Il femminismo non è bianco! Call out al femminismo bianco dalle compagne nere

Le compagne nere ci hanno fatto call out, ci chiedono di uscire allo scoperto, di smettere di smorzare sul nascere qualsiasi discussione costruttiva con la nostra white fragility, aprire un dibattito serio e assumerci le nostre responsabilità. E quindi? Non rispondere, non usare il nostro privilegio per decostruirci, non assumere a lotta di tutte e tutti la lotta a cui esse ci stanno chiamando è già una risposta. Non è però una risposta femminista.

Non ho letto il libro di Carlotta Vagnoli, Maledetta Sfortuna. Non ancora.
Con il senno di poi mi domando, se di fronte al passaggio in cui Vagnoli usa la n-word senza censura e trigger warning io avrei avuto la prontezza, non dico di scriverle per chiedere ragione della cosa, ma di notare la problematica.

Contestualizzo: nel libro in questione Vagnoli trascrive da Facebook alcuni commenti d’odio rivolti a Carola Rackete che, oltre alla n-word, veicolano lo stereotipo dell’animalità sessuale dei corpi e degli uomini neri. La contestazione da parte di alcune femministe nere (e qualcuna, poche per la verità, bianche), sta appunto nella questione che lo slur sia stato deliberatamente utilizzato in chiaro, senza avvertimenti o censure volti a tutelare la sensibilità delle persone nere, potenziali lettrici e lettori.
Per slur, chiarisco, s’intende “un epiteto denigratorio e discriminatorio che offende un individuo in quanto appartenente a un gruppo per ragioni etniche, religiose, di orientamento sessuale ecc*”; il racial slur censurato in n-word credo sia chiaro a chiunque.

Quella di Vagnoli non è stata evidentemente la scelta ponderata di chi aderisce alla filosofia del linguaggio che condanna la razzializzazione della lingua, visto che altri slur del saggio sono stati censurati e che l’autrice stessa ha dato la sua versione dei fatti in quattro storie, riportate per intero in calce all’articolo, in cui ha parlato di ‘colossale superficialità’**.

Torno alla domanda iniziale e ne aggiungo altre:

  1. Il bias razziale che, al netto del rimpallo di responsabilità autrice-editore, è evidente abbia agito anche su una delle personalità centrali della ‘bolla femminista italiana social’, quanto agisce su di me e qualsiasi altra persona bianca che, oggi, voglia dirsi femminista?
  2. A parlare del libro in questione, dentro e fuori la bolla, sono stati in molte e molti: nessuna persona – soprattutto tra quelle femministe – ha davvero notato il razzismo intrinseco nel passaggio? O il problema è stato rilevato da qualcuna/o che ha però deciso di non sollevarlo e, in questo caso, perché?
  3. Ma soprattutto: una volta che il problema è stato segnalato da alcune attiviste nere e, quindi, diventato manifesto, perché la bolla non si è mossa con la solita solerzia a dibattere la questione? Attenzione! Muoversi, intendo, non per delegittimare il lavoro di Vagnoli, che parto dal presupposto sia valido e competente rispetto ai temi che tratta, ma per interrogarsi sulla necessità di approfondire il white privilege che accomuna qualsiasi persona bianca e il razzismo introiettato che anche da femministe e femministi agiamo inconsapevolmente.

Parto, nel tentativo di formulare risposte (o almeno di aprire un dibattito), dalla domanda 2 che pone due opzioni tra le quali non saprei quale scegliere. La prima – il fatto che chi ha letto non abbia colto il problema – ci consegna all’evidenza dell’insufficienza del nostro pensiero critico e femminista. Per quanto riguarda la seconda opzione, esattamente come la terza domanda, ci rimanda al silenzio di buona parte della bolla femminista sulla questione e ci costringe a interrogarci, io credo, in modo onesto, sulle dinamiche di potere della stessa.

Quest’ultima domanda, in particolare, mi preme.
Siamo pronte e pronti a sollevare dibattiti più o meno approfonditi sulla questione del giorno – statue di spigolatrici, Morelli o Montemagno di turno, Pio e Amedeo, Palombelli -; contribuiamo a polemiche che, mosse e mossi dalle migliori ragioni e finalità, perdono in più di un caso la complessità del dibattito e assumono i tratti del flame, con conseguenti modalità machiste ben note al potere eteropatriarcale; e poi?
Perché stiamo perdendo l’occasione di fare pratica femminista di auto-consapevolezza nel momento in cui ci troviamo davanti all’evidenza che la serpe del bias, in questo caso razzista, sta in seno o nel petto a tutte e tutti noi?

Se a chiedere queste cose fossi solo io, beninteso, potremmo tutte e tutti dirci pazienza! e andare avanti.
Ma a chiederlo sono varie persone BIPOC che meritano, a mio avviso, che si dia loro una risposta. Di più, un segnale.
Di tutti le questioni del giorno cui possiamo decidere di NON partecipare, NON avere un’opinione né l’ansia di doverla condividere, questa mi sembra l’unica davvero irrinunciabile: a interrogarci è una categoria marginalizzata, che sperimenta più livelli di discriminazione, alla quale non ci ostiniamo a definirci ally.
Non rispondere è una scelta precisa: manda un messaggio preciso!

Condivido la necessità di fare nostra la call-out di Kaaj S. Tshikalandand a Carlotta Vagnoli. perché è importante “andare oltre l’autrice e allargare le responsabilità”.

Call out, semplificando, è l’atto pubblico di chiamare un utente o una comunità alle proprie responsabilità rispetto ad azioni o affermazioni discriminatorie (in questo caso razziste, in altri potrebbero essere, per esempio, abiliste, transfobiche, sessiste, classiste, etc).
A questo proposito, di seguito ho tentato di raccogliere il call out delle compagne nere sulla questione e i vari focus di approfondimento proposti nei giorni scorsi alla luce di questa vicenda. L’intento è quello di contribuire all’apertura di un dibattito che porti ogni attivista in posizione di privilegio a interrogarsi e uscire dalla comfort zone che rischia di diventare seriamente escludente, elitaria e autoreferenziale (in parte la bolla lo è già!).

1. Il call out di Kaaj S. Tshikalandand

Parto da qui, perché

a) Kaaj S. Tshikalandand (danceofoya su Instagram), mediatrice culturale e antropologa, ha pubblicato uno dei pochi post che ha avuto un minimo di ricondivisione all’interno della bolla femminista social. Il post, embeddato di seguito, fa call out a tutto “il ‘femminismo’ troppo bianco” e solleva altre questioni fondamentali, tra cui:

  • il tone policing con cui noi che ci reputiamo attiviste/i continuiamo a riprodurre “le stesse dinamiche classiste paternaliste, privilegiate” e silenziare le donne razzializzate;
  • allyship: siamo alleate/i o complici di un sistema razzializzante?
  • perché le scuse non bastano. Non così!

b) Tshikalandand sul caso specifico e relativo silenzio assordante del femminismo bianco ha centrato poi la questione in modo chirurgico in tutti i suoi aspetti in questa serie di stories salvate in evidenza sul suo profilo sotto il nome di N* word?
Highlight su:

  • appello a non lasciare la questione sulle spalle delle donne razzializzate
  • non usare amicizie nere o BIPOC per accreditare il proprio anti razzismo

c) Con Kaaj S. Tshikalandand ho avuto una lunga telefonata nel corso della giornata di ieri.
I temi trattati sono stati tanti e parte delle nostre conversazioni confluiranno in successivi approfondimenti per ragioni di spazio. Segnalo di seguito solo alcune osservazioni che trovo particolarmente pertinenti alla questione.

Sia io sia Kaaj siamo d’accordo sul fatto che il femminismo intersezionale debba, in via ideale, rifiutare la polarizzazione tra femminismo bianco e nero. Pure, abbiamo scelto di adottare questa dicotomia per discutere alcune istanze del femminismo nero e BIPOC che il white feminism nelle intenzioni dichiara di accogliere, ma rispetto alle quali è molto inefficiente.
Da qui la distinzione tra i colori del femminismo, sintetica e insufficiente mi rendo conto, ma funzionale alla comprensione dell’argomentazione che segue; altra semplificazione funzionale: il termine femminismo viene spesso utilizzato di seguito e in altre parti di questo articolo per identificare il femminismo social italiano, che NON è tutto il femminismo italiano.

Partiamo dal call-out, tu stessa lo definisci una pratica tipica del femminismo nero e BIPOC. Non di quello bianco.

Un call out è – o dovrebbe essere – uno strumento costruttivo per intessere un dibattito, sollevare una questione a partire dall’errore di una persona singola che però non si riduce alla stessa. Quando il call out nasce con il preciso intento di puntare il dito e delegittimare la persona o il gruppo di persone prese in questione diventa un flame, perde cioè la sua componente di pensiero articolato e costruttivo ed esaurisce la sua capacità di fare comunità.
Il black feminism – e il femminismo BIPOC in generale – è molto più avvezzo a fare call out, anche e soprattutto ad attiviste e attivisti interni rispetto ad atteggiamenti discriminatori inconsapevoli o reiterati, perché è culturalmente più avvezzo a fare comunità.

Se con questo intendi che il femminismo bianco social è molto solerte a fare call out a persone fuori dalla bolla, mettendo i puntini sulle i ai “montemagno di turno”, salvo poi nascondere la propria polvere sotto il tappeto, sono d’accordo. Aggiungo, che credo ci sia non solo o non tanto una volontà di protezione nei confronti dei propri membri, quanto una sorta di timore nel contrastare alcune voci e nell’intessere un contraddittorio con loro per paura di essere silenziati lato social.

Io stessa, come ho precisato, prima di fare queste stories, mi sono interrogata sull’opportunità e sui rischi: il che la dice lunga.
Detto questo, io sono libera: nel senso che faccio divulgazione e cultura e attivismo, ma non capitalizzo sul mio account Instagram e sui miei follower, il che mi svincola da timori che, mi rendo conto, costringano influencer o attiviste/i a decidere quando sia meglio mordersi la lingua per non perdere il proprio lavoro.

Tu e alcune tue compagne nere state chiedendo al femminismo bianco di rendersi conto che “il re è nudo”: di prendere cioè consapevolezza dei propri bias razziali (e sicuramente anche di altra natura!) e aprire un dibattito. Il motivo per cui ritenete le scuse di Vagnoli non sufficienti e il silenzio della bolla femminista bianca altrettanto colpevole mi è chiaro e, comunque, è ben spiegato nelle tue stories. Ma in cos’altro difetta il femminismo bianco rispetto a quello BIPOC?

Questo caso è emblematico e rappresenta la lunga strada che ancora attende il femminismo italiano.
Ci sono tre punti in cui il white feminism mostra il fianco a una debolezza molto autoreferenziale:

1) È emergenziale: si muove sull’emergenza, sul tema del giorno o le parole che la tal persona ha detto e sull’adeguatezza o meno delle sue scuse; poi puff…
Altro giorno, altra polemica. Manca la volontà di creare percorsi e approfondimenti in ottica costruttiva e non estemporanea.

2) È performativo: caratteristica che è molto legata all’emergenzialità. Segue il trend del momento, non lascia il tempo alle argomentazioni di sedimentare, né al dibattito di svilupparsi. Intendo: catalizza l’attenzione e consuma il call out – posto che non diventi flame – senza aprire tavoli permanenti extra social per operare sviluppare azioni condivise e comunitarie. 

3) È intersezionale solo a parole, nel senso che non ricerca le voci davvero ai margini delle categorie marginalizzate, ma si accontenta di individuare delle soggettività che, per quanto marginalizzate, agiscono in una situazione di privilegio e, così facendo, si fa portavoce indiretto e involontario di un pensiero bianco e coloniale, che gode nel pensarsi inclusivo senza esserlo davvero.

Soprattutto chi è in ruolo di spicco all’interno del movimento dovrebbe essere consapevole del proprio potere e usarlo con la dovuta responsabilità, onde evitare di replicare certe dinamiche machiste tipiche del potere che non sono certo né democratiche né femministe: giusto? Mi sfugge però il modo e il motivo per cui, secondo te, il femminismo BIPOC sappia fare comunità in modo più costruttivo.

È una questione culturale, sociale e antropologica: le categorie marginalizzate si sono storicamente organizzate in comunità, sia per costituire una massa critica e sopravvivere, sia perché è la discriminazione stessa che ti porta quotidianamente a essere più ‘organizzato’. Un esempio: se sei una persona nera, sei quotidianamente preparato ad articolare pensieri e scegliere le parole per rispondere alla curiosità inconsapevolmente discriminatoria di chi ti vede come “l’altro”, nonché ad attuare atteggiamenti e strategie che ti tutelino dal subire quante più micro aggressioni quotidiane possibili.
La coscienza della nerezza è un senso di appartenenza che sviluppi a prescindere dal fatto di scegliere o meno di fare attivismo.
Siamo abituati a fare riflessione collettiva sui bias che subiamo e che abbiamo, a cercare di decostruire il privilegio bianco e a mettere il nostro, quando c’è, a servizio della comunità. Il femminismo bianco, proprio perché proviene dalla cultura bianca dell’oppressione, è inconsapevolmente portato a replicare uno schema gerarchico che finge o non si rende conto di essere tale.

In conclusione a questo primo step della conversazione con Kaaj S. Tshikalandand segnalo il libro White Tears/Brown Scars: How White Feminism Betrays Women of Color by Ruby Hamad, ovvero Lacrime Bianche/Cicatrici Marroni – Come il femminismo bianco tradisce le donne di colore, in cui la giornalista Ruby Hamad sostiene che il femminismo bianco sia stato, senza saperlo, un’arma della supremazia bianca e del patriarcato schierato contro le donne BIPOC.

Sul fatto che un femminismo che non si confronti davvero con le istanze BIPOC non solo non sia femminismo, bensì l’ennesima pratica bianca di potere, del resto, ci aveva del resto già avvertite anche bell hooks, in Ain’t I a Woman? Black Women and Feminism, che prende a sua volta il titolo dal discorso omonimo di Sojourner Truth.

Seguono altre voci dal dibattito del call out di questi giorni:

2. Le domanda di Laetitia Ingrid M. Leunkeu

Con il suo consenso, pubblico le screenshot di Laetitia Ingrid M. Leunkeu che ci ricorda di fare autocoscienza, non solo mettere i punti sulle i altrui, ma anche sulle nostre.

Instagram @marshallaetitia

Qui invece il link ad alcuni suoi articoli su Valigia Blu sul tema razzismo.
Laetitia Ingrid M. Leunkeu ha segnalato ieri anche un contenuto di @alicehumrah che rimanda a questo TedX di Silvia Semenzin con lo scopo di richiamarci tutte e tutti alla consapevolezza rispetto a cosa sono le piattaforme digitali, “le bolle, l’attivismo digitale/performativo”, alla responsabilità del loro utilizzo e alla “sacrosanta necessità di dissenso e conflitto, che ovviamente queste piattaforme fanno di tutto per scoraggiare”:

3. Sulle scuse e la rabbia come strumento per decostruire il privilegio

Sul problema del fatto che le persone BIPOC non sono considerate davvero come target del testo in questione e, in generale, dei testi scritti da autori bianchi e autrici bianche che parlano di femminismi e intersezionalità, il contributo di Stefania (@fioredarsenico su Instagram) sulla questione

Faccio notare il consiglio non dovuto ma prezioso sulle scuse:

Assumete le scuse con la rabbia! Decostruitevi con la rabbia. La stessa rabbia che viene usata per fare decostruire altre persone la dobbiamo anche riversare in noi stessi, ma non come attacco o come una sorta di autolesionismo, ma come motore reale ed energico per decostruire determinati bias che evidentemente ancora abbiamo.

4. Reminder: sei bianca/o? Godi del white privilege

Segnalo a questo proposito:

  • Il post di Nogaye Ndiaye:

5. E quindi?

Ci aspetta, io credo, la sfida di colmare i nostri bias nei fatti e di sfondare i soffitti di cristallo interni.
Continuiamo a dirlo e a ripeterlo: che il femminismo non è bianco, che il nostro privilegio di persone bianche e bla bla bla…. In teoria sono cose che dovremmo sapere e, posto che anche questa ci difetta, la teoria non basta più. Né possiamo continuare a delegare alle persone BIPOC la nostra educazione.

Scrive Jacklin Faye in Razzismo, contenuto all’interno del saggio corale dell’associazione Bossy ed edito da Tlon, Anche questo è femminismo:

Le minoranze non sono tenute a educare la società. Il nostro modo di fare antirazzismo non deve essere messo in discussuone da nessun3, e soprattutto non deve essere messo in discussione da una persona caucasica. Le minoranze non sono enciclopedie viventi, pronte a risolvere qualsiasi dubbio di chiunque abbia appena capito di vivere in una società razzista. Oltre a non essere tenut3 a educare, non siamo tenut3 a consolare e rassicurare.

Le compagne nere ci hanno fatto call out, ci chiedono di uscire allo scoperto, di smettere di smorzare sul nascere qualsiasi discussione costruttiva con la nostra white fragility, aprire un dibattito serio e assumerci le nostre responsabilità. E quindi?
Non rispondere, non usare il nostro privilegio per decostruirci, non assumere a lotta di tutte e tutti la lotta a cui esse ci stanno chiamando è già una risposta.
Non è però una risposta femminista.

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Note al testo

* Beatrice Cristalli, Parlare della fluidità di genere. Dentro la Generazione Z, Treccani.it, 07 gennaio 2021

** Segue il testo completo delle stories Instagram di Carlotta Vagnoli pubblicate il 12 ottobre 2021.
Sono esclusi eventuali aggiornamenti non disponibili fino alla pubblicazione del presente articolo, alle ore 16.54 del 13 ottobre 2021:

Nel fine settimana appena trascorso ho parlato a lungo con @leregoledeldirittoperfetto con la casa editrice (@fabbrieditori e la mia editor del libro per una colossale superficialità da me assecondata nella stampa del saggio. Giusto ieri ho fatto una riunione con @paolaberetta proprio per far uscire un comunicato sulla questione che vado a raccontarvi.
Nel riportare le citazioni da alcuni commenti Facebook mi sono fidata della scelta editoriale che vede, per prassi (e questo la dice già lunga, che non si censurino le citazioni altrui.
La scelta mi ha subito impensierita perché stonava non poco con un saggio in cui ogni slur viene da me censurato.
Nelle citazioni in questione riporto dei commenti di odio rivolti a Carola Rackete.
In questi commenti è presente la n-word. Che, appunto, per scelta editoriale non è stata poi censurata.
La grandissima superficialità di essermi fidata senza chiedere alle persone che quello slur lo subiscono è indubbia.
Come è indubbio che la prassi a cui mi sono appoggiata derivi da un sistema, quello editoriale, vecchio e bianco.
Nel non pormi in rottura con un sistema, io di fatto lo ho assecondato e questo non è perdonabile o giustificabile in alcun modo.
Mi piace chiamare le cose con il proprio nome e io sono stata davvero superficiale e molto poco inclusiva: sarebbe bastato esporre i miei dubbi sulla cosa ad una persona che queste discriminazioni le vive e impuntarmi contro la scelta editoriale.
Sono in una posizione di privilegio: potevo farlo e non l’ho fatto.
E questo è sicuramente ingiustificabile e me ne prendo totalmente ogni responsabilità.
Ieri pomeriggio, in riunione con @fabbrieditori ho chiesto -con estremo ritardo- che dalla prossima ristampa queste citazioni di terzi vengano censurate.Ho chiesto anche a Fabbri di prendere una netta posizione su questa cosa, in modo da creare un precedente e che questo mio errore possa quantomeno interrompere una prassi di questo tipo. Prassi per giunta usata da qualsiasi casa editrice, quindi figuriamoci come stiamo messo.
Non pormi in rottura con un sistema vuol dire che ho l’enorme privilegio di non subire una determinata discriminazione.
Spero che questo mio errore diventi utile a tutte le persone che si approcciano all’editoria.
Non perché si fa da sempre allora vuol dire che è valido, dovremmo e dovrei saperlo. E se una cosa non ci suona anziché fare come me chiediamo alle persone interessate. Rinnovando il mio incredibile rammarico per non essere stata un’alleata all’altezza e sicuramente accorta, spero vivamente che questo almeno possa creare un precedente utile. Chiedo ovviamente scusa a tutte le persone che quello slur lo vivono sulla loro pelle: non sono stata assolutamente una alleata e mi rammarico di ogni trigger che è venuto da questo errore. Attendendo anche una presa di posizione da @fabbrieditori vi porgo ancora le mie più sentite scuse.

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