Perché si dice 'tornare a Canossa' e l'incredibile storia di Matilde di Canossa

Matilde di Canossa fu una delle figure femminili di maggior rilievo del Medioevo italiano. Abile stratega e coraggiosa donna di potere, ebbe anche un ruolo fondamentale in una delle diatribe più celebri della storia: quella tra il papato e il Sacro Romano Impero.

Probabilmente tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sentito o pronunciato questo detto in riferimento a un’umiliazione di grande portata: “andare a Canossa”.

Diffuso da secoli nel linguaggio comune e divenuto, ormai, una figura retorica declinata in molteplici contesti, il modo di dire sopracitato presenta radici molto profonde e si inserisce nel solco della decennale lotta per le investiture, ossia lo scontro tra il papato e il Sacro Romano Impero che si concluse nel 1122.

Nello specifico, la lotta vide l’aspro contrapporsi tra il papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV di Franconia, il quale, come vedremo, fu l’autore – inconsapevole, ça va sans dire – del detto “andare a Canossa” – di cui fu l’indiscusso protagonista.

Quest’ultimo, tuttavia, non avrebbe avuto modo di esistere se non ci fosse stata l’intermediazione fondamentale di Matilde di Canossa, ossia una delle figure femminili più autoritarie, carismatiche e controcorrenti del Medioevo italiano.

Chi era Matilde di Canossa

Matilde di Canossa nacque a Mantova nel 1046 (come riporta Donizone, il monaco benedettino che redasse la sua biografia), da Bonifacio di Canossa, detto “Il Tiranno” e marchese di Toscana, e da Beatrice di Lotaringia, discendente di una delle famiglie imperiali più importanti del tempo, i cui parenti erano, infatti, i duchi di Svevia e Borgogna e gli imperatori Enrico III ed Enrico IV.

Sebbene si abbiano poche informazioni circa la prima parte della sua vita, è però certo che, all’età di 6 anni, Matilde dovette fronteggiare un evento che avrebbe plasmato profondamente la sua esistenza. Il 6 maggio 1052, appunto, il padre Bonifacio fu ucciso a tradimento da uno dei suoi vassalli durante una battuta di caccia, morendo dopo molteplici ore di agonia.

Alla scomparsa del padre seguirono poi, poco dopo, anche quella dei due fratelli maggiori, Federico e Beatrice. Le tragedie familiari costrinsero Matilde e la madre a governare in autonomia un territorio che, all’epoca, si estendeva dal Lazio al Lago di Garda, costituendo uno dei punti di passaggio più strategici sia per i Pontefici, sia per gli imperatori che dovevano recarsi a Roma.

Per motivi politici, quindi, Beatrice, dopo essere stata rapita e presa in ostaggio con la figlia da Enrico III (da cui si liberarono alla sua morte), cercò protezione sposandosi con Goffredo il Barbuto, duca di Lotaringia e fratello di papa Stefano IX. La famiglia dei Canossa, imparentata con i papi e padrona dell’Italia centrale e della Lotaringia, divenne, così, il casato più potente d’Europa.

Al contempo, anche Matilde fu costretta, da una clausola del contratto matrimoniale della madre, a consolidare il rinnovato potere della famiglia convolando a nozze con il figlio di Goffredo il Barbuto, Goffredo il Gobbo, di cui era cugina per ramo materno. Matilde fu, dunque, indotta a lasciare le proprie terre e a trasferirsi nella patria del novello sposo, la Lorena.

Il matrimonio, che vide anche la morte prematura di una figlia nel 1071, durò pochi anni, e si concluse nel momento in cui il casato di Lotaringia accusò la Grancontessa di “portare il malocchio”, dal momento che – come era consuetudine dell’epoca – non aveva ancora “dato” un erede maschio al suo “Signore”, il marito Goffredo.

Attuando un gesto in totale controtendenza rispetto ai canoni del secolo, perciò, Matilde decise di fuggire e di rientrare a Canossa nel 1072, opponendo un forte diniego anche ai reiterati tentativi di conquista da parte dello stesso Goffredo. Quando questi morì nel 1076, Matilde, rimasta vedova, fu finalmente libera, e si disinteressò totalmente alle sorti delle spoglie del marito scomparso.

Nello stesso anno, inoltre, avvenne anche la dipartita della madre Beatrice: Matilde si ritrovò, così, ad appena 30 anni, ad avere il dominio su un territorio vastissimo, che ebbe modo di gestire con fermezza e arguzia per ben quarant’anni, mostrando sempre la sua massima fedeltà al clero.

“Andare a Canossa”: le origini del detto

Il periodo in cui Matilde di Canossa dovette esercitare il suo potere non fu uno dei più semplici della storia medievale.

Nel 1073, infatti, Gregorio VII salì al soglio pontificio e, nel medesimo anno, il nuovo imperatore Enrico IV direzionò i suoi interessi verso i suoi possedimenti italiani. Tra i due scaturì ben presto un duro contrasto, meglio noto come “lotta per le investiture”.

A essere contrapposti, il potere temporale e il potere spirituale, in conflitto per la propria affermazione di supremazia l’uno sull’altro. Nel corso del Medioevo era, appunto, consuetudine che, mediante il rito definito “omaggio”, un signore (“senior”) conferisse a un “vassus” un possesso o un diritto (chiamato “beneficium”).

In questa prospettiva, quindi, i sovrani erano soliti nominare e investire spiritualmente vescovi e abati di propria scelta, in virtù degli scambi di beni materiali avvenuti in precedenza. Già all’inizio del 900, tuttavia, la Chiesa cominciò a rivendicare una maggiore autonomia decisionale e un’indipendenza nei confronti del potere temporale.

Il malcontento giunse al suo apice nel secolo successivo, proprio durante il pontificato di Gregorio VII, il quale attuò una vera e propria riforma ecclesiastica mirata a consolidare il primato papale sopra qualsiasi altra forma di potere. Di qui, il conflitto con l’imperatore Enrico IV, che, naturalmente contrario alla proposta del papa, ordinò a quest’ultimo di dimettersi dal proprio ruolo, ottenendo, però, una scomunica.

Ecco, dunque, le origini del detto “andare a Canossa”: per chiedere perdono a Gregorio VII e ottenere nuovamente l’obbedienza da parte dei suoi sudditi, già sollevati contro l’imperatore, Enrico IV si recò da Matilde di Canossa, presso cui, nel 1077, il pontefice era ospite, e, per ottenere udienza, rimase per ben tre giorni nel giardino della tenuta, nel gelo della neve, scalzo e vestito da penitente.

Matilde, da sempre fedele seguace della Riforma della Chiesa promulgata da Gregorio VII, ebbe, tuttavia, un ruolo chiave all’interno della diatriba, dal momento che convinse il pontefice a incontrare l’imperatore e a concedergli l’amnistia. La donna assurse, così, al ruolo di mediatrice e, se pur in modo contraddittorio, riuscì a tenere fede sia alla sua volontà di essere una buona cristiana, sia all’affetto nei confronti del cugino.

L’umiliazione di Enrico IV, però, fu solo un’astuta mossa strategica, e non eluse i contrasti che ebbero modo di riprendere poco dopo.

Emancipazione femminile ante litteram

Matilde di Canossa
Fonte: Web

Nel 1088, infatti, Matilde si trovò nuovamente di fronte a serie criticità: da un lato, le mire di Enrico IV, dall’altro, la disgiunzione da parte del nuovo pontefice in carica, Urbano II, tra il potere canossiano e quello vaticano.

Per non farsi cogliere impreparata, dunque, Matilde di Canossa decise di ricorrere a un secondo matrimonio politico, e direzionò la sua scelta verso l’erede del ducato di Baviera, il sedicenne Guelfo V. Obiettivo: creare una rinnovata rete di alleanze al fine di fronteggiare e sconfiggere l’imperatore.

In tale occasione, Matilde diede prova di un’emancipazione e di un femminismo ante litteram straordinari, nonché testimonianza di un’autorità – umana e politica – controcorrente, sagace e rivoluzionaria rispetto agli standard del suo tempo.

Come riportò lo storico Cosma di Praga nella sua Storia dei Boemi, infatti, l’allora 43enne Matilde di Canossa spedì una missiva al suo futuro consorte, dalle cui parole già si evince la determinazione e la caratura decisionale e tenace del suo carattere. Come si legge nella testimonianza riportata da Praga:

Non per leggerezza femminile o per temerarietà, ma per il bene di tutto il mio regno – scrive Matilde –, ti invio questa lettera accogliendo la quale tu accogli me e tutto il governo della Longobardia. Ti darò tante città, tanti castelli, tanti nobili palazzi, oro ed argento a dismisura e soprattutto tu avrai un nome famoso, se ti renderai a me caro; e non segnarmi per l’audacia perché per prima ti assalgo col discorso. È lecito sia al sesso maschile che a quello femminile aspirare ad una legittima unione e non fa differenza se sia l’uomo o la donna a toccare la prima linea dell’amore, solo che raggiunga un matrimonio indissolubile. Addio.

Il matrimonio non andò a buon fine, soprattutto a causa della grande differenza d’età e, pare, dell’impotenza dello sposo. Come ricorda l’Enciclopedia delle donne, e come riporta sempre Cosmo da Praga – che scrisse delle tre notti di nozze della coppia:

Il terzo giorno ella, sola, conduce il duca, solo, nella stanza nuziale, mette in mezzo dei treppiedi e sopra di essi colloca una tavola da mensa, e si mostra nuda, così come era uscita dall’utero di sua madre e dice: “Ecco, ciò che sta nascosto, tutto è davanti a te, e non v’è luogo dove si possa celare un maleficio”. Ma lui se ne stava con le orecchie basse, come un asino di mente malvagia, o il macellaio, che sta nel macello affilando il lungo coltello sopra una grassa mucca escoriata, sul punto di sventrarla. La donna stette a lungo seduta sulla tavola, come un’oca quando si prepara il nido, muovendo qua e là la coda inutilmente; alla fine, indignata, la femmina nuda s’alzò, prese con la mano sinistra il capo di quel semiuomo, sputò nella destra e gli diede un solenne ceffone.

L’annullamento del matrimonio avvenne nel 1095. Intanto, però, i dissidi politici non erano ancora terminati. Nel 1092, infatti, Matilde dovette arroccarsi sull’Appenino reggiano, nei pressi dei suoi castelli più inespugnabili, in seguito a una nuova discesa in terra italica da parte di Enrico IV. Dopo battaglie sanguinose e tormentate, l’esercito fu assediato dalla vassalleria di Matilde di Canossa, che riuscì ad avere la meglio sull’imperatore.

La vittoria portò molte città, tra cui Cremona, Milano, Piacenza e Lodi, a schierarsi con la Contessa e a venire meno al controllo di Enrico IV, che morì sconfitto nel 1106 e fu succeduto dal terzogenito, Enrico V. In questo caso, però, Matilde dovette conformarsi ai voleri di quest’ultimo, e, in occasione dell’incontro al Castello di Bianello del 1111, gli confermò i feudi messi in dubbio quando era vivo il cugino.

Quattro anni dopo, Matilde di Canossa morì di gotta a Bondeno di Roncone. Le sue spoglie vennero, poi, traslate a Roma, per volere del papa Urbano VIII, nel 1632, mentre nel 1644 trovarono una collocazione definitiva nella Basilica di San Pietro. Qui, Matilde di Canossa giace insieme ad altre donne illustri, quali la regina Cristina di Svezia, la principessa polacca Clementina Sobieska e l’erede al trono di Cipro Carlotta di Lusignano, ed è impressa nel marmo grazie alla scultura Onore e Gloria d’Italia di Gian Lorenzo Bernini.

Una degna sepoltura per una donna cardine del Medioevo italiano, testimone diretta di una delle più profonde e importanti trasformazioni della Chiesa e del suo rapporto con il potere laico. Nonché antesignana e rappresentante di alcuni concetti fondamentali dell’empowerment femminile e della lotta al patriarcato: l’autodeterminazione, la tenacia e la ribelle libertà.

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