Missing white woman syndrome, cos'è la sindrome da donna bianca scomparsa

La “sindrome da donna bianca scomparsa” rimarca il privilegio della donna bianca mediante una sproporzionata e quasi ossessiva copertura mediatica, dimostrando come, anche in casi di omicidi e sparizioni, le persone di colore e di altre etnie vengano considerate “inferiori” rispetto alle prime.

Il fenomeno è risultato particolarmente evidente con il caso di Gabby Petito, l’influencer 22enne ritrovata senza vita in un campeggio del Wyoming pochi giorni fa. La risonanza mediatica che l’omicidio ha riscontrato – con articoli in prima pagina, aggiornamenti costanti e attenzione quasi morbosa ai vari risvolti della vicenda – ha, infatti, messo in luce una forma di discriminazione capillare e annosa: la “Missing White Woman Syndrome”.

La scomparsa della giovane donna ha coinvolto migliaia di telespettatori e lettori, con tre articoli in prima pagina sul New York Post in meno di una settimana – come si legge sul New York Times – e divenendo la notizia principale del sito di Fox News e del Washington Post.

Ma a che cosa è dovuta tanta attenzione? E, soprattutto, siamo sicuri che la copertura dei media sarebbe stata la stessa, anche se Gabby Petito non fosse stata una donna bionda, giovane, con gli occhi azzurri e… bianca?

Che cos’è la “Missing White Woman Syndrome”?

L’espressione “Missing White Woman Syndrome”, letteralmente “Sindrome da donna bianca scomparsa”, è stata coniata nel 2004 dalla giornalista Gwen Ifill nel corso di una conferenza di settore.

Ifill, rispondendo alle preoccupazioni avanzate dalla collega Suzanne Malveaux circa la scarsa copertura dei genocidi internazionali da parte dei media statunitensi, ha affermato, come si legge sul Guardian, che:

Nel 1994, durante il genocidio avvenuto in Rwanda, stavamo guardando [i pattinatori, N.d.R.] Nancy Kerrigan e Tonya Harding. […] Se si trattasse di una donna bianca scomparsa, invece, i media coprirebbero quel caso ogni giorno.

Di qui, il nome di una vera e propria “sindrome”, che affonda le sue radici nella disparità vigente tra l’attenzione posta alle giovani donne bianche scomparse e quella affidata, al contrario, a uomini o donne di altre etnie. I casi che concernono le prime, infatti, ottengono una copertura mediatica molto più ingente e continuativa, a differenza di quelli che coinvolgono persone di colore o, in generale, lontane dallo stereotipo della “fanciulla” in pericolo.

Come ha commentato Charles Blow:

Non è che queste donne bianche dovrebbero avere meno importanza, ma il fatto è, piuttosto, che tutte le persone scomparse dovrebbero avere lo stesso peso. L’etnia non dovrebbe determinare in che modo i leader della redazione assegnano la copertura, soprattutto perché tali decisioni portano spesso a un’allocazione sproporzionata delle risorse governative, poiché gli investitori cercano di risolvere i casi di più alto profilo.

Cause e origini del fenomeno

All’origine della “Missing White Woman Syndrome” potrebbe, dunque, esserci un coacervo di fattori. Alcuni dei quali, a ben vedere, con radici appartenenti addirittura al mito.

Secondo gli esponenti del National Center for Missing Adults, infatti, l’attenzione dei media nei confronti dei casi di donne bianche scomparse sarebbe da ricondurre al topos della “damigella in pericolo”, ostaggio non più di draghi o streghe cattive, bensì di mostri dalla fisionomia umana.

Come ha osservato la giornalista del Washington Post Eugene Robinson:

I dettagli della trama variano da damigella a damigella. In alcuni casi, la saga inizia con il ritrovamento di un cadavere. In altri casi, la damigella semplicemente svanisce nel nulla. Spesso c’è un sospetto fin dall’inizio: un intruso, un marito, un padre, un membro del Congresso, uno sconosciuto che si intravede in agguato nelle vicinanze. Ma la donna scomparsa dai media è sempre bianca.

A un livello ulteriore, si può notare come la concentrazione morbosa su fenomeni di questo tipo possa essere ricollegata a quelli che molti definiscono “autoidentificazione” con la vittima: la giovane donna bianca sarebbe, cioè, specchio delle persone che seguono la vicenda a livello mediale.

Questa ipotesi, però, ci conduce a un’altra riflessione, o meglio, a una consapevolezza: quella del privilegio bianco, che si riscontra anche nei casi di omicidio, femminicidio o sparizioni. Anche nelle vicende più tristi ed efferate, infatti, alla donna bianca si attribuisce un valore sempre più alto rispetto a quello della donna di colore o di un’altra etnia, corroborando le dinamiche di un sessismo benevolo che vede la donna – bianca – vittima di atteggiamenti esasperatamente premurosi e gentili, in nome di una sua presunta inferiorità e “delicatezza”. Come se fosse, appunto, una principessa da salvare.

Missing White Woman Syndrome e media

A livello mediatico, dunque, la copertura riservata a casi come quello di Gabby Petito risulta notevolmente sproporzionata rispetto a quella dedicata a fenomeni similari, ma con protagoniste differenti.

Come nota l’influencer Sybelle sul suo profilo Instagram:

Nei casi di “missing white woman” il focus è molto spesso sulla vittima, con una forte attenzione al suo aspetto fisico, al suo ruolo di fidanzata/moglie e madre. Al contrario, quando, per esempio, la vittima è una donna afroamericana, l’attenzione si sposta sul contesto sociale in cui vive, sul suo passato, sul fidanzato/marito/padre abusivo.

Si delinea, in questo modo, un “privilegio razziale”, dove la vita delle donne di colore e di altre nazionalità sembra valere meno della pelle bianca, e dove essere vengono reputate, spesso, causa del proprio male. Come osserva la professoressa della California State University Danielle Slakoff:

Le vittime bianche tendono a essere ritratte come appartenenti ad ambienti molto sicuri, quindi è scioccante che possa accadere qualcosa del genere, mentre le vittime nere e latine sono ritratte come appartenenti ad ambienti non sicuri, dunque, fondamentalmente, normalizzando la vittimizzazione.

Lo ha notato anche Joseph Petito, il padre della defunta Gabby, il quale, nel corso di una conferenza stampa, ha invitato i giornalisti ad

aiutare tutte le persone scomparse e che hanno bisogno di aiuto. Spetta a tutti voi, a tutti quelli che sono in questa stanza, fare questo, e se non lo fate per altre persone che scompaiono, è un peccato. Non è solo Gabby che lo merita.

Superare la sindrome da donna bianca scomparsa

Per superare la “storia unica” che, da decenni, si sta pericolosamente imponendo nei media, è, perciò, necessario ripensare ai metodi con cui casi di questo genere vengono affrontati.

Un esempio lodevole deriva dalla giornalista investigativa Annette Lawless, che, dopo essere approdata alla ABC – rete affiliata alla Kake-Tv, in Kansas –, ha deciso di avviare un progetto di copertura mediatica destinato proprio a tutti quei casi sommersi e non affrontati dai notiziari televisivi e dai giornali.

Il lavoro si chiama “Missing in Kansas” e intende ripercorrere tutti i casi di persone scomparse nello Stato: dai giovani agli anziani, dai bianchi agli individui di colore e latini, dai maschi alle femmine, dai poveri ai ricchi, indipendentemente dal fatto che siano stati rapiti o siano fuggiaschi.

L’obiettivo, conferma Lawless, è quello di ricordare

persone di ogni estrazione: copriamo così tanto che mi sento come se coprissimo tutti.

Il suo progetto può, quindi, essere considerato un modello “innovativo” ed essere assurto a esempio per modificare tutte quelle narrazioni stantie e discriminatorie che, ancora oggi, tendono a porre la propria attenzione solo sul privilegio, facendo, così, un danno incalcolabile all’umanità delle persone scomparse. A prescindere dalla loro etnia.

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