Se è la famiglia a frenare le donne perché anche le single non fanno carriera?

Non solo le mogli e le madri, ma anche le donne single incontrano numerosi ostacoli nel proprio percorso lavorativo a causa di stereotipi e discriminazioni di genere ancora vivi. Conseguenze: salario minore, contratti precari, part-time, inoccupazione e inaccessibilità a ruoli di prestigio.

Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro dell’inoccupazione femminile. Non l’avevano pensata proprio così, Marx ed Engels, ma, se fossero vissuti nel corso della pandemia da Covid-19, avrebbero sicuramente notato uno dei dati più lampanti del panorama professionale odierno: le donne lavorano e sono pagate meno degli uomini. E, in tempi di crisi, si ritrovano costrette a rinunciare ai propri impieghi in misura nettamente maggiore rispetto ai colleghi del comparto maschile.

Come rivela il rapporto dell’Istat dello scorso dicembre, infatti, a fine 2020 la disuguaglianza sociale ha toccato la sua acme, con 101.000 occupati in meno, di cui 99.000 solo donne. Tradotto: le donne costituiscono il 70% delle persone risultate disoccupate o inattive a causa della crisi.

La quale, come si evince da una semplice lettura dei dati, non è solo sanitaria, ma anche, e soprattutto, economica e sociale. E contribuisce, così, ad allargare sempre di più la faglia della disparità di genere presente nel mercato del lavoro e antecedente alla pandemia, la cui fisionomia vede, come caratteri particolari, gender pay gap – pari al 12%, come riporta Il Sole 24ore –, discriminazione, stereotipi, inaccessibilità a posizioni di rilievo e disequilibrio nella cura familiare.

Ma tutto questo è solo la punta dell’iceberg.

Donne, madri e carriere

Sebbene gli anni ‘50 si siano conclusi da decenni e le battaglie intercorse siano state innumerevoli, il mondo del lavoro sembra ancora fare fatica ad affrancarsi da quei ruoli di genere che, dalla rivoluzione industriale a oggi, ne caratterizzano le dinamiche.

Lo dimostra con perizia lo studio della Harvard Business Review, che ha tentato di individuare le ragioni alla base del dislivello lavorativo tra uomini e donne e le conseguenti difficoltà riscontrate da queste ultime, da sempre segregate a ruoli occupazionali di minore responsabilità o a orari di lavoro ridotti.

Osservando da vicino la realtà di un’azienda nell’arco di 18 mesi e intervistandone 107 dipendenti, lo studio ha rivelato un fattore importante: volente o nolente, uomini e donne sono succubi della «narrativa lavoro/famiglia», interiorizzata al punto da non far scorgere loro le alternative che potrebbero essere proposte e adottate in ambito professionale e privato.

Dall’Ottocento a oggi, infatti, il problema è sempre lo stesso: le donne sono socialmente chiamate a perseguire il proprio «destino biologico» di madri – come direbbe Simone de Beauvoir – e a considerare, quindi, il lavoro come un mero aspetto secondario della propria vita.

E per le donne che madri desiderano diventarle sul serio, la fatica è ancora doppia. Al parto segue, appunto, una lunga sequela di sacrifici, compromessi e frustrazioni, che, nel loro susseguirsi, divengono complici di rendere l’orizzonte del successo lavorativo sempre più distante e irrealizzabile. Acuendo, inoltre, la ormai marcata dicotomia tra l’impiego remunerato e quello invisibile e non pagato: il lavoro di cura e responsabilità familiare.

Il prototipo discriminatorio su cui quest’ultima affonda le proprie radici è il cosiddetto male breadwinner model, ossia l’idea che siano gli uomini a dover provvedere al sostentamento economico e salariale della famiglia mentre le donne, angeli del focolare, debbano essere dedite al lavoro domestico e all’accudimento di tutti i membri del nucleo parentale.

Si tratta della cosiddetta “cultura della cura”, in base alla quale, come spiega anche The Vision, a creare criticità e differenze – soprattutto – nel mercato del lavoro siano ruoli impostisi nel corso degli ultimi secoli e calcificatisi nel nostro “subconscio” collettivo: le donne sarebbero, per natura, votate alla famiglia e a tutto ciò che la concerne, dal momento che, per loro, si suppone che «la famiglia sia la cosa più importante». Una convinzione corroborata anche dal minore salario percepito, che renderebbe, così, le donne maggiormente flessibili e disponibili ai cosiddetti “lavori invisibili”.

Viceversa, agli uomini spetterebbe il ruolo di “lavoratori ideali”, affezionati ai loro cari ma sostanzialmente indipendenti da questi ultimi: orbite solitarie che entrano ed escono con elasticità dal contesto parentale e che, pur soffrendo la lontananza da mogli e prole, non concorrono, tuttavia, a decostruire le dinamiche in vigore, proiettando, anzi, la propria sofferenza sulle colleghe.

L’intensità scaturita dal diventare genitore, come ha notato lo studio della Harvard Business Review, sarebbe, appunto, solo “transitoria”, e cederebbe presto il posto a una comprensione fittizia delle complessità relative alla conciliazione tra casa e lavoro, surclassate a semplice “problema delle donne”.

Ne deriva, allora, che queste ultime, per rispettare i dettami sociali cui sono soggiogate e cercare un equilibrio tra la sfera pubblica e privata, siano più inclini ad accettare impieghi part-time o precari, con conseguenze disastrose sia a livello professionale, sia a livello privato: da un lato, infatti, si assiste a uno “stallo” e a mancati avanzamenti di carriera, dall’altro, invece, se impegnate sul lavoro e non completamente rivolte ai figli, risulta inficiato i loro status di “buone madri”.

È indicativo, in questo senso, lo studio della Harvard Business School, che, intervistando 25.000 ex studenti, ha rivelato come questi ruoli siano ormai tragicamente cementificati: il 70% degli uomini ha, infatti, ammesso che la propria carriera sia più importante di quella delle mogli, alle quali, come ha risposto l’86% del comparto maschile, spetterebbe prendersi maggiormente cura di casa e bambini.

E se le donne con prole decidessero di continuare a lavorare e di contribuire al benessere economico della famiglia, lo stigma che si impone è, come accennato, mortificante: anziché essere considerato un vantaggio – come accade agli uomini –, l’essere madri relega le donne in panchina, con orari e incarichi ridotti e minore considerazione sul posto di lavoro.

In ogni caso, dunque, vi sarà sempre un pregiudizio pronto. Qualsiasi sia la scelta adottata.

La “segregazione occupazionale”

Mother at work
Fonte: Pexels

La scarsa – e, perlopiù, assente – accessibilità a posizioni apicali, la costrizione a impieghi part-time, il sollevamento da determinati ruoli e incarichi e la diffusa precarietà dei contratti non sono, tuttavia, criticità che interessano solo le mogli e le madri. Nonostante l’assenza di mariti e figli cui badare, anche le donne single, infatti, incontrano numerosi ostacoli lungo il proprio percorso professionale.

L’equazione è semplice: il problema è culturale. E ha un nome preciso: “segregazione occupazionale”, foriera di disequilibrio di genere e stereotipizzazioni. Lo spiega bene la UIL, la quale distingue la segregazione occupazionale in due forme: orizzontale e verticale.

La prima concerne i ruoli e i pregiudizi di genere, autori di una mancata flessibilità lavorativa e di un’endemica assenza delle donne in specifici settori, ambiti e mansioni, basata, quest’ultima, sulla convinzione della presenza di un dislivello di competenze e capacità delle stesse rispetto ai colleghi uomini.

Quella verticale, invece, rende sostanzialmente impossibile il raggiungimento di posizioni di prestigio e maggiore responsabilità, limitando, di fatto, l’accesso alle donne a professioni che esulano dalla sfera “tradizionalmente” considerata femminile, quindi di “cura”. Ne derivano basse retribuzioni, prospettive di carriera limitate e condizioni di lavoro umilianti.

Un fenomeno reso ancora più evidente dalla pandemia. Impiegate perlopiù nei settori domestici e dei servizi – come si legge su Wired –, caratterizzati da contratti instabili e scarsa tutela, le donne sono state immolate agli effetti collaterali della crisi, che ha visto le posizioni “inferiori” della piramide occupazionale irrimediabilmente falciate e sacrificate. Con una deriva, naturalmente, tragica per le donne stesse.

Non è un caso che la segregazione occupazionale, come si legge su Il Post, sia il frutto dei primi vagiti del capitalismo e di una serie di stereotipi da questo – letteralmente – prodotti. La partita si è, infatti, sempre giocata su una contrapposizione netta: da un lato, le donne e i loro mestieri “gentili” (insegnante, infermiera, balia), dall’altro, gli uomini e la loro prestanza fisica, più “idonea” ad ambiti lavorativi di comando e responsabilità (fabbrica, medicina, magistratura).

A fare da collante, la nozione di prestigio sociale e, soprattutto, un certo timore da parte degli uomini a proposito dell’ingresso femminile nel mercato del lavoro, che li avrebbe resi preoccupati per una possibile riduzione del salario e per una – supposta – mancanza di aderenza ai ruoli tradizionalmente maschili, a causa dei sentimenti e degli impulsi che governerebbero le donne.

Insomma, una storia vecchia. Ma non così tanto da rendere le donne consapevoli fino in fondo del proprio valore lavorativo. Lo si evince dall’ultima ricerca commissionata dal network LinkedIn in occasione della Giornata internazionale della donna, che ha analizzato le motivazioni in base alle quali le donne si sentirebbero meno meritevoli degli uomini in ambito professionale.

Lo studio, come riportato su Ansa, ha, infatti, reso evidente come, ancora oggi, il 44% delle donne intervistate si senta poco legittimata a conseguire promozioni o aumenti di stipendio, contro il 40% degli uomini.

Una percezione che conduce irrimediabilmente le donne a non progredire nella propria carriera, portandole ad avere difficoltà a negoziare la paga (47%), o, addirittura, a non averlo mai fatto (37%) perché a disagio, a non chiedere un aumento di stipendio (37%, contro il 51% degli uomini) o ad attendere a lungo prima di parlarne con il proprio datore di lavoro (18 mesi, a differenza dei 15 degli uomini).

Alle trattative dei salari si affianca, poi, un’altra problematica: le aspettative percepite e proiettate, che portano le donne alla volontà di soddisfare il 53% delle competenze richieste prima di candidarsi a una promozione, contro il 49% ritenuto necessario dai colleghi uomini. Una soglia che incontra ostacoli con l’avanzare dell’età e l’acuirsi del carico mentale, costringendo le donne a vedere le proprie prospettive di carriera ridotte o del tutto modificate a causa degli stereotipi di cura già evidenziati o di una minore “appetibilità” a livello lavorativo.

Da qualsiasi angolazione la si guardi, quindi, l’occupazione femminile continua a subire gravi contraccolpi, ostracismi e battute d’arresto. Provocati, nella maggior parte dei casi, da stereotipi e ruoli di genere vetusti che, ancora oggi, relegano le donne a posizioni di scarso prestigio economico e sociale. E spostano sempre più lontano l’orizzonte di una carriera di successo, in un cammino costellato di ostacoli e discriminazioni.

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