Discriminazione linguistica: 8 esempi che ci aiutano a diventare migliori

La discriminazione passa spesso attraverso il linguaggio, ledendo la dignità degli interlocutori cui la discriminazione stessa si rivolge. Dalla lingua al genere, dall’orientamento sessuale alle etnie, non c’è ambito, infatti, in cui non si registri l’utilizzo di un linguaggio irrispettoso e lesivo. Vediamone i dettagli.

La notizia risale a pochi giorni fa: la Commissione Europea ha deciso di ritirare le linee guida sulla comunicazione inclusiva stilate in occasione delle festività natalizie. Il documento, redatto dalla commissaria europea all’Uguaglianza Helena Dill per il personale della Commissione, ha, infatti, attirato immediatamente le polemiche degli schieramenti più conservatori e tradizionalisti.

Pomo della discordia: l’invito a non citare il “Natale” negli auguri, optando per un più generico “Buone feste”, in virtù del fatto che non tutti i membri siano di fede cristiana e non tutti celebrino le festività cristiane nelle medesime date.

Come ha spiegato la stessa Helena Dill:

La mia iniziativa di elaborare linee guida come documento interno per la comunicazione da parte del personale della Commissione nelle sue funzioni aveva lo scopo di raggiungere un obiettivo importante: illustrare la diversità della cultura europea e mostrare la natura inclusiva della Commissione europea verso tutti i ceti sociali e le credenze dei cittadini europei.

Il documento, inoltre, pone attenzione anche nei confronti di altri tipi di discriminazione, eludendo i riferimenti a genere, razza, etnia, religione, orientamento sessuale e disabilità. Nonostante il tentativo di incoraggiare «una varietà di immagini, testimonianze e storie» che tengano conto della varietà della realtà che ci circonda, Dill ha ritenuto che le linee guida non fossero ancora «mature», decidendo, così, di dedicarvi maggiore lavoro.

L’intento era, tuttavia, molto chiaro: eliminare le fonti della discriminazione linguistica e i suoi effetti deleteri.

Che cos’è la discriminazione linguistica?

Per “discriminazione linguistica” (o glottofobia) si intende, propriamente, la discriminazione fondata sulla lingua – e le sue peculiarità – in cui si esprime una persona o un gruppo sociale.

In senso stretto, quindi, essa consiste – come si legge su Valigia Blu – nel giudicare negativamente un individuo rispondendo ai bias e agli stereotipi inconsapevoli associati al linguaggio, all’accento, alla pronuncia, alla sintassi e, in generale, al vocabolario dell’interlocutore.

La glottofobia, deridendo l’espressione linguistica di un individuo, la sua scarsa dimestichezza con la grammatica o la sua scarna conoscenza di una lingua straniera (soprattutto se minoritaria, rispetto a quella dominante del Paese in cui si trova), impone, infatti, una sorta di “gerarchia” tra le lingue, e, per il suo carattere quotidiano e spesso ironico, assume sovente il profilo di un dileggio pervasivo e quasi “innocente”.

Tuttavia, il concetto di discriminazione linguistica non si esaurisce alla lingua a sé stante, ma invade anche tutti gli altri ambiti della realtà. Con questa espressione si fa, appunto, riferimento anche a tutte quelle forme di discriminazione che sono veicolate attraverso il linguaggio, siano esse relative al genere, all’etnia, alla disabilità, al credo religioso o all’orientamento sessuale e romantico.

Esempi di discriminazione linguistica

Un esempio, in questo senso, può essere la discriminazione che molte donne subiscono sul luogo di lavoro quotidianamente. La analizza con cura il network per la comunicazione inclusiva Hellas, che ha promosso una “Guida al sessismo nascosto nei posti di lavoro”.

Con una precisazione iniziale:

Siamo tuttə sessistə, in quanto cresciutə in una cultura sessista. Le frasi che andremo a vedere riguardano una discriminazione di genere, ma sono dette o pensate da entrambi i generi, e anche da chi non si identifica nel binarismo. E se tu non le hai mai dette… Complimenti! Ti sarà però capitato di sentirle. E, in quel caso, lo hai fatto notare alla persona che stava veicolando un messaggio sessista o sei statə zittə?

I casi in cui emerge un sessismo linguistico sono molteplici: dal riferimento all’“aggressività” di fronte a una donna assertiva e determinata, giudicata “autoritaria, irritante, stridula, emotiva e irrazionale” (in opposizione all’“autorevolezza” che suscita un uomo nella medesima condizione) al mettere in dubbio la bravura di donne in posizioni apicali facendo insinuazioni di natura sessuale («A chi l’ha data per arrivare fin lì?», mentre l’uomo, al contrario, anche se non in possesso dei requisiti necessari per quel ruolo, avrà «saputo vendersi bene»), fino a complimenti che esulano dal comparto professionale e allusioni personali.

Come accennato, però, la discriminazione veicolata mediante il linguaggio coinvolge diversi ambiti. Uno di questi concerne le persone con disabilità, cui ci si riferisce spesso con termini che afferiscono al pietismo e/o alla glorificazione degli individui presi in causa.

Lo sottolinea Sofia Righetti, attivista, formatrice, filosofa e Disability Rights Advocate:

Il linguaggio non è una cosa statica, evolve in base alle esigenze della comunità che lo abita. Nel caso dei mass media, se un certo linguaggio non si evolve, oppure esclude il pensiero della soggettività in causa, potrebbe non raggiungere più lo scopo originario, ovvero quello di informare correttamente. […] Chiunque abbia una disabilità sa bene che spesso la nostra vita è controllata da qualcun altro. Questo atteggiamento si riflette anche all’interno dei media, dove è frequente che persone non-disabili controllino le nostre narrazioni. […] Quando una storia viene sempre e soltanto raccontata attraverso uno sguardo esterno, è facile perdere il focus: la disabilità non è più solo un aspetto della vita, ma diventa l’unico modo di identificarci.

E poi, ancora:

La spettacolarizzazione delle persone con disabilità è una pratica molto diffusa nei media. Giornali e programmi televisivi amano raccontare le nostre vite attraverso il cosiddetto “inspiration porn”, espressione coniata dall’attività Stella Young e che si riferisce a tutte quelle storie che sfruttano la disabilità come fonte d’ispirazione per le persone non-disabili. È presente anche una buona dose di pietismo intorno a questo modo di raccontare: il famoso “costretto in carrozzina” come incipit, che peraltro tende a una rappresentazione dannosa e negativa degli ausili, è un grande classico, così come “affetto da” o “vittima di”, che danno un’idea della disabilità come afflizione.

Insomma, i contesti in cui il linguaggio reca con sé danni, fraintendimenti e lesioni personali sono davvero numerosi, ed è necessario acuire la nostra attenzione alle parole che utilizziamo quotidianamente per non arrecare offese agli individui con cui interagiamo e non ledere, con la nostra eventuale scarsa sensibilità, la loro dignità. Il focus rimane sempre lo stesso: ricordarsi che l’“altro” è, in primo luogo, una persona, a prescindere dalle etichette che la società ha deciso di affibbiargli.

La discriminazione linguistica in Italia

Ciò su cui si concentra forse con più evidenza la discriminazione linguistica, in Italia, è proprio la lingua: commistione di dialetti e idiomi locali che, talvolta, si allontanano e si affrancano dall’“italiano standard”.

Ma che, spesso, portano con sé pregiudizi, ghettizzazioni e derisioni. Nonché, come accennato in precedenza, “gerarchie” tra le lingue, come dimostra il caso, risalente a qualche anno fa, che ha visto il Tribunale dell’Unione Europea annullare tre bandi di concorso che obbligavano i candidati a scegliere, come senza lingua e come lingua di comunicazione con l’Ufficio europeo di selezione del personale, l’inglese, il francese o il tedesco.

L’Italia e la Spagna, denunciando l’atto come discriminatorio e violante il principio di proporzionalità e il regime linguistico dell’Unione, hanno fatto ricorso e richiesto, appunto, l’annullamento dei bandi in esame, ottenendo che il candidato potesse scegliere tra tutte le lingue ufficiali dell’Unione Europea e che le comunicazioni relative all’Epso dovessero essere redatte nella lingua scelta dallo stesso.

Il Tribunale ha giustificato così la decisione finale:

Una limitazione alla scelta a un numero ristretto di lingue costituisce una discriminazione, perché consente di avvantaggiare alcuni candidati potenziali.

E acuendo, in questo modo, il privilegio già insito in alcuni gruppi sociali, tendenzialmente bianchi, inglesi e appartenenti alla parte del mondo che detiene il potere.

In Italia, inoltre, molte persone con accenti stranieri – come ricorda ancora Valigia Blu – incontrano molteplici difficoltà nel dialogare con possibili datori di lavoro o altre istituzioni e vengono spesso respinte immediatamente, senza dar loro la possibilità di esprimersi. Senza dimenticare, poi, le criticità relative all’inserimento scolastico, che, per alcuni studenti stranieri, può costituire anche una seria minaccia al proprio percorso di studi e, in alcuni casi, un motivo per abbandonarlo.

La discriminazione linguistica nel mondo

Una situazione simile si verifica anche nel resto del mondo, soprattutto in quei Paesi in cui il privilegio bianco è particolarmente sentito. Come gli Stati Uniti, dove da sempre spicca una forma di razzismo linguistico costante e sovente inconscia.

Come precisa la BBC:

A livello globale, più persone che mai usano l’inglese, lingua dominante negli affari, nella scienza e nel governo. L’inglese è in continua evoluzione, a causa dei diversi modi in cui le diverse nazioni e gruppi lo usano. Tuttavia, invece di abbracciare questa diversità linguistica, classifichiamo ancora particolari tipi di inglese ponendoli a un livello più alto rispetto ad altri, il che significa che sia i madrelingua, sia i non nativi che differiscono da ciò che è considerato “standard” possono trovarsi giudicati, emarginati e persino penalizzati per il modo in cui “suona” il loro inglese.

Imponendo, anche in questo caso, una gerarchia tra “inglesi” differenti. Come spiega Sender Dovchin, sociolinguista alla Curtin University di Perth, in Australia:

Quando l’inglese è parlato da alcuni europei, incluso, per esempio, l’inglese con accento francese, tedesco o italiano, questi possono essere considerati davvero carini, sofisticati, eleganti e così via. Ma quando l’inglese è parlato da asiatici, africani o mediorientali, questo può essere considerato impegnativo e spiacevole.

Come detto, tuttavia, la discriminazione operata attraverso il linguaggio può riguardare tutte le sfere della nostra vita, professionale e personale. Ecco, dunque, un breve elenco delle frasi da non dire per promuovere un linguaggio sempre più inclusivo e rispettoso delle numerose sfumature dell’umano:

  1. «Signora o signorina?»
    Chiedereste mai, a un uomo, se è un “signore o un signorino”?
  2. «Per essere -nazionalità qualsiasi-, parli molto bene l’italiano»
    Un’osservazione lesiva, che si basa sull’assunto che persone straniere non sappiano parlare l’italiano sulla base di pregiudizi e bias trasmessi a livello sociale. Senza considerare il fatto che, inoltre, molti di essi siano proprio di nazionalità italiana.
  3. «Come sei nervosa, oggi: hai le tue cose?»
    Una discriminazione che non solo reitera il tabù delle mestruazioni, considerandole alla stregua di un “mostro” che si impossessa delle donne e ne muta atteggiamenti e disposizioni caratteriali, ma che appiattisce anche la persona al suo genere “di riferimento” e a desuete stereotipizzazioni: un uomo è “nervoso”, la donna ha “le sue cose”.
  4. «Ah, stai per diventare madre…»
    Sul posto di lavoro, se un uomo annuncia la sua prossima paternità riceve congratulazioni e esclamazioni piene di gioia. Se ad affermarlo è una donna, invece, alle sue parole segue spesso un silenzio imbarazzato: la gravidanza, per molte aziende, è un “peso”, soprattutto perché la genitorialità non ha ancora assunto i contorni di una pratica equamente condivisa – come dovrebbe essere.
  5. «Come sei vestita bene, oggi!»
    Anche in questo caso, anziché concentrarsi sulle dote professionali della persona, si fa riferimento al suo aspetto fisico. A un uomo, però, è raro che ci si rivolga commentando il colore di una camicia o la scelta di un pantalone “troppo attillato”.
  6. «Per essere omosessuale, sei molto maschile»
    Quando si tratta di omosessualità e scelte sessuali e romantiche “non conformi” – rispetto a ciò che, naturalmente, ha deciso siano tali la società predominante –, si ricorre spesso a stereotipi e pregiudizi di genere. Senza prendere in considerazione, come nei casi sopracitati, lo statuto di persona, che dovrebbe essere anteposto a qualsiasi caratteristica manifesta.
  7. «La mamma scienziata che ha vinto il Premio Nobel»
    Avete mai letto la stessa formulazione, ma al maschile? Noi no.
  8. «Come sei coraggioso, nonostante la carrozzina…»
    Esprimendosi in questo modo abilista, si attua una “eroizzazione” delle persone con disabilità, considerate individui “menomati” e non in grado di agire e decidere in piena autocoscienza. L’idea di base è che vi sia una “norma” rispetto alla quale esse si adeguino con numerosi sforzi, dimenticandosi che le persone con disabilità sono persone normalissime, e non necessitano di pietismo o atteggiamenti paternalistici e/o di esaltazione.

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