Leaky pipeline, la scienza è un tubo rotto che perde donne

Ad oggi le donne rappresentano ancora una esigua minoranza nel mondo della scienza, soprattutto nelle posizioni di alto rilievo. I motivi di questo fenomeno, che prende il nome di Leaky pipeline, sono da ricercarsi ancora una volta nella società e nella sua cultura patriarcale.

Nonostante molti dei contributi che hanno portato a conquiste scientifiche di rilievo vengano da donne, ad oggi gli ambienti e le professioni scientifiche continuano a non essere in grado di valorizzare queste ultime, che risultano, specie in questo settore, fortemente penalizzate rispetto ai colleghi uomini. Il fenomeno è talmente radicato e diffuso che è stata coniata un’espressione ad hoc per definirlo: leaky pipeline.

Vediamo nel dettaglio in cosa consiste, quali sono le cause che lo hanno determinato e continuano a perpetrarlo e i possibili metodi per superarlo.

Leaky pipeline: cosa significa?

Leaky pipeline, letteralmente “tubo che perde”, è una metafora che allude al fenomeno del graduale abbandono delle carriere scientifiche da parte delle donne, dall’università al successivo ingresso nel mondo lavorativo.

Se si valuta la presenza delle donne nei percorsi accademici e professionali di tipo scientifico, si assiste infatti a una progressiva riduzione che può essere bene riassunta dall’immagine di un tubo che perde sempre più acqua: la presenza femminile, che risulta maggioritaria nelle posizioni iniziali, con l’iscrizione ai corsi di studio universitari fino al conseguimento della laurea, si contrae progressivamente dal dottorato in poi, fino a ridursi notevolmente tra i professori ordinari.

Come accennato, questo fenomeno interessa in particolare le materie STEM, riguardanti cioè i settori di scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, che registrano dunque una quantità molto inferiore di donne rispetto agli uomini, specialmente nelle posizioni di alto livello.

Vi è però da fare una ulteriore distinzione: in matematica e ingegneria lo squilibrio inizia ancora prima, a partire dalla laurea, con meno donne che scelgono di specializzarsi in questi campi, mentre nelle scienze biologiche le donne rappresentano più della metà degli studenti che ottengono un dottorato di ricerca, ma la maggior parte di queste non riesce poi a raggiungere posizioni di rilievo nelle facoltà accademiche.

Una ricerca condotta dall’Unesco conferma con i dati questa situazione: le donne ad oggi costituiscono meno del 30% dei ricercatori scientifici di tutto il mondo.

Le cause del leaky pipeline

Ma perché si riduce così tanto il numero delle donne nei percorsi di tipo scientifico? Proviamo a spiegarlo qui di seguito.

Una delle prime motivazioni riguarda questioni di carattere socio-culturale. I ruoli di dottorandi, ricercatori e postdoc – figure cioè impegnate in studi successivi al dottorato di ricerca – rappresentano una fase non proprio florida da un punto di vista economico e i postdoc maschi hanno il doppio delle probabilità di aspettarsi che i loro partner facciano sacrifici di carriera per loro, rispetto alle donne postdoc.

Queste ultime sarebbero quindi spinte dalle condizioni e dai pregiudizi di genere, figli di una mentalità patriarcale ancora fortemente radicata, a scegliere un percorso alternativo e a non proseguire nella loro carriera accademica. La dinamica è poi anche confermata dal fenomeno del two-body problem, o problema dei due corpi, nel quale all’interno di una coppia in cui entrambi i partner sono impegnati in carriere STEM, ad essere privilegiati, e dunque a proseguire, nella maggior parte dei casi sono gli uomini.

A questa motivazione, si aggiunge la resistenza di un sistema culturale ancora fortemente maschilista che penalizza le donne e le espone a discriminazioni sul lavoro che ne condizionano carriere e scelte di vita, soprattutto in questi ambiti. Tra queste, le più lampanti sono la sproporzione delle assunzioni a favore degli uomini e il gap salariale.

Secondo il rapporto del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea, i contratti di lavoro a tempo indeterminato in questo settore nel 63% dei casi circa vengono offerti a uomini e in media questi ultimi guadagnano 1.600 euro mensili contro i 1.300 euro delle colleghe donne.

Un sondaggio condotto dai ricercatori dell’Università di Yale ci dice poi che di fronte a candidati maschi e femmine con curriculum identici, i docenti – sia maschi che femmine – di vari dipartimenti scientifici nelle università statunitensi hanno valutato il candidato maschio come più competente e meritevole di uno stipendio più alto. È lecito pensare che questo stesso scenario si ripresenti durante le fasi di valutazione e successive promozioni.

A conferma di questo, alcuni studi mostrano come nei casi in cui i curricula siano stati presentati senza nome e altri identificatori di genere, le donne sono state scelte per i colloqui fino a 10 volte di più rispetto ai casi in cui veniva esplicitato il genere.

C’è poi da sottolineare che la stessa struttura del corpo accademico a prevalenza maschile influenza la situazione e continua a perpetrare questa tradizione: i docenti maschi sono infatti più propensi ad assumere e formare studenti e postdoc maschi, mentre le docenti donne, che sono comunque in numero inferiore, non mostrano alcun pregiudizio di genere.

Non dobbiamo dimenticare poi un altro dato essenziale: studi dimostrano che le donne nella scienza sono più propense rispetto alle loro controparti maschili a porre l’accento sull’equilibrio vita-lavoro, un aspetto che le spinge più facilmente ad uscire dal mondo accademico verso percorsi di carriera alternativi. Una scelta che viene spesso vista come una rinuncia e una sconfitta, ma che in molti casi risponde a un preciso desiderio e non a una costrizione forzata.

Ce lo spiega bene Patricia Fara, professoressa di Storia della Scienza all’Università di Cambridge, che, dopo aver iniziato la carriera accademica come fisico, è tornata a studiare per specializzarsi in Storia e Filosofia della Scienza. Fara fa quindi parte di quella schiera di donne STEM che hanno scelto di abbandonare il mondo scientifico, ma lo rivendica con orgoglio.

Ho una laurea in fisica, ma non ho più messo piede in un laboratorio da quando mi sono laureata a Oxford. Secondo gli studiosi, sono fuoriuscita dalla “pipeline” e mi sono unita alla folla di donne STEM senza successo che non sono riuscite a superare un ostacolo iniziale nella loro carriera, per non parlare poi di arrivare ai “piani alti” della scienza. Ma è un modo utile di pensare alle pari opportunità? Quel modello di fallimento si basa su due presupposti arroganti. Il più ovvio è che implica che l’abilità scientifica rappresenti l’apice della realizzazione umana.

Non sopporto l’idea che, poiché ho abbandonato la scienza, la mia vita sia stata insignificante. Forse non ho contribuito a scoprire la particella di Higgs o a viaggiare su un altro pianeta, ma sono un accademico universitario di alto livello con una serie di pubblicazioni all’attivo.

L’altro insulto nascosto è l’illazione che io sia stata spremuta. Al contrario: mi era stato offerto un finanziamento per un dottorato di ricerca, ma ero così annoiata nei due anni precedenti che non avevo alcuna intenzione di continuare a lavorare su una materia che a me – ventunenne idealista – sembrava tristemente insignificante.

Di questo tema ha parlato anche nel suo libro, A Lab of One’s Own: Science and Suffrage in World War I, in cui le esperienze di donne del passato che hanno abbandonato il mondo della scienza per dedicarsi ad altro, spinte da un preciso desiderio personale. Tra le altre, cita come esempio la leader delle suffragette Ray Strachey. Dopo aver lasciato Cambridge nel 1908 con una laurea in matematica e l’ambizione di diventare un ingegnere elettrico, Strachey abbandona questa strada per intraprendere la carriera politica e dedicarsi alla questione femminile, impegnandosi soprattutto nell’aiutare le donne a trovare un’occupazione.

Tecnicamente un “tubo che perde”, Strachey ha giocato un ruolo di primo piano nel rendere possibile alle donne di fare ricerca, servire negli ospedali e insegnare nelle università, non ha mai rinunciato alla sua lotta per assicurare la parità di retribuzione e il diritto di voto alle donne e, cosa da non sottovalutare, ha potuto mantenere se stessa e i propri figli.

Come lei, sono molte le donne del passato che con il proprio lavoro sono riuscite ad essere indipendenti. Marie Curie, ad esempio, si cui si enfatizza sempre la povertà e l’abnegazione materna, aveva i mezzi per occuparsi dell’educazione delle due figlie, prima assumendo tate polacche, poi mandandole a Varsavia per studiare alcuni mesi ogni anno.

Donne e STEM: qual è il problema?

Come detto in precedenza, le materie STEM continuano ad essere degli ambiti ad appannaggio del mondo maschile. Il rapporto Almalaurea, citato in apertura, ci dice che in Italia solo 12 donne su 1000 decidono di laurearsi in materie STEM, arrivando ad occupare poco più del 30% delle posizioni lavorative a livello tecnico-scientifico, un tasso che rappresenta il più basso d’Europa. E questo nonostante tali materie garantiscano un ben più alto tasso di occupazione: i laureati STEM raggiungono infatti un tasso di occupazione pari all’89,3%, 4,1 punti percentuali in più rispetto ai laureati nelle materie non STEM.

Ma guardando tra gli stessi laureati STEM, dobbiamo registrare un dato ancor più stridente rispetto allo scenario che si viene a delineare: le laureate STEM finiscono gli studi in maggior numero e con voti in media più alti rispetto ai colleghi uomini. Quindi, siamo nuovamente prima di tutto di fronte a un problema culturale.

Negli anni siamo stati indotti a pensare che gli uomini fossero maggiormente portati per le materie scientifiche e, viceversa, le donne per ruoli, percorsi scolastici e orientamenti di tipo umanistico o dedicati al mondo della cura, del sostegno e dell’assistenza. Questo stereotipo di genere è una delle cause principali della attuale situazione, che agisce già precocemente, in fase di scelta della scuola secondaria e dell’università. È una pratica comune e ancora troppo radicata quella di effettuare la selezione degli studi da intraprendere in base al sesso di appartenenza e non alle competenze o inclinazioni personali.

È stato poi notato come il pregiudizio di genere si intensifichi laddove la disparità di genere è meno spiccata, ossia nelle società occidentali maggiormente evolute, mentre nei Paesi più arretrati, dove la cultura maschilista è predominante, le materie scientifiche diventano uno strumento e un’occasione di riscatto sociale, emancipazione e indipendenza, spezzando più facilmente questo pregiudizio duro a morire.

Come “riparare” il leaky pipeline

Per favorire un progressivo annullamento del fenomeno è innanzitutto necessario che se ne parli: creare e diffondere programmi mirati che consentano di far conoscere questo tipo di disparità a livello globale e rendano consapevoli le donne della situazione, affrontando e contribuendo a smantellare il tabù dell’educazione di genere.

Sarebbe fondamentale adottare questo approccio sin dall’infanzia, con programmi di istruzione specifici e attenti alla questione, dove già si mostrano i segni concreti degli stereotipi di genere, che partono dai colori e i giochi più adatti a ciascuno dei due sessi, fino agli sport o alla scelta dei percorsi scolastici che influenzeranno le loro future carriere e vite.

Il cambiamento culturale deve passare però anche attraverso gesti concreti: è stato dimostrato che meno donne ci sono nelle posizioni influenti in ambito scientifico, meno donne continueranno a esserci. Una maggiore presenza di donne scienziate e ingegnere consentirebbe alle giovani di avvicinarsi con maggiore facilità e meno timori a questi percorsi e tipi di carriere, le aiuterebbe a superare gli stereotipi, ad aumentare la fiducia e ad offrire loro un senso di appartenenza a queste materie.

Anche la stampa e l’informazione possono fare tanto: conferenze dedicate a questi temi con relatrici donne e personalità note che si sono distinte in questi ambiti possono offrire esempi e modelli in grado di contribuire a diffondere una nuova sensibilità culturale e a rompere le resistenze sui soliti cliché legati al genere.

Insieme a questi, non possiamo non citare cambiamenti concreti nei processi di selezione e nei luoghi di lavoro. Dall’adozione di domande di lavoro e sovvenzione senza distinzione di genere, alla promozione di un ambiente inclusivo nei dipartimenti STEM fino all’adozione di politiche che permettano di bilanciare lavoro e responsabilità familiari, tra cui congedi parentali e di maternità.

In quest’ottica è stato lanciato STEM and Gender Advancement (SAGA), un progetto globale realizzato dall’UNESCO allo scopo di tutelare e aumentare la partecipazione delle donne nelle materia STEM a tutti i livelli, attraverso politiche adeguate a livello nazionale, regionale e globale, e considerare finalmente l’enorme spreco di potenziale scientifico e tecnologico che una ridotta partecipazione femminile in questi settori porta con sé, a svantaggio di tutti.

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