Il 13 luglio 2015 una tragedia ha riacceso i riflettori sul caporalato in Italia e sulle correlate condizioni di lavoro. Paola Clemente, infatti, è stata stroncata da un infarto mentre lavorava all’acinellatura dell’uva, in Puglia.

Da sempre impiegata nei campi, Clemente abitava a San Giorgio Jonico e, ogni giorno, prendeva l’autobus alle 3.30 di notte per raggiungere il campo di Andria, a 160 chilometri di distanza. Quando non erano previsti straordinari, la sua giornata lavorativa proseguiva fino alle 15.30, cui seguivano, come all’andata, altre due ore di autobus.

Quando è mancata, Paola Clemente aveva 49 anni, un marito e tre figli. Grazie all’intervento della CGIL locale, però, la sua morte non è passata inosservata, e la Procura di Trani ha deciso di aprire un fascicolo apposito, avviando un’inchiesta che ha portato all’arresto di sei persone a ha avuto il merito di porre in luce lo sfruttamento sistemico cui era sottoposta insieme ad altre 600 braccianti. Il tutto per 2 euro all’ora.

Il salario misero e le condizioni di lavoro disumane non sono, tuttavia, gli unici elementi cui guardare con attenzione, quando si parla di caporalato. In tale ambito, infatti, le più sfruttate tra gli sfruttati sono proprio le donne, pagate meno degli uomini e spesso vittime di violenze e avances sessuali e ricatti morali.

Vediamone i dettagli.

Donne e caporalato: tra violenze sessuali e paghe inferiori

Come osservato da Jean-René Bilongo, il responsabile Flai-Cgil dell’Osservatorio Caporalato e Agromafie Placido Rizzotto:

Nel bene e nel male, nella filiera legale come in quella sommersa, nelle serre e nei processi di trasformazione ad alto valore aggiunto la maggior parte della manodopera impiegata è femminile.

Alla base, oltre alla necessità di lavorare e di contribuire alle spese familiari, vi è, spesso, anche un pensiero discriminatorio e stereotipato. Come precisa Bilongo, infatti:

Le donne vengono impiegate nelle serre perché in alcune colture c’è bisogno di maggiore delicatezza e precisione e loro vengono considerate più attente. Così come sono impiegate in alcuni tipi di processi di trasformazione perché sono considerati para-familiari e quindi più affini per cultura o semplicemente per genere.

A confermarlo sono proprio i dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto, il quale ha stimato che su 430 mila lavoratori vittime di sfruttamento, il 42% è costituito da donne – di cui più del 30%, in alcune zone, lavora nella completa illegalità, come riportato dal sito Aggiornamenti sociali.

Oltre agli orari massacranti, alle temperature che toccano i 45 gradi, a giornate di lavoro che superano spesso le dieci/dodici ore e all’impossibilità di mangiare, bere e andare in bagno, tuttavia, le donne si ritrovano costrette a fronteggiare anche altri tipi di degradazione e abuso.

Il primo è quello monetario. Le donne vengono impiegate nel lavoro dei campi perché costano poco e guadagnano tra i cinque e i dieci euro in meno, a giornata, rispetto ai colleghi maschi (alimentando, anche in questo ambito, il gap salariale). E, inoltre, sono di gran lunga più ricattabili, come dimostra il caso delle immigrate, costrette ad accettare condizioni professionali usuranti al fine di garantire la sopravvivenza della famiglia di origine e di quella che hanno costruito in Italia.

Buona parte di ciò che viene guadagnato, inoltre, viene detratto e dato in mano ai caporali e alle associazioni intermediarie. Come racconta la bracciante Angela (nome di fantasia) al Il Fatto Quotidiano:

La giornata lavorativa iniziava alle 5.30, ma spesso dovevamo andare a lavorare in zone distanti da Taranto, ad esempio nel Barese, a due ore e mezzo di viaggio in furgoni omologati per nove persone e nei quali entravamo in diciotto. Quindi partivamo alle 2.30. Sette ore di lavoro minimo, poi c’erano gli straordinari e allora si poteva arrivare anche a dodici. Ma molte di queste ore non erano pagate. Il caporale ci faceva lavorare ogni giorno, non ci riposavamo nemmeno la domenica. Poi a fine mese ci diceva: “Ti ho segnato venti giorni”. Così tu sapevi che gli altri dieci, più gli straordinari, se li intascava lui o facevano risparmiare l’azienda sulle paghe. Prendevamo al massimo 600 euro al mese.

Senza dimenticare, poi, le violenze e le molestie sessuali, che, secondo la giurista e attivista americana Catharine MacKimmon, contribuirebbero a mantenere le donne in una posizione di subordinazione e schiavismo, perpetrando, mediante una violenza di genere, anche una violenza economica.

Come si legge sul sito La via libera, infatti,

la violenza e lo sfruttamento sessuale sembrano costituire – specialmente in alcune zone del paese fortemente segnate da fenomeni di illegalità e criminalità organizzata – un elemento quasi sistematico di un modello produttivo che si basa sull’abuso di condizione di vulnerabilità delle donne e sulla loro necessità di non perdere il lavoro. […] Nelle campagne pugliesi, per esempio, l’accesso al corpo delle operaie agricole comunitarie è considerato un diritto dei datori di lavoro e degli intermediari. I caporali rumeni decidono giornalmente se destinare le donne alla raccolta o ai rapporti sessuali forzati.

La maggior parte delle donne, però, non possono sottrarsi e sono costrette a fare “buon viso a cattivo gioco” pur di non perdere il posto di lavoro e di garantire un futuro rispettabile a se stesse e ai propri familiari. Divenendo vittime, così, di dinamiche di ricatto sempre più difficili da spezzare, anche a causa dell’omertà e del silenzio – per paura o interessi personali – di cittadini e istituzioni politiche locali.

I progetti a sostegno delle donne

Negli ultimi anni, tuttavia, soprattutto in seguito al caso di Paola Clemente, qualcosa, a livello legislativo, si è mosso.

Il primo esempio è proprio la legge che ha garantito l’incarcerazione dei sei complici coinvolti nel caporalato delle campagne di Andria, incastrati grazie alla denuncia del marito di Clemente e della CGIL e alla massiva inchiesta che ne è scaturita.

La legge contro il caporalato, introdotta nel 2016 per volere dell’allora ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, prevede una serie di interventi che dovrebbero dissuadere gli illeciti, tra cui: la detenzione fino a sei anni per chi sfrutta i lavoratori dell’agricoltura, la confisca dei beni, l’arresto in flagranza e l’individuazione dell’indice di sfruttamento nei salari troppo bassi, negli straordinari non pagati e nella violazione delle regole per la sicurezza.

Oltre alla legge, poi, è particolarmente degno di nota anche il progetto promosso da Yvan Sagnet, ex sindacalista e leader di una delle proteste più importanti contro il caporalato – quella del 2015 a Nardò –, in collaborazione con l’associazione NoCap, il gruppo Megamark e la rete Parlaterra, e chiamato “Donne braccianti contro il caporalato”.

La loro cooperazione ha, infatti, dato vita al primo esperimento di filiera bio-etica in agricoltura, la quale ha consentito l’assunzione di decine di braccianti in Puglia, Sicilia e Basilicata regolarmente dotate di un contratto dignitoso, che, conformemente a quanto dichiarato dalla legge, prevede una giornata lavorativa di sei ore e mezzo e un compenso di 70 euro lordi.

Il nostro sforzo è dire che siamo tutti uguali – conferma Lucia Pompigna, coinvolta nel progetto –, abbiamo tutti e tutte lo stesso problema, abbiamo bisogno di lavorare e possiamo farlo insieme, rispettando i nostri diritti e la nostra dignità.

Affinché più nessuno possa essere sfruttato.

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