Sappiamo che la situazione lavorativa delle donne, in Italia e nel mondo, presenta ancora penose lacune, con gap salariali elevati, disparità di trattamento e discriminazioni relative a maternità e alle velleità familiari che, soprattutto in fase di colloqui, riguardano quasi esclusivamente le donne.

Non è un caso se, ancora oggi, abbiamo bisogno di parlare delle cosiddette quote rosa, che a dispetto di quel che molti pensano non sono una rivendicazione o una pretesa femminista, ma anzi il segnale lampante che la strada per ottenere davvero la parità – ovvero il punto in cui non avremo più bisogno di “quote” – è ancora molto lunga.

Certo le donne oggi lavorano, alcune (una percentuale davvero esigua) ricoprono anche ruoli di prestigio, ma è come se fossero bloccate in un punto da cui, se non possono più scendere, non possono più neppure salire: è quello che viene definito come il soffitto di cristallo, ovvero il glass ceiling.

Glass ceiling, il fenomeno del soffitto di cristallo

È la futura direttrice di Family Circle, Gay Bryant, a usare per prima il termine, nel 1984, nel corso di un’intervista in cui afferma

Le donne hanno raggiunto un certo punto, io lo chiamo ‘il soffitto di cristallo’. Sono nella parte superiore del middle management, si sono fermate e rimangono bloccate. Non c’è abbastanza spazio per tutte quelle donne ai vertici. Alcune si stanno orientando verso il lavoro autonomo. Altre stanno uscendo e mettono su famiglia.

Il glass ceiling va quindi a diventare l’insieme dei vincoli, di natura discriminatoria, che impediscono una progressione nel proprio settore lavorativo ad alcune categorie sociali, nella fattispecie le donne. È un tetto trasparente, invisibile, attraverso cui chi sta sotto riesce a vedere cosa c’è sopra e viceversa, ma a tutti gli effetti esistente.

Negli anni ’80 questa espressione è stata accostata anche al termine “mommy track“, con cui si indicava la tendenza di molte aziende dell’epoca di sottostimare l’impegno lavorativo delle donne, sia prima che dopo la maternità, spingendole verso la sola versione di mamma e precludendo loro la partecipazione ai più alti interessi dell’azienda.

Ma nel tempo il glass ceiling è diventato “proprietà” anche delle rivendicazioni femministe, che nelle campagne per il diritto al lavoro femminile ne hanno fatto un baluardo patriarcale da abbattere.

Del resto, che ci siano forti condizionamenti di carattere sociale, culturale e psicologico dietro l’esistenza di questa barriera è evidente; se sul piano legislativo non esiste alcuna normativa – parliamo dei Paesi occidentali – che vieti alle donne di accedere alle posizioni lavorative più alte, nei fatti il modus operandi delle aziende tende ancora oggi a preferire gli uomini in certi ruoli occupazionali, come testimonia l’esiguo 3% di donne nei ruoli dirigenziali riportato dalle ultime analisi. Il concetto di glass ceiling è ben spiegato anche in questo post Instagram di mela.leggo.

Esiste persino un Glass-Ceiling Index, realizzato dal 2013 dal The Economist, che raccoglie i dati in 29 Paesi, misurando in quali stati le donne abbiano maggiori possibilità di ricevere trattamenti paritari sul lavoro. L’indice è basato su vari parametri, fra cui il numero di donne nei ruoli manageriali, quelli in parlamento, quelle con alti livelli di istruzione.

Glass ceiling in sociologia

Sociologicamente parlando ci troviamo di fronte a una segregazione occupazionale, che generalmente può essere di due tipi: orizzontale (alcuni individui sono impiegati in un ristretto numero di occupazioni) e verticale, in cui i livelli di lavoratori sfavoriti sono quelli gerarchicamente inferiori. È proprio in questa seconda categoria che si verifica il fenomeno del glass ceiling, dato che impedisce alle persone segregate di progredire di livello.

Per chi cerca di minimizzare il problema, o addirittura per i suoi negazionisti, ci sono dati incontrovertibili che affermano esattamente il contrario: il glass ceiling – purtroppo – esiste eccome. Abbiamo appena citato l’indice del The Economist, in base al quale emerge questo tipo di risultati: se la Svezia detiene il primato nell’aumento della forza lavoro femminile (80%), e in generale tutti i Paesi del Nord Europa si attestano su ottimi livelli, diversa è la situazione in Paesi come Giappone, Turchia o Corea del Sud.

C’è inoltre un aspetto curioso, sottolineato dal New York Times, rispetto al fenomeno del Me Too: ben il 43% degli uomini allontanati dal posto d lavoro perché accusato di molestie e violenze sessuali è stato rimpiazzato proprio da donne.

Glass ceiling e patriarcato

glass ceiling
Fonte: web

Come detto, è inutile non scorgere una connessione tra insufficiente presenza femminile nei ruoli occupazionali che “contano” e retaggi patriarcali; se è vero che ancora oggi qualcuno si ostina a dare un genere persino ai mestieri – le maestre, chissà perché, sono quasi sempre donne, gli ingegneri quasi sempre uomini – lo è altrettanto il fatto che questa tendenza maschilista a considerare certi lavori “inaccessibili” per la controparte femminile porti a considerare le donne “diverse”, ovvero chiunque non rientri nell’ottica che piace ai sessisti, come automaticamente odiose o antipatiche.

La scrittrice, filosofa e fondatrice del progetto Tlon Maura Gancitano ne fa un’analisi perfetta in un’intervista per Linkiesta, esaminando i personaggi di Chiara Ferragni, Greta Thunberg o Alexandria Ocasio-Cortez.

Pensate a Chiara Ferragni. Da anni sta dimostrando che si può essere donna in un modo diverso rispetto al modello di moglie remissiva e sottomessa al marito a cui siamo stati abituati. È una imprenditrice di successo e sicura di sé. Ha avuto un figlio, si è sposata ma questo non ha cambiato di una virgola la sua quotidianità – spiega Gancitano, aggiungendo che l’antipatia suscitata dipenda dal fatto che – non si nasconde e mostra con orgoglio una vita di coppia che agli italiani sembra strana.

Non sono abituati a una moglie più famosa del marito, non sottomessa. Dalle storie di Instagram sembra addirittura che sia più Fedez a stare con il figlio. Lui non cerca di sopraffarla, di rubarle spazio. Quando la vediamo il primo sentimento è il fastidio perché è visibile e non nasconde la sua felicità. Il fatto che una donna così giovane sia riconosciuta a livello mondiale con un lavoro che ancora oggi non viene considerato un lavoro è fuori dagli schemi dell’italiano medio.

Una figura come quella della giovane Greta Thunberg infastidisce perché rimette in discussione anni e anni di prospettive maschili – e maschiliste – rispetto al ruolo della donna

[…] tutti pensiamo che le donne debbano essere controllabili e fare cose approvate dal senso comune. Se tu hai 16 anni devi andare per forza a scuola. Ma allora tutti i ragazzi che a 16 anni lasciano gli studi per giocare a calcio? Perché loro sono considerati degli eroi moderni, mentre Greta no?

Alexandria Ocasio-Cortez, invece, ha un altro dei problemi che affliggono le donne, quello di essere troppo bella; perché, come spesso sentiamo ripetere, se una donna lo è non può essere anche intelligente.

Dicono che sia manovrata da qualcun altro perché una ragazza così bella non può essere anche preparata. Quando si presenta alle sedute del Congresso, spesso la stampa si concentra sul suo rossetto acceso o sugli orecchini appariscenti che indossa. Osserviamo il corpo della donna in modo morboso e non facciamo così per l’uomo. Basti pensare a quello che è stato detto dei capezzoli di Carola Rackete o le facce di Hillary Clinton.

Gancitano riassume il tutto in un problema di educazione atavico, che inevitabilmente fatica a essere svecchiato.

[…] siamo stati educati così. Dalla famiglia alla scuola. Ci sono libri alle elementari dove si dice: ‘Il papà lavora, la mamma stira’. È un problema soprattutto italiano. All’estero cose considerate normali da noi come il catcalling, ovvero il fischiare le donne per strada, non si fanno. Tutte le donne volitive, testarde o che fanno lavori considerati maschili, sono criticate. Mentre le stesse caratteristiche sono considerate positive per gli uomini. Se poi il loro corpo e la loro immagine non si adegua agli standard è ancora peggio.

Il quadro italiano post lockdown, descritto da Michela Murgia nel suo intervento ai cicli di incontri L’Espresso Live al Circo Massimo, dà un’idea ancora migliore, perché concreta, della diversa considerazione fra il lavoro femminile e quello maschile:

Dopo il primo via libera del 4 maggio, su 10 italiani tornati al lavoro, 7 erano uomini. Sono andati persi 84mila posti di lavoro, di cui 65mila donne. Le donne – afferma la scrittrice – sono considerate parte dello stato sociale, del welfare, devono occuparsi delle fragilità dei bambini e degli anziani.

Murgia, inoltre, snocciola tutti i nomi, maschili e femminili – con una netta predominanza dei primi – che dirigono giornali, o che occupano posti di rilievo in magistratura, politica, università e impresa. Una maggioranza schiacciante che porta a una presa di coscienza doverosa: per le donne la strada è sempre più in salita. Devono dimostrare di più, lavorare il doppio, scavalcare ostacoli che gli uomini non incontrano.

E, per farlo, spesso devono “maschilizzarsi”, andando a incarnare quei cliché della donna in carriera e della donna forte, che non sono che versioni stravolte di una femminilità che è evidentemente considerata “sbagliata”, sui luoghi di lavoro.

La mascolizzazione richiesta alle donne che ambiscono a ruoli di prestigio nei propri lavori è ben sintetizzata in questo articolo di Tlon che analizza il personaggi di Daenerys, de Il trono di spade.

Nella nostra società esiste un solo modello di potere: quello incarnato dall’eroe, un individuo solitario che lotta contro le avversità e distrugge i nemici. Un tale stereotipo veicola l’idea che per avere potere sia necessario essere iper-produttivi, competitivi, ossessionati, senza scrupoli, e che il potere risieda nelle grandi azioni eclatanti, mentre le piccole non abbiano alcuna influenza.

Secondo James Hillman, questo modo di pensare al potere è una delle peggiori malattie della nostra società: l’individuo posso scegliere se diventare parte del meccanismo o se tirarsi indietro, ma non può immaginare di dare vita a un altro meccanismo, a un circolo virtuoso che si sostituisca al circolo vizioso. Si può immaginare di distruggere la ruota, come desidera Daenerys, ma non di sostituirla con un altro meccanismo paritario, che non comporti la sopraffazione e la sottomissione di qualcuno.

[…] la difficoltà di Daenerys nasce dalla sua educazione: le è stato detto che esercitare il potere significa minacciare di morte, imporsi, instillare paura e malessere nei sudditi e nei propri sottoposti. Per quanto cerchi di superarlo, quel modo di pensare continua a guidare le sue azioni e porta al fallimento qualunque gesto di parità e misericordia che compie.

Questo mette in evidenza un aspetto fondamentale: i condizionamenti culturali sono prima di tutto condizionamenti cognitivi. I nostri pensieri, infatti, sono quasi sempre non originali, indotti. Giudichiamo un uomo più autorevole di una donna, e una persona elegante più autorevole di una persona vestita in modo trasandato perché siamo indotti a fare così. Non ci rendiamo conto che non è un nostro pensiero, ma il frutto della nostra educazione, di ciò che la società ci ha indotti a credere fin da piccoli. Per creare un vero cambiamento occorre fare attenzione ai propri pensieri, soprattutto a quelli che impediscono di immaginare nuove possibilità.

In sostanza, per smettere di aderire al patriarcato non è sufficiente diventare potenti: occorre cambiare radicalmente, anche se il cambiamento radicale fa paura e sembra impossibile.

Come rompere il soffitto di cristallo?

Se il problema è prima di tutto culturale ed educativo, appare chiaro che proprio da lì occorra ripartire per ripensare un modo diverso di concepire il lavoro, in cui le competenze e le peculiarità maschili e femminili possano essere integranti e non avversarie. È però innegabile che anche la politica debba impegnarsi per promulgare leggi nuove, o implementare quelle già esistenti in tema di lavoro femminile, per compensare questo sbilanciamento e consentire di rompere il glass ceiling.

Pensiamo, ad esempio, alla legge Golfo-Mosca emanata nel 2011 al fine di tutelare la parità di genere nell’accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati; secondo un’analisi del Sole 24 Ore basata su dati FactSet, la percentuale di donne presente nei board delle aziende italiane quotate è del 36,4%, fra le più alte al mondo, a confronto di una media euroepa che si attesta al 26,7%.

Eppure, lo stesso incremento non si è verificato, ad esempio, nelle prime linee manageriali delle aziende; ciò significa che siamo ben lontani da una misura complessiva soddisfacente.

Bisognerebbe poi cercare di valorizzare quelle che sono considerate differenze nell’approccio al lavoro maschile e femminile, valutando le seconde come valore aggiunto e non ostativo ai goal aziendali: diversi studi hanno evidenziato come la diversità di genere, e un’alta presenza di donne a livello dirigenziale, permetterebbe di generare un maggior reddito operativo e di creare più valore nel lungo periodo, abbattendo quindi i cliché che vorrebbero le donne meno focalizzate sul profitto, ma anche capaci di fare carriera unicamente sfruttando la propria estetica.

Come si rompe il soffitto? Allungando, ad esempio, il congedo di paternità, stabilendo una retribuzione più alta per il congedo parentale e incentivando la flessibilità lavorativa per entrambi i genitori. Ma tutto ciò è inutile se prima non ci liberiamo dai retaggi che, inconsciamente, ci portiamo dietro, e che spesso, purtroppo, hanno fra le prime vittime proprio le donne, convinte di essere “meno intelligenti”, “meno preparate”, “meno competenti”: fattori che contribuiscono a renderle meno ambiziose e fiduciose nel lavoro.

Per questo riconoscere e affrontare il pregiudizio inconscio è la base per costruire una cultura inclusiva in cui ognuno possa essere valutato per capacità, e non per il genere di appartenenza.

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