Femminismo nero: che cos'è e perché è importante

Nel coacervo di lotte in cui siamo impegnati, spesso perdiamo di vista un fattore essenziale: non esiste un “soggetto donna” che sia valido universalmente, e, di conseguenza, il femminismo non può essere considerato da una prospettiva univoca – quella della donna bianca, di classe media e dotata di indiscutibile privilegio –, bensì richiede un approccio “globale”, in grado di rendersi consapevole della stratificazione di problemi che affliggono le donne in tutti gli angoli del pianeta, e non solo quelle della nostra parte di mondo.

Ci battiamo per eliminare il gender pay gap, per distruggere e superare il soffitto di cristallo, per avere pari trattamento – in ambito lavorativo e domestico – rispetto agli uomini, per eliminare la violenza di genere e, nel complesso, per avere una maggiore autonomia decisionale sulla nostra vita, senza essere soggiogate da dinamiche patriarcali e maschiliste.

Battaglie fondamentali, per le quali è necessaria la coesione di tutte le persone coinvolte, e che richiedono la massima partecipazione di attivisti, femministi e individui che desiderano sovvertire l’ordine sociale vigente e cambiare, in meglio, la situazione delle donne di tutti i Paesi.

In questo coacervo di lotte, tuttavia, spesso perdiamo di vista un fattore essenziale: non esiste un “soggetto donna” che sia valido universalmente, e, di conseguenza, il femminismo non può essere considerato da una prospettiva univoca – quella della donna bianca, di classe media e dotata di indiscutibile privilegio –, bensì richiede un approccio “globale”, a 360° gradi, che sia in grado di rendersi consapevole della stratificazione di problemi che affliggono le donne in tutti gli angoli del pianeta, e non solo quelle della nostra parte di mondo.

Per farlo, appare essenziale ascoltare in modo attivo le voci di tutte le femministe, di tutte le culture, le religioni, le classi sociali e le etnie dalle quali provengono, e tentare di organizzare una lotta che sia davvero “inclusiva”, per far sì che il movimento parteggi davvero per ciascuna donna esistente, non solo a parole, ma mediante fatti concreti.

Da questo punto di vista, è di notevole importanza il lavoro svolto dal femminismo nero, promotore, tra le altre cose, anche del concetto di intersezionalità caro alla maggior parte delle attiviste odierne. Scopriamone i dettagli.

Le protagoniste del femminismo nero

Una delle prime ad accorgersi di tale disparità nella battaglia femminista fu la scrittrice, studiosa e attivista statunitense bell hooks, pseudonimo di Gloria Jean Watkins ispirato al nome della bisnonna materna Bell Blair Hooks, fonte di ispirazione per i suoi modi e linguaggi vivaci ma assertivi.

hooks ebbe modo di sperimentare il dislivello di prospettiva nell’ambito del mondo culturale e accademico di cui faceva parte. Nello specifico, la femminista provò, come si legge su Valigia Blu, un profondo senso di isolamento nei circoli popolati dalle donne bianche.

Il motivo: nei discorsi affrontati e nei momenti di scambio e condivisione, il tema della classe e della razza non erano mai presi in considerazione. E quando lei stessa provava a porli in rilievo, le sue parole andavano incontro a incomprensioni e notevoli sforzi di assimilazione.

Di qui, hanno iniziato a insidiarsi le radici del femminismo nero, al quale bell hooks dedicò gli scritti e gli studi della sua vita, e che godette, inoltre, di un notevole successo non solo all’interno dell’ambiente scolastico, ma anche e soprattutto al suo esterno, estendendosi oltre i confini imposti da testi accademici spesso complessi da capire.

La ragione alla base della diffusione prorompente delle riflessioni di hooks si deve, infatti, alla sua volontà di affrontare il carattere caleidoscopico dell’essere donna, intesa non solo come rappresentante borghese della classe media statunitense, ma osservata dal punto di vista di tutte le questioni che la caratterizzano, ossia quelle di classe, razza, genere e delle diverse intersezioni che si affastellano.

Ne ha parlato anche la scrittrice italo-ghanese Djarah Kan su L’Espresso:

Sono cresciuta con l’immagine della donna bianca emancipata e accattivante che si contrappone orgogliosamente a quella della straniera del Terzo Mondo, fragile, ignorante e incapace di rispondere alla violenza del sistema patriarcale. Per come viene raccontato, il femminismo sembra essere una roba da donne bianche. Un sistema di pensiero troppo in là per queste donne del Terzo Mondo troppo impegnate a sfornare figli e a badare alle galline in qualche sperduto villaggio semideserto del Sud del mondo.

Un privilegio portato avanti dalle stesse femministe, spesso poco attente alle istanze delle attiviste “non occidentali”. Continua, a tal proposito, Kan:

Questo approccio alla questione di genere fuori dai confini occidentali è stato anche il peccato originale del femminismo liberale, che è sempre stato velenosamente bianco, razzista, e che con quel suo sguardo paternalista non ha mai voluto considerare sufficientemente progressiste o degne di nota le battaglie di tutte quelle storiche, filosofe, scrittrici, attiviste e politiche non bianche considerate piuttosto come “sorelle minori un po’ abbronzate” di una battaglia tutta da apprendere.

Un’univocità di pensiero e narrazione di cui tutte, più o meno consapevolmente, siamo responsabili, e che necessita di essere smantellata. Ma come?

Oltre il pensiero unico: il femminismo intersezionale

Se per una donna bianca abbandonare la casa e il “focolare” rappresenta l’emancipazione dal dominio maschilista, per una donna di colore lo stesso “focolare domestico” può assumere un significato totalmente diverso e fungere da garanzia e protezione rispetto alle minacce ricevute al suo esterno.

Quello della casa è solo un emblema, tra molti, di come sia irrispettoso e profondamente sbagliato livellare le esperienze vissute dalle donne, senza tenere conto che gli ostacoli posti dalla società non siano i medesimi per tutte. Per esempio, le sfide affrontate dalle femministe africane (e non afroamericane, attenzione!) sono piuttosto dissimili da quelle delle femministe bianche, e interessano tematiche a queste ultime sconosciute, come il colonialismo, il contesto capitalistico globale, la salvaguardia ambientale e la conquista dell’indipendenza nazionale.

E sono proprio le tre forme primarie di oppressione subite dalla donna nera africana, come scrive la studiosa afroeuropea Natasha Aidoo su In genere, ossia quelle di razza, genere e classe, ad aver posto in evidenza la simultaneità di fattori differenti ma equamente importanti, e ad aver creato, di conseguenza, il concetto di intersezionalità da parte di Kimberlé Crenshaw, definita come:

La presa di coscienza della necessità di una chiave interpretativa e di indagine, che permetta di riunire in un’unica lente l’interdipendenza e la sovrapposizione tra diverse categorie del potere.

Il femminismo intersezionale crea, dunque, una sorta di solidarietà e unione tra le molteplici individualità soggiogate, spesso distanti le une dalle altre e ora unite sotto l’egida di un obiettivo comune: quello di rivoluzionare la società e ribaltare lo status quo.

Per tale motivo, il movimento abbraccia tutte le persone tendenzialmente poste ai margini, come quelle trans, con disabilità, omosessuali, nere e migranti, e tenta di rinsaldarne i punti in comune, per rendere visibili le cosiddette “minoranze” e accrescerne il potere – di parola, espressione, movimento – all’interno della comunità in cui sono ghettizzate.

Perché, come sottolinea Aida Hurtado:

È solo attraverso l’integrazione della teoria femminista di una critica delle diverse forme di oppressione sperimentate dalle donne che un movimento politico delle donne può crescere, fiorire e durare.

Soltanto in questo modo, ascoltando le esigenze di tutte le donne e le minoranze del mondo e acuendone l’eco, è possibile smantellare il sistema occludente in cui siamo immersi. È ora di agire, uniti nelle “differenze”.

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