalcare i loro inciampi, ottenendo di fatto il risultato di palesarsi in tutta la sua meschinità. Ma una riflessione costruttiva, volta non a denigrare le singole soggettività ma ad analizzare la questione, io credo possa essere utile. Tanto più che siamo tutt* brav* e fenomeni nel giudicare le altre persone finché il piede in fallo lo mettiamo noi, soprattutto su tematiche così calde e in parte nuove.

Ho grande stima per tutte le persone che fino a qui sono state chiamate a rispondere di errori o scelte e che, a prescindere dai singoli episodi, hanno e stanno facendo un lavoro pazzesco: hanno sbagliato perché fanno e fanno tanto; sembra banale dirlo ma non lo è.
Alcuni di questi errori ognun* di noi li ha fatti, in passato, e se non li fa nel presente è anche grazie al loro operato. Perché, ça va sans dire, siamo cresciut* a pane e maschilismo, con porzioni variabili quotidiane di razzismo e abilismo, in una società eteronormata e fobica di ogni identità non cis e non etero. Ergo, siamo tutt* etern* student* con l’occasione unica e bellissima di migliorare, crescere e imparare, ancora e ancora. Il risvolto della medaglia è che questo significa che faremo tutti e tutte anche errori, come già ne abbiamo fatti.

Alcuni di questi errori passeranno in sordina, altri no.
In questo secondo caso ci troveremo a dover rendere conto del fatto che abbiamo sbagliato, ma che NON SIAMO IL NOSTRO ERRORE.

L’errore non ci definisce

Il nostro errore non ci definisce, non cancella il buono che abbiamo fatto o che faremo, non è lì neppure per essere una macchia indelebile e, anche se ne resterà traccia, pazienza: fa parte del percorso. Non siamo, e per fortuna!, cavalieri senza macchia, e neppure senza paura a quanto pare.
E sarà forse la paura – soprattutto quella di essere delegittimat* -, unita al peccato umanissimo di orgoglio, a impedirci di ammettere che abbiamo sbagliato senza se e senza ma.

Sbagliare non ci rende meno professionali: ci rende professionisti sul campo e in prima linea. Avanzare scuse nel senso di alibi, invece di chiedere scusa, mettersi in ascolto e aprire un dialogo, ecco… Forse è quello che rischia di renderci meno professionali (ma anche questo è molto umano).
Quello su cui dobbiamo tutt* monitorarci continuamente, io credo, sia il rischio concreto di reiterare le forme di discriminazione subite per difendere gli spazi o il potere raggiunti con tanta fatica.

La responsabilità del potere

Provo a spiegarmi meglio. Chiunque disponga di un potere e di una concreta possibilità di influenza ha la responsabilità di quel potere, soprattutto se intende dirsi alleata o alleato. Poi, ovvio, può scegliere di usarlo per fare bene o fare male. Nella fattispecie può fare del bene solo a sé e alla sua cerchia di amici, famigliari o alla comunità cui sente di appartenere; può supportare una causa e, a cascata, contribuire a supportare tante persone anche sconosciute; e ovviamente può fare anche del male. A volte, una cosa non esclude l’altra e può accadere che, anche senza volerlo, magari proprio mentre mi sto impegnando a fare una cascata di bene, io faccia del male a persone per cui mi sono spesa tanto o che sono convinta di supportare al meglio.

Sembra un controsenso; e in effetti lo è, ma si verifica più volte di quanto pensiamo e credo sia quello che è successo in quasi tutti i casi di cui sopra.

Cosa intendo? Che se il mio potere zittisce o ferisce le persone di cui io sostengo di essere alleato o alleata, significa che lo sto usando male, per quanto in buona fede.
È normale cercare giustificazioni e chiedere si consideri tutto quello che abbiamo fatto per quella causa, nel momento in cui tocca ammettere di avere fatto un errore. Ancora più legittimo è difendere un lavoro che parte da molto più lontano e che non accettiamo venga delegittimato da una caduta o da inciampo.  Proprio perché come abbiamo detto: non siamo il nostro errore!

Ma così facendo stiamo rischiando di fare un po’ il Ponzio Pilato della situazione e di zittire istanze che, in altri momenti, abbiamo o avremmo sostenuto a spada tratta senza esitare in alcuni casi a chiedere la testa di persone che noi stess* abbiamo forse ridotto al loro errore.

Shitstorm e call out sono due cose diverse

Dopo i vari episodi che hanno riguardato femminist* e attivist*, ho sentito o letto spesso cose tipo “i call out non servono a nulla”. L’argomentazione era che zittiscono o mirano a delegittimare l’attivista che lo riceve. Che fanno male alla credibilità della comunità attivist*, come se dovessimo tirare su le mura con l’esterno e “lavarci i panni sporchi in casa”… Anche no! Abbiamo già dato.
Non è vero! Un call out è uno strumento che ha una funzione collettiva e costruttiva: aprire un dibattito.
Non si fa attivismo perché si è infallibili, ma per scardinare un sistema discriminante di cui ognuno di noi si porta addosso una buona dose introiettata, come un virus iniettato alla nascita.
E siccome nessun* attivista (più in generale nessuna persona) è infallibile, può cadere in errore. Anzi, togliamo il può: ogni attivista fa anche errori. Il call out serve proprio a riflettere sui bias introiettati che agiscono anche all’interno di una comunità attivista e portarli fuori, metterli al servizio della comunità stessa: aprire un dibattito perché la prossima volta si possa fare meglio.

Un call-out non è una shitstorm: non vuole tirare letteralmente mer*a su una persona, né crocifiggerla. Magari il tono della persona che è stata offesa o ha subito da parte nostra violenza non sarà sempre pacato (ma davvero vogliamo fare tone policing a chi offendiamo, per poi ribadire a ogni piè sospinto che chi ci opprime non deve permettersi di fare tone policing a noi e che abbiamo tutto il diritto di alzare la voce?).

Oggi va molto di moda fare screenshot di titoli sessisti o discriminatori e commentarli in modo sarcastico o chiedendo teste. E sia chiaro, va bene. Se le cose stanno cambiando nel giornalismo italiano, che ha un problema enorme in termini di nepotismo e maschilismo, è anche grazie a chi le rivoluzioni non le fa gentili, ma ci va con la ghigliottina.

Solo che, a meno che non si tratti della Rivoluzione Francese, in genere a essere ghigliottinati non sono mai i pesci grossi, che puzzano davvero di marcio. Saltano, è vero, teste di tirapiedi e pesci che si pensavano grossi, ma non lo sono abbastanza (e va bene così!). Ma a trovarsi senza testa in genere è qualche stagista, o lavoratore/lavoratrice sotto pagat* o, direttamente, più di un innocente.
Nel mondo patriarcale dei maschi che hanno scritto la Storia con le guerre, si chiamano vittime collaterali, un eufemismo atto a disinnescare l’assassinio istituzionalizzato fatto in nome di un bene superiore. Chissà, se nel mondo femminista, chiedo, vogliamo continuare a farne, magari adottando le stesse strategie belliche che ci hanno ammazzate e silenziate per millenni!

Esempio: in un paio di raid anti stampa sessista e non inclusiva, sotto due titoli incriminati si leggevano con chiarezza le firme dell’autore e dell’autrice dei pezzi, in entrambi i casi chiamat* in causa in maniera diretta e fortemente sarcastica e delegittimante. Mi riferisco a due episodi che mi sono noti, perché riguardano due collegh* della Stampa e del Corriere, ma quanti ce ne sono?
Bene: quei titoli, come spesso avviene, erano stati scritti da altri in un secondo momento. I giornalisti stessi avevano fatto presente la criticità degli stessi a chi di dovere ma, come è facile pensare, la shitstorm fagocitata con le migliori intenzioni da* due attivist* distint* si è riversata su di loro – non sulla testata – con la stessa violenza che chi ama fare questo genere di operazioni conosce bene e più volte ha giustamente denunciato, quando è stat* colpit*. No, in questo caso non si è trattato di un call-out di certo!

E allora mi chiedo: alcun* attivist* stanno dicendo che i call-out non servono, salvo poi fare shitstorm? O in questi casi si stava facendo call-out (e allora perché poi un call-out non possono farlo a noi)?. Confondono call-out e shitstorm? Altro? Chiedo!

Chissà se all’attivista, che in più di un’occasione si è spesa sull’importanza della salute mentale e che ha postato una stories al vetriolo nominando la collega che NON aveva scritto il titolo, interessa sapere che questa ha persino chiesto malattia per poter gestire il momento di forte stress, raccontandomi con immenso dolore di aver pensato di mollare tutto perché: “È la stessa battaglia che combatto ogni giorno e invece mi sono svegliata una mattina ed ero dalla parte dei cattivi”.
Mi domando anche se la screenshot del titolo in questione sia stata riportata su segnalazione di altre persone senza avere letto il pezzo (impeccabile dal punto di vista dell’inclusione!) o, se non è stato fatto, perché chiamare in causa la collega che, come chi fa questo lavoro sa, quel titolo se l’è trovato stampato a caratteri cubitali con lo stesso sdegno che ci ha mosse e mossi da lettrici e da lettori?

Alla giornalista è stato scritto di tutto, ma non sono stati i soliti auguri di stupro a ferirla, quanto gli attacchi alla sua professionalità da parte di persone che stima(va) e di cui condivide nella pratica quotidiana le istanze e le battaglie. Quando le ho chiesto perché non avesse a sua volta fatto presente la cosa mi ha detto di avere paura di peggiorare le cose, di ricevere victim blaming, e di essere di nuovo tirata in ballo pubblicamente e in modo aggressivo e sarcastico dalla persona in questione.

In questi anni di interviste mi sono sentita dire, non so quante volte, cose di questo tipo.
Mi ha stupito scoprire che la dinamica affligge molti gruppi di attivist* apparentemente unit* e legat* da solide amicizie che, nella confidenza di una pausa sigaretta, ti confessano che non possono dire alla persona “amica”: io credo che tu stia sbagliando… Ma che attivismo è se è un attivismo bullo, incapace di mettersi in discussione e insegue solo il prestigio e il potere incontrastati e incontrastabili di singol* individu* che possono decidere se portarsi dietro qualcun*, purché rimanga loro subaltern*, o affossarl*?
Che attivismo è se non si mette in discussione e, anzi, vive un call-out non come occasione costruttiva, ma come delegittimazione?

Che attivismo è se danneggia altr* attivist*?

Ora: se il nostro potere di attivist* si basa sul fatto di non dare possibilità di dissenso ad alleat* e neppure alle categorie che noi stess* marginalizziamo, che attivismo è?

Che attivismo è zittire qualcun* che ha meno potere di noi?

Non credo nelle rivoluzioni gentili.
Ma non credo neppure in questa modalità di decostruire un mondo in cui il maschilismo è endemico e sistemico con modalità di potere maschilista, basata sull’oppressione di chi ha meno voce.
Anche perché cambiano gli oppressori o le oppressore, ma il risultato non cambia: su chi la merita davvero la scure non cala mai, finendo sempre per abbattersi su chi ha commesso un errore o è stat* suo malgrado coinvolt* in un errore (e solo se non è in una posizione di potere tale da poter arrabattare due scuse più o meno sincere e potersene poi fregare).

Gli errori hanno anche un merito: mostrarci che nessun* attivista è perfett*, ridimensionare le nostre idealizzazioni e anche le aspettative eccessive che buttiamo sulle spalle di un’altra persona e che sono zaini molto pesanti da portare. Sbagliamo e sbaglieremo, tutt*. Faremo altri errori, dopo quelli di cui si è tanto parlato (in realtà non tantissimo, perché in pochi hanno tempo e salute mentale per affrontare le possibili conseguenze di dire oggi, sui social, una parola considerata fuori luogo). Ma non è questo il problema: né l’operato di chi sbaglia può essere messo in dubbio da un errore.

Il problema è tale se le scuse mancano l’obiettivo di riparare, offrire un microfono concreto a chi potrebbe usare il nostro spazio di potere per ribadire, perché no!, che abbiamo sbagliato, e ragionare su cosa avremmo potuto e dovuto fare, e cosa senz’altro la prossima volta faremo (o altri faranno, anche grazie a questo nostro errore).
Sì ok, meglio pensarci prima. Ma una volta che un errore c’è possiamo tagliare teste (compresa la nostra!) o comprendere se quello sbaglio può essere utile (quasi sempre è sì!) e metterlo a servizio di un valore più collettivo del nostro singolo orticello.

Razzolare male, laddove predichiamo bene è umano, ma proprio per questo è uno di quei meccanismi su cui serve interrogarsi e interrompere il loop. Possiamo anche convincerci che non avevamo alternative e difendere il nostro privilegio di chi non poteva fare altrimenti, invece di trovare strade per fare altrimenti. Ma anche solo dirlo, in casi come quello del podcast Morgana, secondo me è fazioso e addirittura offensivo per le capacità dialettiche, artistiche e intellettuali delle persone coinvolte che sono perfettamente in grado di confezionare un prodotto inclusivo e divulgativo al tempo stesso.

Le minoranze non valgono di meno

Ammettiamolo: abbiamo detto, ancora una volta, che le ragioni di alcune persone discriminate valgono meno. Ma non è in contrasto con quello che continuiamo a dire e sostenere con giusta rabbia, quando altr* fanno lo stesso?
Sosteniamo a gran voce il fatto che non si può parlare a nome delle categorie marginalizzate in loro assenza e senza consenso. Abbiamo detto che non si può parlare di aborto, mestruazioni, parità di genere e di cose che riguardano le donne in manel; pretendiamo si smetta di parlare di razzismo tra persone bianche, o di disabilità a nome delle persone disabili.

E allora, chiedo, perché persone cis ed etero dicono a persone trans che non devono sentirsi offese; o concedono loro il diritto di farlo ma precisando che non si poteva fare altrimenti? Perché persone bianche dicono a persone nere che esagerano e sono pesanti? (che è un po’ il ‘non te la prendere’ alla manata sul culo). Perché persone con sessualità eteronormate dicono a persone della comunità LGBTQAI+ “non hai capito”, mentre parlano di questioni LGBTQAI+, invece di dire “scusa, non ho capito e ho sbagliato a pensare fosse così. Cosa posso fare per rimediare?”.

Stiamo dicendo a* dirett* interessat* che le loro emozioni, il loro dolore, la loro rabbia, il loro sentirsi offes* è sbagliato; o peggio: non è sbagliato, ma qualcun* andava sacrificat* in nome di un bene comune che, tanto per cambiare, non è mai anche il loro bene? In una parola, stiamo delegittimando queste persone, ancora!

Non capisco, stiamo parlando di persone che hanno il potere di cambiare le cose e tutta la creatività e la dialettica per farlo bene.
Siamo noi, quelle persone!
Perché non riusciamo a parlare dei nostri reciproci errori, umani e normalissimi? Stiamo costruendo un mondo inclusivo, e lo stiamo facendo senza avere in mano il libretto delle istruzioni delle Lego. Sbagliare è normale! Impossibile non farlo. Stiamo costruendo una strada che non ha indicazioni. Di fronte agli errori, però, possiamo fare due cose:

1. Invocare una ragione superiore
E allora il nostro nuovo mondo non potrà poi essere tanto nuovo, se replicherà il modello di potere dell’oppressore, magari cambiando solo la faccia a quest’ultimo;

2. Comprendere che piccoli crolli e cedimenti sono inevitabili ma utili
Servono a correggere il tiro, fare nuova malta, non per dividere ma cementificare meglio i mattoni di un progetto di costruzione senza precedenti nella Storia.

In una società performativa e in un dibattito che sembra non ammettere errori, a meno che a farli non siano altri o altre, o distruggiamo il modello maschilista e patriarcale basato sulla forza e sull’infallibilità divina o qualsiasi alleanza inclusiva è destinata a perire sotto il peso di un modello di potere vecchio di millenni.

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