Dire basta ai manels per dire basta a un mondo raccontato a metà

I manels sono una delle manifestazioni della cultura patriarcale che ancora permea la società attuale. Ecco perché è fondamentale parlarne per contrastarne il fenomeno, sradicando atteggiamenti di facciata e favorendo un cambiamento concreto verso un approccio realmente inclusivo.

Molti passi avanti sono stati compiuti negli ultimi anni verso un’idea di società più inclusiva, eppure sono ancora tanti, troppi, i modelli discriminatori in atto da smantellare e combattere. Atteggiamenti, figli di una mentalità patriarcale, di cui ancora oggi sono le donne a pagarne le conseguenze, e che non riconoscono a queste ultime il giusto rilievo e il peso che meritano, e di fatto hanno, nel dibattito pubblico.

È in questo contesto che nascono i manels, una delle tante manifestazioni di una cultura ancora smaccatamente maschilista, che non riesce a riconoscere la parità dei diritti, anche a fronte di competenze sempre più evidenti, che non possono giustificare il divario ancora presente in ogni ambito e settore della società e delle istituzioni.

Ecco dunque cosa sono i manels, quali sono i motivi della resistenza di un meccanismo ancora così fortemente radicato e i mezzi che abbiamo a disposizione per invertire la rotta e mettere in un atto un cambiamento reale nei confronti di una società inclusiva, aperta ed emancipata.

Cosa sono i manels?

Con il termine manels si indicano i panel, convegni o tavole rotonde, che vedono la presenza quasi esclusiva di esperti e relatori maschi. È un fenomeno diffuso che investe qualsiasi settore della società, dall’economia all’ambito delle relazioni internazionali, fino a dibattiti politici, talk show televisivi, festival o eventi pubblici di vario genere.

Questo accade non per mancanza di donne competenti in materia, ma rappresenta più che altro una diretta conseguenza della cultura patriarcale, ancora radicata tra le fila della società odierna, che vede ancora oggi l’esclusione delle donne da posizioni di potere e dai vertici di aziende e istituzioni.

La vicenda è quindi ancora una volta fortemente legata al vecchio tema del soffitto di cristallo, ma a differenza degli scorsi decenni, in questi ultimi anni, sembra esserci una maggiore consapevolezza e una mobilitazione attiva da parte delle protagoniste escluse, e da un sempre più nutrito gruppo di uomini, come dichiara Holly Else in un suo articolo sul Nature:

La manference e il suo fratello – il ‘manel’, o panel solo maschile – non hanno ancora raggiunto le pagine dei dizionari, ma hanno preso piede come hashtag sui social media all’inizio degli anni ’20. Questo modello di panel/conferenze tutto maschili è diventato così dilagante dal 2010 che i gruppi femministi di tutto il mondo hanno iniziato a sfidarli, e molti hanno persino boicottato eventi che non hanno donne nei panel.

Nel nostro Paese, la prima a porre maggiore rilievo su questo modello discriminatorio, presente in tutti gli ambiti e livelli della società e del dibattito pubblico, è stata la scrittrice Michela Murgia, che nel 2018 ha lanciato l’hashtag #tuttimaschi per denunciare l’assenza di quote rosa nell’ambito dei discorsi e delle dinamiche di pubblica rilevanza. E lo ha fatto con un monologo portato in scena l’anno successivo a teatro, dal titolo emblematico Dove sono le donne:

Se arrivassero gli alieni domattina e cercassero di farsi un’idea del genere umano guardando ai luoghi della rappresentazione pubblica, probabilmente penserebbero che un virus misterioso abbia colpito tutte le persone di sesso femminile d’Italia, rendendole mute o incapaci di intendere e volere.
Il governo, i dibattiti televisivi e le prime pagine dei quotidiani traboccano di interventi maschili. Eppure, le donne non sono una sottocategoria socioculturale ma più della metà del genere umano.

Perché i manels sono la norma

Da una lettura superficiale, potrebbe sembrare che all’origine di questo fenomeno vi sia una difficoltà a reperire nomi di donne disponibili a intervenire nei dibattiti pubblici. Queste sono spesso le motivazioni a cui gli organizzatori adducono per giustificare la scarsa presenza femminile in molti dei più celebri eventi del mondo della politica, del giornalismo e della cultura, giusto per citarne alcuni.

La verità è che, come accennato prima, questa difficoltà risiede prima di tutto nel fatto che sono prevalentemente ancora gli uomini a ricoprire i vertici delle scale gerarchiche, bacini dove in genere si guarda per ricercare relatori. Inoltre, proprio per questa anomalia, figlia del patriarcato, spesso gli stessi comitati organizzativi di convegni e tavole rotonde dei più svariati ambiti, sono composti per la quasi totalità da uomini. È evidente quindi come il problema sia strutturale e culturale insieme, e non solo una mera considerazioni di numeri.

A scanso di equivoci, è bene precisare subito che i dati parlano chiaro. In Italia sono infatti di più le donne con una laurea o un dottorato rispetto agli uomini: nello specifico, stando ai dati rilevati dal consorzio universitario Almalaurea e relativi all’anno 2019, le donne rappresentano il 58,7% del totale dei laureati, una quota ormai stabile da circa un decennio.

Non solo, le studentesse si sono laureate con una media di 101,1 contro il 98,6 dei loro colleghi maschi. È evidente quindi come lo scarso numero di donne ai vertici e in posizioni di prestigio non possa essere imputabile a un problema di tipo quantitativo né qualitativo.

Esempi recenti di manels

Uno dei casi più recenti è stato il tavolo di lavoro sulla ripartenza dopo la pandemia, organizzato dall’Associazione Mecenate 90 nel giugno 2020, che ha visto la presenza di soli uomini. L’evento ha ottenuto grande risonanza mediatica grazie alla reazione del Ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, che ha rifiutato di presenziare all’incontro, spiegando nel dettaglio le motivazioni in un tweet.

Queste le parole del ministro, a commento del post dell’Associazione, che riportava la lunga lista dei partecipanti uomini:

Me ne accorgo solo ora. È l’immagine non di uno squilibrio, ma di una rimozione di genere. Mi scuso con organizzatori e partecipanti, ma la parità di genere va praticata anche così: chiedo di togliere il mio nome alla lunga lista. Spero in un prossimo confronto. Non dimezzato, però.

Sempre di questo anno è l’altro grande evento tutto al maschile, tenutosi lo scorso settembre, nel corso del Festival della Bellezza di Verona, nel quale, dei 22 relatori presenti, solo due erano donne, l’attrice Jasmine Trinca e la pianista Gloria Campaner. Immediate le critiche alla manifestazione, che si sono espresse soprattutto via social, in particolare su Twitter, con l’hashtag #tuttimaschi, riprendendo quel famoso monito della Murgia, da cui tutto aveva avuto origine.

Non solo, alla mobilitazione social era seguito anche un gesto concreto, il controfestival Erosive, la risposta femminista all’evento di Verona, organizzato nella stessa città dalle attiviste di Non una di meno.

Un gruppo di intellettuali, artiste, giornaliste e scrittrici, tra cui Michela Murgia, Chiara Valerio e Giulia Blasi, hanno dato origina a una serata culturale dedicata al tema dell’eros e alle sue declinazioni attraverso il mondo della filosofia, delle arti e della linguistica.

Così si esprimevano le attiviste di Non una di meno sull’iniziativa, usando parole che risuonano come una sorta di manifesto ideologico, rappresentativo di una cultura dell’inclusione che tagli definitivamente i ponti con la mentalità stagnante e retrograda del passato:

Vogliamo sia una cultura erosiva: di stereotipi, muri, discriminazioni e declamazioni. E anche generativa, capace di mettere al mondo nuovi mondi.

Pinkwashing: la finta lotta al maschilismo

Ma perché vi sia un concreto cambiamento nella realtà, è bene anche stare in guardia dai pericoli di meccanismi di facciata, o per meglio dire di un vuoto politically correct, messi in atto da istituzioni o aziende e volti a garantire una rappresentanza femminile per il solo scopo di dimostrarsi impegnati nella lotta agli stereotipi.

Questo fenomeno è chiamato pinkwashing e allude all’ipocrita tentativo di una certa mentalità maschilista di rappresentare le quota rosa per una mera questione di immagine, senza di fatto mettere in atto un cambiamento virtuoso e dare avvio a un dibattito plurale e inclusivo, in grado di portare davvero un arricchimento della società.

Un fenomeno, quello del pinkwashing, molto vicino nella sostanza al glass cliff, o scogliera di cristallo, una pratica molto diffusa nell’ambito delle aziende, che vede l’assegnazione di ruoli di potere a donne in condizioni difficili o di particolare crisi. In questi casi, dunque, quello che può essere visto come un gesto emancipato e inclusivo, nasconde in realtà un intento sessista volto ad associare il fallimento e la sconfitta alla figura femminile.

Della necessità di una pluralità di voci e di un confronto ricco ed eterogeneo a garanzia di una società emancipata e all’avanguardia, parla anche Elizabeth McCullagh, professoressa del Dipartimento di Biologia Integrativa dell’Oklahoma State University e tra i fondatori dell’organizzazione 500womenscientists.org, nata con l’intento di  costruire una comunità scientifica inclusiva e diversificata. Così si esprime al riguardo la McCullagh, come riferisce il Nature Index:

 Se pensiamo scientificamente, maggiore è la diversità di voci che abbiamo, migliore sarà la nostra scienza. Se si parla solo con persone che hanno le tue stesse opinioni, potresti avere la falsa sensazione che quello che stai facendo sia perfetto ed esattamente quello che dovresti fare. Ma se si ottiene una diversità di voci e opinioni, allora si può essere più critici sul proprio lavoro, il che porta sempre a una scienza migliore.

La lotta contro i manels

Negli ultimi anni si sta mostrando una consapevolezza diversa circa il poco spazio dedicato alle figure femminili nei posti di potere e nei dibattiti pubblici che contano. Sono molti gli aspetti che possono aiutarci a creare una sempre maggiore consapevolezza del problema e favorire un concreto cambiamento che parta dal basso.

Uno di questi è senza dubbio l’impegno dei primi responsabili di questo meccanismo fallace, gli uomini. Il gesto del ministro Provenzano di rifiutare di presenziare a uno dei tanti manels di questo tempo, ha infatti aiutato a creare consapevolezza su scala globale e a sensibilizzare la questione, raggiungendo anche i non addetti al settore e a porre il problema davanti agli occhi di tutti.

Anche la mobilitazione social ha un ruolo attivo in questa dinamica: hashtag e pubbliche prese di posizione, sia di personalità note che di persone comuni, possono rappresentare un amplificatore efficace di tematiche di rilievo, raggiungendo un pubblico sempre più ampio e una crescente consapevolezza della necessità di un reale cambiamento che investa tutti i settori e gli ambiti della società.

Accanto a queste, ci sono poi concrete associazioni che vigilano sul rispetto di un dibattito plurale e inclusivo, tra queste, citiamo il blog di Tumblr Congratulazioni! You Have an All-Male Panel e il gruppo Facebook #BoycottManels, tutte nate con l’intento di smuovere le coscienze e chiedere ai partecipanti di disertare dibattiti ed eventi che non garantiscono al loro interno una dignitosa presenza delle donne.

Se è vero che molto possono fare le iniziative dal basso, è altrettanto vero che un segnale forte e più incisivo può venire da organi e istituzioni di rilievo che, con forti prese di posizione, possono dare un concreto esempio e aprire la strada ad altri, mettendo in atto un vero cambiamento.

In questo senso è da segnalare l’impegno del Nature, una tra le già celebri e quotate riviste scientifiche, che ha recentemente dichiarato la necessità stringente di organizzare eventi e dibattiti inclusivi, pubblicando un messaggio che suona al tempo stesso come un mea culpa per atteggiamenti ancora figli della cultura discriminatoria e maschilista, e un invito a un cambiamento di rotta che sia concreto e non solo illusorio e superficiale. Queste le parole fortemente significative che ci auguriamo possano essere un’ispirazione per molte altre autorità e istituzioni:

Nel 2019, Nature e altre riviste del portfolio Nature Research hanno ospitato, o co-ospitato, più di 30 eventi in una serie di discipline. Ma nonostante gli sforzi informali per rendere le nostre conferenze più inclusive, le donne e le persone appartenenti a gruppi minoritari costituiscono ancora solo una piccola parte dei nostri relatori. Stiamo quindi formalizzando i nostri sforzi in un codice di condotta pubblicato. Questo vale non solo per le Conferenze sulla natura, ma anche per tutti gli eventi accademici organizzati o co-organizzati da Springer Nature.

Il codice ci impegna a non pianificare da questo punto in poi nessun comitato organizzatore di soli uomini per le Conferenze sulla natura. Inviteremo un numero uguale di donne e uomini come relatori, sia che selezioniamo per le presentazioni principali che per le presentazioni astratte. Ci impegniamo anche a non avere solo uomini ai nostri eventi, e a monitorare e riferire i progressi compiuti rispetto a questi obiettivi alla fine di ogni anno solare. La pianificazione della maggior parte dei nostri eventi nel 2020 è già in fase avanzata, quindi il nostro impegno avrà pieno effetto a partire dal 2021.

Le Conferenze sulla natura devono essere accoglienti, sicure, collaborative e produttive per tutti i partecipanti. Il nostro codice afferma che ci aspettiamo che i partecipanti siano rispettosi delle diverse opinioni e culture, e rispettosi e collaborativi nella discussione e nella critica delle idee. In caso di mancata osservanza del codice verranno applicate sanzioni adeguate.

Ci impegniamo inoltre a sostenere la diversità in modo più ampio, anche per quanto riguarda la geografia, l’etnia, la cultura, la fase di carriera, la disabilità e l’orientamento sessuale. Con il tempo, puntiamo a sviluppare ulteriormente il nostro codice per affrontare questo aspetto in modo esplicito.

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