Sebbene abbia conservato più o meno sempre la medesima denominazione, il femminismo ha assistito, nel corso dei secoli e, soprattutto, degli ultimi decenni, a una sostanziale diramazione delle proprie caratteristiche.

A mutare ed evolvere è stato, infatti, l’aggettivo che si accompagna al nome del movimento, il cui obiettivo, pur con lievi o accentuate differenze tra le sue espressioni, è, come si legge su Treccani:

[…] La rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne; in senso più generale, insieme delle teorie che criticano la condizione tradizionale della donna e propongono nuove relazioni tra i generi nella sfera privata e una collocazione sociale paritaria in quella pubblica.

Nonostante tale assunto comune e la diversificazione delle sue manifestazioni, tuttavia, vi sono sfumature del femminismo che, ancora oggi, sono fonte di confusione. Tra queste si annoverano, senza dubbio, il femminismo dell’uguaglianza e il femminismo della differenza.

A che cosa si riferiscono e quali aspetti sono dissimili? Vediamone i dettagli.

Lotta in nome della parità: il femminismo dell’uguaglianza

Il femminismo dell’uguaglianza, definito anche “Equality Approach” e “femminismo liberale”, affonda le proprie radici nel vigoroso appello all’uguaglianza della femminista – e pioniera in termini di attivismo – inglese Mary Wollstonecraft, contenuto nel suo Sui diritti delle donne del 1792.

Al centro, vi è la convinzione che la disuguaglianza di genere derivi da un accesso ridotto, per le ragazze e le donne, ai diritti civili e, in generale, alle risorse sociali, quali l’istruzione e il lavoro. Motivazione di tale varco esiguo sarebbe, poi, la costante subordinazione cui esse sono sottoposte, e la mancanza di eguali opportunità cui questa condizione le conduce.

Fin dagli esordi, quindi, le femministe dell’uguaglianza hanno ritenuto necessario combattere per ottenere riforme legali e politiche concrete, in grado di modificare le consuetudini e i vincoli che contribuivano all’assoggettamento delle donne al mondo maschile.

Lo dimostrano le lotte della prima ondata femminista, focalizzate principalmente sull’ottenimento del suffragio femminile, sull’accesso a tutte le cariche pubbliche e le professioni, su una gestione libera e autonoma dei propri beni e sul pari trattamento in ambito familiare e lavorativo. In sostanza: al centro della battaglia vi era l’uguaglianza nei diritti.

Come spiega sempre Treccani, infatti:

Il “femminismo dell’uguaglianza” chiede che vengano cancellate le differenze tra i sessi consolidate nella cultura e nella vita occidentale e che si sono tradotte in discriminazione, subordinazione, esclusione. Chiede che le donne siano considerate eguali agli uomini per natura, cioè di pari valore e capacità; reclama l’accesso agli stessi diritti degli uomini e respinge come fattori di oppressione i ruoli e i caratteri tradizionalmente attribuiti alle donne.

Proprio la volontà di “concordanza” tra uomini e donne ha, però, attirato, nel corso del tempo, alcune critiche, tra le quali spicca quella di essere considerato un movimento “assimilazionista”, dal momento che esso non riconoscerebbe le differenze di genere e sesso e chiederebbe, inoltre, alle donne, e non al sistema culturale e politico in cui queste sono immerse, di cambiare affinché le donne stesse possano ottenere successo.

Il soggetto “donna”: il femminismo della differenza

La situazione inizia a mutare nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando in tutto il mondo si impone la seconda ondata del femminismo, concentrata più sulla “liberazione” delle donne piuttosto che sulla loro emancipazione.

È in questo contesto, dunque, che si plasma il femminismo della differenza, il quale si distacca dalla rivendicazione dell’uguaglianza tra uomini e donne in favore di una maggiore valorizzazione di queste ultime, prese ora in considerazione non come soggetti “politici” bensì come identità a sé stanti e non riconducibili, soggiogate o assimilate a quelle maschili.

Il quesito centrale, posto in luce anche dalla filosofa Simone de Beauvoir, è: che cos’è la donna? Di qui, iniziano a dipanarsi le critiche feroci al patriarcato, la lotta per la legalizzazione dell’aborto e per la diffusione della contraccezione e la proposta di nuovi modelli familiari, più attenti a un’equa ripartizione dei compiti domestici.

In questo contesto, perciò, si enfatizzano in maniera sempre più acuta le differenze tra uomini e donne, tra loro distinti perché dotati di “caratteristiche biologiche dissimili”. Sulla scia di queste “peculiarità specifiche”, il movimento si è, poi, concentrato, a partire dagli anni Ottanta e Novanta, sul rivalutare quelle qualità “femminili” tradizionalmente svalutate, come l’empatia, l’istinto di cura, l’intuizione, l’amore e l’abnegazione.

Esso si è, inoltre, dedicato a sottolineare i bias presenti in ambito scientifico e tecnologico ponendo in risalto ciò che sarebbe stato tralasciato e sottratto alle cosiddette “prospettive femminili”, anche definite come “modi di conoscenza propri delle donne”.

Risultato: il femminismo della differenza ha, così, solidificato gli stereotipi di genere storicamente diffusisi e imposti dal patriarcato, romanticizzandone anche la “femminilità” e la “mascolinità” tradizionali. Senza tenere conto, infine, della molteplicità e varietà di prospettive, valori e caratteristiche che – questi sì – differenziano tanto gli uomini quanto le donne.

La domanda resta, quindi, invariata: donne si nasce, o lo si diventa?

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