Ho scoperto di soffrire di dipendenza affettiva soltanto quest’estate, dopo l’ennesima relazione finita male, le vacanze completamente rovinate e il cuore infranto.

Mi sono resa conto, barricata dentro casa in quarantena una volta tornata a Londra, che la storia che stavo portando avanti a ogni costo non era altro che la pallida imitazione di quella cosa sana e arricchente che desideravo per me stessa. Niente che avrei consigliato a un’amica, insomma. Ma allora, mi chiedevo, perché stavo ancora cercando disperatamente di salvarla?

Dopo due giorni di pianti ininterrotti nella vasca, un paio di bottiglie di vino e l’inopportuna decisione di scaricare Tinder di nuovo e parlare a ogni tip* della storia infinita fra me e altro tipo, ero finalmente pronta ad ammettere la triste realtà: non era a lui che ero legata, ma al banalissimo bisogno viscerale di essere amata da qualcun*.

Ho capito che di patetiche scuse, giochetti, prove di forza, tira e molla e gelosie ne avevo finalmente abbastanza. Vabbè, pure di uomini, ma questo è un discorso per un altro momento (o articolo). Eppure ero attaccata a quella debolissima scintilla di felicità con le unghie, i denti e ogni barlume di speranza mi fosse rimasto in corpo. Come se non avessi mai potuto trovare nessun’altra ricchezza altrove. Negli altri legami della mia esistenza, per esempio. In una sana scopata. Nel mio lavoro. In un Barolo del ’97 che non posso assolutamente permettermi.

Quella relazione, la relazione a due in generale, era il centro del mio mondo, da sempre. Cos’altro c’è, nella vita di una donna, se manca quella?

Fatto sta che dopo l’epifania estiva sulla mia condizione emotiva, alla fine, sono riuscita a impegnarmi in quella che ho scoperto essere la miglior risoluzione possibile in casi come questo, ovvero una sana disintossicazione dal “grande amore che mai più avrei ritrovato”. Esatto, come se si trattasse di una qualsiasi sostanza. Perché avevo capito che per me il bisogno di essere in una relazione non era nient’altro che una droga.

Il problema è che spesso le persone come noi tendono ad attrarre chi le vittimizza ancora di più. Siamo prede perfette per narcisist*, abuser, uomini che fingono di essere infelicemente sposati, etern* indecis* e persone terrorizzate dall’impegno. Da una parte ci vogliono per la nostra capacità di amarlə tantissimo, dall’altra temono la trasparenza che mostriamo. E quindi viviamo nel mezzo.

Come recita l’intro di Kate Winslet in L’amore non va in vacanza (tra l’altro film consigliatissimo sul tema): “Ma il resto di noi? Quali sono le nostre storie, quelle di noi che ci innamoriamo da soli? Noi siamo le vittime dell’amore unilaterale. Noi siamo i disgraziati fra gli innamorati. I non amati. I feriti non in grado di camminare. Sì, avete di fronte un individuo di questa specie, e io ho amato volontariamente quell’uomo per più di tre infelici anni. Assolutamente gli anni peggiori della mia vita. I Natali peggiori, i peggiori compleanni. Capodanno passato tra lacrime e Valium. In questi anni in cui sono stata innamorata ci sono stati i giorni più bui della mia vita, tutto perché sono stata maledetta dall’innamoramento per un uomo che non mi ha mai amata e mai mi amerà.”

Ma c’è una soluzione a tutto questo. Riconoscere che soffriamo di dipendenza affettiva. Curarci, così come faremmo con ogni altra malattia. E ripartire da lì. Perché la prospettiva di “non provare mai nulla di simile” non è peggiore di una lunghissima e complicatissima vita di merda.

La dipendenza affettiva è considerata parte delle “nuove dipendenze”: vuol dire che presenta tratti in comune con la  tossicodipendenza “classica” ma non è provocata da una sostanza fisica. Le aree del cervello stimolate sono infatti esattamente le stesse delle addiction classiche, quelle della ricompensa. Attaccamento, bisogno disperato di credere che per quella relazione ci sarà il lieto fine, paura dell’abbandono e carenza di autostima sono segnali tipici.

Il dipendente affettivo porta avanti relazioni scadenti e infelici, ma l’idea di rimanere sol* è terrificante e dolorosissima. Ogni aspetto della vita ruota intorno a quella storia, ha bisogno di continue rassicurazioni. Se finisce, ansia e depressione possono prendere il sopravvento. Si tende a mettere i bisogni del partner davanti ai propri, e sentirsi terribilmente inferiori anche se palesemente una disparità non esiste.

Tutte le storie d’amore, soprattutto all’inizio, tendono a farci voler passare più tempo possibile con l* partner, a sentirne il bisogno fisico. Ma qui parliamo di relazioni sofferte, non ricambiate, con uno squilibrio di potere forte, anche involontario.

Ricordo di aver avuto sempre una paura estrema di parlare, di esprimermi, di essere “troppo” e di essere lasciata per questo. Di non aver più limiti fra me e lə personə di cui mi innamoravo. Spazi miei. Confini. Dovevo dare e dare, così mi avevano insegnato.

Per amore si fa tutto, ci raccontano crescendo, soprattutto se sei una donna. Si impara a soffrire, a mettersi da parte, sacrificarsi. Ma anche aver subito abusi o essere cresciutə in famiglie disfunzionali può rappresentare un gigantesco fattore di rischio.

È importante sottolineare però che le cose in una coppia non funzionano perché non si lavora bene in due. La dipendenza affettiva nel partner va riconosciuta e aiutata, non incoraggiata perché ci fa sentire amatə o ci gonfia l’ego. E non c’è bisogno di stare da solə per uscire dalla dipendenza affettiva, anzi. Bisogna lavorare sulla propria autonomia e autostima indipendentemente da chi abbiamo accanto. Se sono qui a parlarne è perché vi assicuro che la vita dall’altra parte dell’attaccamento è incredibilmente felice e soddisfacente. E vorrei che ne fossimo consapevoli tuttə.

Per le soluzioni e il “parere dell’esperto, però, ho voluto qui con me la dottoressa e amica Giulia Ritrosi (Psicologa, psiconcologa e psicoterapeuta, esperta di violenza di genere e tematiche lgbtqia+). Certa di lasciarvi in ottime mani, ho pensato di farle qualche domanda a riguardo. Intanto vi abbraccio forte, e fatelo pure voi, stasera: datevi un abbraccio di quelli che dicono che per voi ci siete, e ci sarete sempre. Perché è la verità. Tenetevi strettə.

“Quando parliamo di dipendenza affettiva in termini di ‘New addiction’ ci riferiamo a una serie di comportamenti socialmente accettati poiché frequenti. Quando portati allo stremo, danneggiano la nostra salute mentale. Ma di nuovo c’è ben poco, in quanto il concetto di dipendenza rientra in una dimensione del quotidiano; ‘dipendenza’ è un termine che usiamo in maniera accettabile la maggior parte delle volte: siamo dipendenti sul posto di lavoro, da bambin* siamo dipendenti materialmente ed emotivamente dai nostri caregivers e all’inizio delle relazioni cerchiamo continue validazioni dall* person* di cui ci sentiamo pres*, per poi gradualmente tornare al raziocinio e integrare il nuovo affetto con la vita pratica.

I dati epidemiologici indicano che il 99% dei soggetti dipendenti affettivi sono di sesso femminile (D. Miller, 1 994),e  la fascia di età è ampia, va dalle postadolescenti di età compresa tra i 20 e i 27 anni fino alle donne adulte tra i 45 e i 50 anni.

È un dato di cui non possiamo non tener conto, in quanto ci porta a interrogarci sul perché; dobbiamo considerare gli stereotipi di genere che impregnano la nostra società che, in maniera evidente, favorisce e tollera questa incidenza. In un ragionamento, seppur binario e limitato, gli uomini sarebbero educati a mostrarsi ‘più forti e meno dipendenti’, le donne sono penalizzate nell’attuazione della propria indipendenza da millenni di patriarcato.

Esistono poi dei profili che effettivamente si incastrano in maniera sintonica con la DA, per esempio persone altrettanto dipendenti e/o narcisiste, poiché tendono ad acuire sentimenti di colpa o svalutazione.”

Come riconoscere se abbiamo o meno una dipendenza affettiva?

“Un buon modo è quello di ascoltare le proprie emozioni e porsi qualche domanda, come ad esempio: programmo le mie giornate e i miei interessi in base a quelli del/dei partner? Sento di deludere la persona con cui sto se non mi mostro abbastanza compiacente? Mi sento in colpa e/o arrabbiat* se l’altra persona non è disponibile come vorrei?

Ma soprattutto dovremmo chiederci se pensiamo che il nostro valore dipenda in maniera preponderante dallo sguardo dell’altro. Nel caso in cui la maggior parte delle risposte sia positiva, potremmo avere una dipendenza affettiva.”

Come si cura questo disturbo?

“Il cambiamento parte sempre dell’accettazione, soprattutto di quelle parti di noi che poco ci piacciono e vorremmo tagliare via col coltello. Un percorso terapeutico potrebbe aiutarci mettendoci in contatto con le nostre risorse e le nostre emozioni.”

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