Carlotta Vagnoli e il corpo delle donne: "Posso mostrare il c*lo ed essere femminista"

Dobbiamo monitorarci, metterci in discussione, stringere sorellanze in grado di scardinare l'educazione ricevuta e imparare ad andare oltre quel pudore che abbiamo mutuato da una cultura tesa a considerare il nostro corpo di donne come sporco, scabroso, peccatore e svilente. Non lo è mai stato. Eppure saperlo non ci impedisce, a volte, di provarne ancora vergogna.

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Ho “incontrato” Carlotta Vagnoli, attivista, autrice e sex columnist, su Instagram seguendo Irene Facheris (cimdrp sui social), attivista, formatrice e presidente di Bossy, che lo scorso hanno ha tenuto per noi la rubrica Sui generi(s) – Qui si parla di parità.

A dimostrazione del fatto che non basta rifiutare il maschilismo, ma bisogna proprio estirparselo da dentro, tanto è radicato in noi e nella nostra cultura (anche quando pensiamo di combatterlo), la prima volta che sono finita sul profilo di Carlotta Vagnoli mi sono chiesta: “Ma cosa c’entra lei con il femminismo?
Come fa a dirsi e a essere considerata femminista e attivista una che si scatta selfie con intimo in latex e in pose sexy sicuramente tanto gradite allo sguardo maschile, nonché maschilista?”.

Capito? Non conoscevo Carlotta Vagnoli, non sapevo nulla della sua storia e del suo impegno, nulla, eppure nella mia testa l’avevo già involontariamente etichettata come una sorta di “ancella del patriarcato”.
Ecco un esempio perfetto di come il maschilismo lavori anche laddove pensiamo di non esserne vittima, sotto forma di pregiudizio, agendo anche tramite chi è o si pensa femminista a scapito di ogni donna che non aderisca a modelli di comportamento e di rappresentazione ritenuti accettabili dalla nostra educazione (maschilista, non serve dirlo!).

Effettivamente, a sentire Vagnoli, lei “figlia del patriarcato” e “bulletta misogina” (parole sue!) lo è stata davvero, ma prima.
Prima di incontrare il pensiero femminista, suo malgrado a seguito di una storia di abuso e violenza di genere che l’ha portata a frequentare i centri antiviolenza e, da lì, le associazioni e i collettivi femministi.

Oggi Vagnoli quel corpo di donna l’ha liberato: il suo e il concetto di corpo di donna in generale, che storicamente è stato e resta tuttora un campo di battaglia su cui si accaniscono uomini, istituzioni, religioni e persino le altre donne, per mortificarlo, colpevolizzarlo, possederlo, umiliarlo e, soprattutto, controllarlo.

Quello che Carlotta Vagnoli sui suoi canali social sceglie (uso questo verbo non a caso) di fare con e del suo corpo è qualcosa di privato che si fa, consapevolmente, atto politico.
Perché il personale è politico, come i femminismi del passato ci hanno tramandato.
Perché il corpo della donna, nonostante le lotte del passato, non è mai stato liberato davvero: molto resta da fare e anche i diritti che ci sembrano acquisiti vanno difesi perché è sempre più evidente che possono esserci tolti da un momento all’altro (e più forze stanno lavorando a questo scopo).

Che senso ha, quindi, raccontare l’aneddoto della superficialità di chi scrive nel valutare un’altra donna, cui poi ho chiesto di prendere voce in questa intervista?
Perché se il personale è politico, è una necessità politica anche rendersi conto di come spesso quel nostro personale, anche di femminist*, resta impregnato dell’educazione di secoli di patriarcato.

Dobbiamo monitorarci, metterci in discussione, stringere sorellanze in grado di scardinare l’educazione ricevuta e imparare ad andare oltre quel pudore che abbiamo mutuato da una cultura tesa a considerare il nostro corpo di donne come sporco, scabroso, peccatore e svilente.
Non lo è mai stato. Eppure saperlo non ci impedisce, a volte, di provarne ancora vergogna.

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